lunedì 28 febbraio 2011

l'invidia di De Michelis

L'invidia di Gianni De Michelis

Gianni De Michelis, il dioscuro rampante che con Martelli, negli anni della rifondazione socialista del Garofano si assunse il compito di svellere le radici del socialismo e farne un moderna arma per una politica corsara al servizio di Ghino di Tacco in guerra continua con l'alleato dc ed il nemico pci, ieri parlava della fortuna che sarebbe toccata a Berlusconi che, come a suo tempo D'Alema, si trova nella condizione di arrecare servizi preziosi agli USA. D'Alema ebbe la opportunità di offrire basi militari ed aerei per bombardare Belgrado e quindi essere iscritto nell'albo degli amici della Casa Bianca. Berlusconi ha le stesse opportunità riferite alla Libia, nel caso che Gheddafi non accettasse l'esilio impostogli da Obama e decidesse di resistere e magari di farsi uccidere nella difesa della Libia.
Questa singolare uscita di De Michelis è davvero strabiliante! Il cinismo politico di cui
è frutto porta ad ignorare gli interessi dell'Italia per la quale la caduta rovinosa di Gheddafi é una disgrazia con conseguenze pesanti sul piano economico e sociale. Che fine farà l'interscambio commerciale per miliardi di euro tra l'Italia e la Libia? Che cosa succederà al metanodotto? Quanto pagheremo il petrolio ed il gas? Quante migliaia di lavoratori occupati nelle aziende italiane in Libia resteranno senza lavoro? Quanti dei tre milioni di lavoratori stranieri che vivono da decenni in Libia si riverseranno verso il nostro Paese?
De Michelis sa benissimo che gli USA hanno fatto una doppietta con la messa in crisi di Gheddafi: hanno abolito la sovranità della Libia ed inferto un colpo durissimo all'Eni al quale fanno la posta da sempre, fin dalla uccisione di Mattei. Ma questo a lui ed alla ipocrita e disonesta casta politica italiana attenta soltanto alla carriera non importa proprio niente.
Il pavido governo italiano è costretto a fare finta di niente. La sua meschina opposizione lo incalza per la cancellazione del trattato italo-libico. Berlusconi dovrà stare in riga e fornire il supporto militare se si deciderà di bombardare Tripoli al fine di spaccare in due od in tre la Libia oppure di mettere al potere la tribù fedele all'Occidente dell'ex re Idriss. Il benessere della Libia sarà un ricordo del passato come quello dell'Iraq di Sadam Hussein che era diventato lo Stato più moderno industrializzato e colto tra i paesi arabi. Gli USA non sopportano la crescita di civiltà diverse da quella del suo capitalismo. Anche l'Iran dovrà essere schiacciata e riportata all'età della pietra. Tutta la polemica contro l'Islam ed il fondamentalismo islamico, contro il terrorismo, non è altro che il manifesto ideologico di un Impero che non accetta di convivere con entità autonome e culture diverse dalla sua. In lista di attesa per essere omologata con le buone o le cattive sta la Russia. Farebbe bene Berlusconi, prima che Obama decida di tirargli il collo e di ordinare ai suoi "fedeli" in Italia di rivedere tutto, a rivedere, se può, le sue posizioni verso Putin.
Intanto dalla Libia giunge un pesante silenzio. Tutto si è fermato come se la macchina del tempo si fosse inceppata. Che fine hanno fatto i rivoluzionari? Che cosa ne è del tiranno Gheddafi chiuso nel suo bunker come Hitler secondo la descrizione della batteria massmediatica?
Persone provenienti da Tripoli intervistate da rai news 24 hanno detto che niente di quanto raccontato dalle televisioni e dalla stampa è vero. Tripoli è tranquilla e la vita vi scorre normalmente. E allora? Che cosa sta accadendo?
Sta accadendo che le orde monarchiche manovrate da Obama e dalla Clinton hanno avuto l'ordine di congelare la "rivoluzione" in attesa dei negoziati con Gheddafi e la sua famiglia. Se questi accetterà di andarsene dal paese dove è nato e dove ha governato per quaranta anni non ci sarà bisogno dell'assalto finale al Palazzo d'Inverno. Se Gheddafi resisterà la Libia farà la fine dell'Irak e dell'Afghanistan: sarà invasa da truppe che qualcuno nella sinistra fariseica italiana chiama "umanitarie". Vedremo in diretta lo spettacolo pirotecnico delle bombe al fosforo che illuminano il cielo di Tripoli. Lo stesso spettacolo che abbiamo visto sul cielo di Bagdad.
Pietro Ancona
http://medioevosociale-pietro.blogspot.com/
www.spazioamico.it

