Consolazione,
Bisogno di consolazione
una parte non piccola della popolazione italiana ha bisogno di essere
consolata. Ha bisogno di conforto, di una parola amica, di una speranza,
di qualcuno che capisca le sue sofferenze. Molte persone non si
sarebbero suicidate se avessero avuto almeno un barlume di speranza, un
pochino di calore umano.
Riflettendo sulla consolazione mi sono
tornate alla memoria due cose: il discorso della Montagna di Gesù e le
straordinarie penetranti parole del monaco dei fratelli Karamazov di
Dostoesckij lo starec Zosima. Il Monaco consolava con la parola non
avendo niente altro da offrire. Ma aveva la capacità di squarciare il
muro di sofferenza che circondava le creature più indifese ed offese
dalla vita e di arrivare al loro cuore..
Da “Le donne credenti”, II libro de I fratelli Karamazov
Molte delle donne che si affollavano attorno a lui versavano lacrime di
gioia e di commozione, sotto l’impressione del momento; altre cercavano
di spingersi avanti anche solo per baciargli il lembo della veste,
altre ancora si lamentavano. Egli le benediceva tutte e ad alcune
rivolgeva qualche parola...
– Eccone una che viene da lontano! –
disse lo starec, indicando una donna non ancora vecchia ma molto magra e
smunta, dal viso più che abbronzato addirittura quasi nero. La donna
stava in ginocchio e guardava lo starec con gli occhi fissi. C’era in
quello sguardo un’espressione esaltata.
– Da lontano, bàtjuska,
da lontano, trecento versty da qui... Da lontano, bàtjuska, da
lontano... – cantilenava la donna, dondolando pian piano la testa da una
parte all’altra e appoggiando una guancia sulla palma della mano.
Parlava come se si lamentasse. C’è nel popolo un dolore silenzioso e
paziente, esso si ritrae in sé e tace. Ma esiste anche un dolore
lacerante; esso erompe una volta in lacrime disperate e da quell’istante
si sfoga in lamenti. Specialmente nelle donne. Ma non è meno penoso del
dolore silenzioso. I lamenti danno sollievo, sì, ma corrodono e
lacerano il cuore ancora di più. Un tale dolore non vuole neanche
conforto, si nutre della consapevolezza della propria indistruttibilità.
I lamenti non esprimono altro che il bisogno di irritare continuamente
la ferita.
– Sei della città? – proseguì lo starec, guardando fissamente la donna.
– Della città, padre, della città; veramente siamo gente di campagna,
ma viviamo in città. Sono venuta, padre, per vederti. Abbiamo sentito
parlare di te, bàtjuska, ne abbiamo sentito parlare. Ho seppellito un
bambino piccoletto, poi sono andata a pregar Dio. In tre monasteri sono
stata e mi hanno detto: «Nastàsjuska, va’ anche laggiù», ossia qui da
voi, angelo santo. Sono venuta, ieri sono stata alla liturgia notturna,
ed ecco che oggi sono qui da voi.
– Perché piangi?
–
Piango il mio figlioletto, bàtjuska; aveva quasi tre anni; ancora due
mesi e avrebbe avuto tre anni. È per il mio bimbetto, padre, che mi
tormento. Era l’ultimo figliuolo che ci era rimasto: quattro ne abbiamo
avuti, io e Nikìtuska, ma in casa nostra, padre benamato, i bimbi non
campano. I tre primi li ho sotterrati io, ma non li ho pianti troppo, ma
quest’ultimo l’ho sotterrato e non lo posso dimenticare. È proprio come
se fosse qui davanti a me, e non si allontana. Mi ha disseccato
l’anima. Guardo i suoi pannolini, la camiciuola, le scarpette e
singhiozzo. Tiro fuori tutto ciò che è rimasto di lui, guardo ogni cosa,
e piango. Dico a Nikìtuska, mio marito: «Padrone mio, lasciami andare
in pellegrinaggio». Lui è vetturino, non siamo poveri, padre, non siamo
poveri: lavoriamo per conto nostro, e sono nostri cavalli e carrozza. Ma
a che ci serve ora la roba? Si sarà messo a bere il mio Nikìtuska,
senza di me; di certo è così; anche prima, non appena mi voltavo, lui
subito si disanimava. Ma adesso non penso neppure più a lui. Già da tre
mesi sono lontana da casa. Ho dimenticato, ho dimenticato tutto e non
voglio più ricordare nulla; e poi che cosa farei adesso con lui? L’ho
finita con lui, l’ho finita, l’ho finita con tutti. E non vorrei neppure
più rivedere la mia casa, né la mia roba, non vorrei vedere più nulla!