domenica 27 febbraio 2011

L'Italia rischia il disastro dopo la mossa USA contro Gheddafi

Legame di ferro Italia-Libia, interscambio per 12 miliardi

C'è un legame di ferro tra Italia e Libia. Il nostro Paese è al primo posto tra quelli esportatori e quinto tra gli importatori con un interscambio nel primo semestre 2010 attorno ai 7 miliardi di euro e con stime superiore ai 12 miliardi per l'intero anno. E' in questi dati l'importanza del rapporto economico tra il nostro Paese la Libia.



Un legame cresciuto sull'asse energetico e che si è via via rafforzato negli anni dopo la cancellazione dell'embargo nel 2003 e, soprattutto, con la sigla del trattato di amicizia italo-libico del 2008: la Libia è il primo fornitore di petrolio con il 23% del totale e terzo fornitore per il Gas. Tripoli è uno dei principali produttori di petrolio in Africa, con 1,8 milioni di barili al giorno. Si stima che le sue riserve ammontino a 42 miliardi di barili.



Il petrolio rappresenta più del 95% delle esportazioni e il 75% del bilancio dello Stato. Il reddito procapite è di 9.714 dollari. Il pil del 2010 è stato stimato in crescita tra il 3,3 e il 5,2% a fronte del +3,4% del 2008 e del +1,75% del 2009. Il grado di apertura della Libia al commercio internazionale tra il 90% ed il 100%.



Nel primo semestre 2010 si è registrato un incremento (+4%) delle esportazioni italiane verso la Libia, mentre il valore monetario delle esportazioni libiche (sostanzialmente petrolio e prodotti derivati dalla sua raffinazione) è salito del 14,56% dopo il -41,66% del 2009. Il valore del nostro export nel semestre è stato pari a 1,2 miliardi.



Per quanto riguarda le importazioni italiane dalla Libia, il valore monetario si è assestato a circa 5,6 miliardi, (+14,56%) rispetto all'analogo periodo dell'anno precedente. L'interscambio tra Italia e Libia nei primi 6 mesi del 2010 si assesta su un totale di 6,8 miliardi con un incremento del 12,53% all`anno precedente.



Il disavanzo è pari a -4,4 miliardi (+17,86% rispetto al primo semestre 2009). Nei primi 10 mesi l'interscambio è salito a 11,6 miliardi con un disavanzo cresciuto a 7,36 miliardi: risultato di un +8,4% delle esportazioni verso la Libia (a 2,12 miliardi) e di un +11,1% delle importazioni dell'Italia (a 9,48 miliardi). Nel 2009 le importazioni totali sono state pari a 19,49 miliardi di cui 3,39 miliardi dall'Italia, pari al 17,43% del totale.



La Libia è al quinto posto nella graduatoria dei Paesi fornitori dell'Italia con un peso percentuale di 4,5% sul totale delle nostre importazioni, mentre il nostro Paese continua ad essere, in assoluto, il primo esportatore con una quota che nel 2009 si è attestata al 17,5% delle importazioni.



L'Italia, inoltre, risulta essere il terzo Paese investitore tra quelli Europei (escludendo gli investimenti da petrolio) ed il quinto a livello mondiale. L'importanza che il Paese nordafricano riveste per l'Italia è dimostrata anche dalla presenza stabile in Libia di oltre 100 imprese, prevalentemente collegate al settore petrolifero ed alle infrastrutture, ai settori della meccanica, dei prodotti e della tecnologia per le costruzioni.