– Senti, madre – proferì lo starec –, un grande santo dei tempi antichi
vide una volta in un tempio una mamma che piangeva come te; anche lei
piangeva il suo figlioletto, l’unico che aveva e che il Signore aveva
chiamato a sé. «Non sai» le disse quel santo «come questi bambinelli se
ne stanno tutti fieri davanti al trono di Dio? Nel regno dei cieli non
c’è nessuno più fiero di loro. Tu, o Signore, dicono a Dio, ci hai
donato la luce; noi l’abbiamo appena veduta e Tu ce l’hai ripresa. E
pregano e chiedono con tanta baldanza che il Signore concede subito loro
il grado di angeli. Perciò, disse quel santo, gioisci anche tu, donna, e
non piangere perché il tuo piccolo è ora vicino al Signore nella
schiera dei Suoi angeli». Ecco cosa disse in tempi antichi quel santo
alla donna piangente. Ed egli era un grande santo e non poteva non dirle
il vero. Perciò sappi anche tu, o madre, che il tuo bambinello è oggi
presso il trono del Signore e gioisce, si rallegra, e prega Dio per te.
Non piangere quindi neppur tu, ma gioisci.
La donna lo ascoltava con la guancia appoggiata alla mano e con gli occhi bassi. Sospirò profondamente.
– Anche Nikìtuska, per consolarmi, mi parlava proprio come te. «Non sei
ragionevole» mi diceva. «Perché piangi? Il nostro bambinello è vicino
al Signore Iddio e canta insieme con gli altri angeli». Mi dice così, ma
piange anche lui; lo vedo che piange come me. «Lo so, Nikìtuska», dico
io, «dove potrebbe essere se non accanto al Signore Iddio?... ma qui con
noi ora non c’è più, Nikìtuska, non è più seduto qui vicino a noi come
prima...». Se lo vedessi solo una volta, se potessi rivederlo una volta
ancora! Non mi avvicinerei, non gli direi neppure una parola, mi
nasconderei in un angolo pur di vederlo un attimo, pur di sentirlo
giocare nel cortile e poi venire, come una volta, gridando con la sua
vocetta: «Mammina, dove sei?» Potessi solo una volta, una volta sola
sentirlo camminare nella stanza con i suoi piedini che facevano toc
toc!... Mi ricordo che quasi sempre correva da me gridando e ridendo!
Potessi solo sentire i suoi piedini, sentirli, riconoscerli! Ma lui non
c’è più, bàtjuska, non c’è più e non lo sentirò mai più! Ecco qui la sua
cinturina, ma lui non c’è più e io non potrò mai più né vederlo né
sentirlo!
Essa cavò dal seno la piccola cintura di passamano
del suo bimbetto e, al solo vederla, fu scossa dai singhiozzi e si coprì
il volto con le dita attraverso le quali colarono rivi di lacrime.
– Questa – disse lo starec – questa è l’antica «Rachele che piange i
suoi figli e non può consolarsi perché essi non sono più»; tale è la
sorte assegnata sulla terra a voi madri. E tu non consolarti, non
occorre che tu ti consoli, piangi pure; ma, ogni volta che piangi,
ricordati che il tuo bambino è uno degli angeli di Dio, che di là ti
guarda e ti vede, gioisce delle tue lacrime e le indica al Signore
Iddio. E ancora a lungo durerà questo tuo sublime pianto di madre, ma
alla fine si trasformerà in una quieta gioia, e le tue amare lacrime non
saranno più che lacrime di dolce tenerezza e di purificazione del cuore
che laveranno la tua anima dal peccato. Io pregherò per la pace del tuo
bambino: come si chiamava?
– Alekséj, bàtjuska.
– È un bel nome. In ricordo di Alekséj «uomo di Dio?».
– Di lui, bàtjuska, di lui, di Alekséj «uomo di Dio».
– Quale grande santo! Pregherò, madre, pregherò e nella mia preghiera
ricorderò la tua afflizione e pregherò anche per la salute di tuo
marito. Però tu commetti peccato ad abbandonarlo. Torna da tuo marito e
abbi cura di lui. Di lassù il tuo piccolo vedrà che hai abbandonato il
suo papà e piangerà per voi; perché vuoi turbare la sua beatitudine? Lui
è vivo, vivo, giacché l’anima vive in eterno; non è nella casa, ma è
invisibile accanto a voi. Ma come potrà venire nella sua casa, se tu
dici che hai preso a odiarla, la tua casa? Da chi dunque andrà, se non
troverà insieme il babbo e la mamma? Adesso tu lo sogni e ti tormenti,
ma allora egli ti manderà dei sogni tranquilli. Va’ da tuo marito,
madre, va’ oggi stesso.
– Andrò, caro, seguirò i tuoi consigli. Mi hai sconvolto il cuore. Nikìtuska, Nikìtuska mio, tu mi aspetti, caro, mi aspetti…
[1] Cfr. AA.VV., Il santo starec Amvrosij del monastero russo di Optina, Abbazia di Martina Pragliola
Bisogno di consolazione
una parte non piccola della popolazione italiana ha bisogno di essere consolata. Ha bisogno di conforto, di una parola amica, di una speranza, di qualcuno che capisca le sue sofferenze. Molte persone non si sarebbero suicidate se avessero avuto almeno un barlume di speranza, un pochino di calore umano.
Riflettendo sulla consolazione mi sono tornate alla memoria due cose: il discorso della Montagna di Gesù e le straordinarie penetranti parole del monaco dei fratelli Karamazov di Dostoesckij lo starec Zosima. Il Monaco consolava con la parola non avendo niente altro da offrire. Ma aveva la capacità di squarciare il muro di sofferenza che circondava le creature più indifese ed offese dalla vita e di arrivare al loro cuore..
Da “Le donne credenti”, II libro de I fratelli Karamazov
Molte delle donne che si affollavano attorno a lui versavano lacrime di gioia e di commozione, sotto l’impressione del momento; altre cercavano di spingersi avanti anche solo per baciargli il lembo della veste, altre ancora si lamentavano. Egli le benediceva tutte e ad alcune rivolgeva qualche parola...
– Eccone una che viene da lontano! – disse lo starec, indicando una donna non ancora vecchia ma molto magra e smunta, dal viso più che abbronzato addirittura quasi nero. La donna stava in ginocchio e guardava lo starec con gli occhi fissi. C’era in quello sguardo un’espressione esaltata.
– Da lontano, bàtjuska, da lontano, trecento versty da qui... Da lontano, bàtjuska, da lontano... – cantilenava la donna, dondolando pian piano la testa da una parte all’altra e appoggiando una guancia sulla palma della mano. Parlava come se si lamentasse. C’è nel popolo un dolore silenzioso e paziente, esso si ritrae in sé e tace. Ma esiste anche un dolore lacerante; esso erompe una volta in lacrime disperate e da quell’istante si sfoga in lamenti. Specialmente nelle donne. Ma non è meno penoso del dolore silenzioso. I lamenti danno sollievo, sì, ma corrodono e lacerano il cuore ancora di più. Un tale dolore non vuole neanche conforto, si nutre della consapevolezza della propria indistruttibilità. I lamenti non esprimono altro che il bisogno di irritare continuamente la ferita.
– Sei della città? – proseguì lo starec, guardando fissamente la donna.
– Della città, padre, della città; veramente siamo gente di campagna, ma viviamo in città. Sono venuta, padre, per vederti. Abbiamo sentito parlare di te, bàtjuska, ne abbiamo sentito parlare. Ho seppellito un bambino piccoletto, poi sono andata a pregar Dio. In tre monasteri sono stata e mi hanno detto: «Nastàsjuska, va’ anche laggiù», ossia qui da voi, angelo santo. Sono venuta, ieri sono stata alla liturgia notturna, ed ecco che oggi sono qui da voi.
– Perché piangi?
– Piango il mio figlioletto, bàtjuska; aveva quasi tre anni; ancora due mesi e avrebbe avuto tre anni. È per il mio bimbetto, padre, che mi tormento. Era l’ultimo figliuolo che ci era rimasto: quattro ne abbiamo avuti, io e Nikìtuska, ma in casa nostra, padre benamato, i bimbi non campano. I tre primi li ho sotterrati io, ma non li ho pianti troppo, ma quest’ultimo l’ho sotterrato e non lo posso dimenticare. È proprio come se fosse qui davanti a me, e non si allontana. Mi ha disseccato l’anima. Guardo i suoi pannolini, la camiciuola, le scarpette e singhiozzo. Tiro fuori tutto ciò che è rimasto di lui, guardo ogni cosa, e piango. Dico a Nikìtuska, mio marito: «Padrone mio, lasciami andare in pellegrinaggio». Lui è vetturino, non siamo poveri, padre, non siamo poveri: lavoriamo per conto nostro, e sono nostri cavalli e carrozza. Ma a che ci serve ora la roba? Si sarà messo a bere il mio Nikìtuska, senza di me; di certo è così; anche prima, non appena mi voltavo, lui subito si disanimava. Ma adesso non penso neppure più a lui. Già da tre mesi sono lontana da casa. Ho dimenticato, ho dimenticato tutto e non voglio più ricordare nulla; e poi che cosa farei adesso con lui? L’ho finita con lui, l’ho finita, l’ho finita con tutti. E non vorrei neppure più rivedere la mia casa, né la mia roba, non vorrei vedere più nulla!
– Senti, madre – proferì lo starec –, un grande santo dei tempi antichi vide una volta in un tempio una mamma che piangeva come te; anche lei piangeva il suo figlioletto, l’unico che aveva e che il Signore aveva chiamato a sé. «Non sai» le disse quel santo «come questi bambinelli se ne stanno tutti fieri davanti al trono di Dio? Nel regno dei cieli non c’è nessuno più fiero di loro. Tu, o Signore, dicono a Dio, ci hai donato la luce; noi l’abbiamo appena veduta e Tu ce l’hai ripresa. E pregano e chiedono con tanta baldanza che il Signore concede subito loro il grado di angeli. Perciò, disse quel santo, gioisci anche tu, donna, e non piangere perché il tuo piccolo è ora vicino al Signore nella schiera dei Suoi angeli». Ecco cosa disse in tempi antichi quel santo alla donna piangente. Ed egli era un grande santo e non poteva non dirle il vero. Perciò sappi anche tu, o madre, che il tuo bambinello è oggi presso il trono del Signore e gioisce, si rallegra, e prega Dio per te. Non piangere quindi neppur tu, ma gioisci.
La donna lo ascoltava con la guancia appoggiata alla mano e con gli occhi bassi. Sospirò profondamente.
– Anche Nikìtuska, per consolarmi, mi parlava proprio come te. «Non sei ragionevole» mi diceva. «Perché piangi? Il nostro bambinello è vicino al Signore Iddio e canta insieme con gli altri angeli». Mi dice così, ma piange anche lui; lo vedo che piange come me. «Lo so, Nikìtuska», dico io, «dove potrebbe essere se non accanto al Signore Iddio?... ma qui con noi ora non c’è più, Nikìtuska, non è più seduto qui vicino a noi come prima...». Se lo vedessi solo una volta, se potessi rivederlo una volta ancora! Non mi avvicinerei, non gli direi neppure una parola, mi nasconderei in un angolo pur di vederlo un attimo, pur di sentirlo giocare nel cortile e poi venire, come una volta, gridando con la sua vocetta: «Mammina, dove sei?» Potessi solo una volta, una volta sola sentirlo camminare nella stanza con i suoi piedini che facevano toc toc!... Mi ricordo che quasi sempre correva da me gridando e ridendo! Potessi solo sentire i suoi piedini, sentirli, riconoscerli! Ma lui non c’è più, bàtjuska, non c’è più e non lo sentirò mai più! Ecco qui la sua cinturina, ma lui non c’è più e io non potrò mai più né vederlo né sentirlo!
Essa cavò dal seno la piccola cintura di passamano del suo bimbetto e, al solo vederla, fu scossa dai singhiozzi e si coprì il volto con le dita attraverso le quali colarono rivi di lacrime.
– Questa – disse lo starec – questa è l’antica «Rachele che piange i suoi figli e non può consolarsi perché essi non sono più»; tale è la sorte assegnata sulla terra a voi madri. E tu non consolarti, non occorre che tu ti consoli, piangi pure; ma, ogni volta che piangi, ricordati che il tuo bambino è uno degli angeli di Dio, che di là ti guarda e ti vede, gioisce delle tue lacrime e le indica al Signore Iddio. E ancora a lungo durerà questo tuo sublime pianto di madre, ma alla fine si trasformerà in una quieta gioia, e le tue amare lacrime non saranno più che lacrime di dolce tenerezza e di purificazione del cuore che laveranno la tua anima dal peccato. Io pregherò per la pace del tuo bambino: come si chiamava?
– Alekséj, bàtjuska.
– È un bel nome. In ricordo di Alekséj «uomo di Dio?».
– Di lui, bàtjuska, di lui, di Alekséj «uomo di Dio».
– Quale grande santo! Pregherò, madre, pregherò e nella mia preghiera ricorderò la tua afflizione e pregherò anche per la salute di tuo marito. Però tu commetti peccato ad abbandonarlo. Torna da tuo marito e abbi cura di lui. Di lassù il tuo piccolo vedrà che hai abbandonato il suo papà e piangerà per voi; perché vuoi turbare la sua beatitudine? Lui è vivo, vivo, giacché l’anima vive in eterno; non è nella casa, ma è invisibile accanto a voi. Ma come potrà venire nella sua casa, se tu dici che hai preso a odiarla, la tua casa? Da chi dunque andrà, se non troverà insieme il babbo e la mamma? Adesso tu lo sogni e ti tormenti, ma allora egli ti manderà dei sogni tranquilli. Va’ da tuo marito, madre, va’ oggi stesso.
– Andrò, caro, seguirò i tuoi consigli. Mi hai sconvolto il cuore. Nikìtuska, Nikìtuska mio, tu mi aspetti, caro, mi aspetti…
[1] Cfr. AA.VV., Il santo starec Amvrosij del monastero russo di Optina, Abbazia di Martina Pragliola
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