Anche nel 2009 l'Italia rimane il principale mercato di sbocco delle esportazioni libiche (circa il 20%) seguita da Germania (8%), Cina (7%), Tunisia (6%), Francia e Turchia (5%). Tra i Paesi esportatori l'Italia precede la Cina (10%) che dal 2008 ha superato la Germania (9,11%), la quale a sua volta nel 2009 è stata superata dalla Turchia (9,17%%). Seguono Corea (6,34%) Francia (5,12%, Emirati arabi uniti (4,7%).



Il maggiore investitore nel Paese italiano è Eni, che opera in Libia sin dal 1959 con le società Eni Oil e Eni Gas (ora Mellitah Oil & Gas) ed altre del gruppo operanti nel settore degli idrocarburi come Saipem. Presente anche Finmeccanica attraverso società del gruppo come Selex Sistemi Integrati, Ansaldo Sts, Selex Communications e AgustaWestland.



Altro investitore è Iveco (gruppo Fiat) presente con una società mista e un impianto di assemblaggio di veicoli industriali. Nel settore delle costruzioni si distinguono Impregilo, Bonatti, Garboli-Conicos, Maltauro, Ferretti Group. Altri settori sono quelli delle centrali termiche, (Enel power), impiantistica (Tecnimont, Techint, Snam Progetti, Edison, Ava, Cosmi, Chimec, Technip). Sono presenti inoltre Telecom, Prysmian Cables (ex Pirelli Cavi). Altre ditte italiane che hanno ottenuto commesse in Libia sono la Sirti (unitamente alla francese Alcatel).


http://www.milanofinanza.it/news/dettaglio_news.asp?id=201102211449056065&chkAgenzie=TMFI&sez=news&testo&titolo=Legame+di+ferro+Italia-Libia%2C+interscambio+per+12+miliardi

sabato 26 febbraio 2011

Un film già visto: Libia ed Iran

Un film già visto! La Libia come l'Iran...
A scorrere oggi le immagini delle televisioni, a leggere i giornali compresi quelli di "sinistra" si rivede lo stesso film dei dittatori cattivissimi che opprimono i loro popoli e si dedicano a sadici spargimenti di sangue. Questo film l'abbiamo visto prima e durante la prima guerra dell'Irak (Desert Storm), della guerra per il Kossovo e per la disintegrazione della Jugoslavia, della seconda guerra contro l'Irak alla ricerca di armi di distruzione di massa che non si trovarono mai, della guerra contro l'Afghanistan alla ricerca di Bin Laden e dei terroristi che avrebbero fatto crollare le Torri gemelle, delle manifestazioni in Iran contro Ahmadinjed. C'è una novità importante: alla batteria massmediatica occidentale si sono unite le due emittenti televisive arabe AlJazeera e Al Arabia che hanno assunto il monopolio della informazione di quanto avviene da quelle parti tutto rigorosamente nello interesse dei plurimiliardari feudatari dell'Arabia Saudita e della nuova borghesia "liberista" che in tutto il Nord Africa e nella penisola arabica vorrebbe fare affari con gli occidentali, arricchirsi e che è sempre più insofferente per le quote di reddito che in Iran ed in Libia sono assorbite dal welfare, dai salari e dagli investimenti sociali.
Altre informazioni non possiamo averne. Abbiamo già visto nel 2003 le cannonate del carro armato americano contro le finestre del decimo piano dell'Hotel Palestine Ginevra abitato da giornalisti. Abbiamo visto il terrore sul viso di Giuliana Sgrena ferita e salvata dalla morte dall'eroico Calipari. Ad oggi 400 giornalisti sono stati uccisi nelle zone di guerra. I pochi che riescono a seguire il fronte o lavorano nelle zone occupate debbono essere autorizzati dai Comandi Militari USA ed i loro servizi vengono rigorosamente censurati.-
Tutto quello che abbiamo saputo o che sappiamo delle zone "calde" del pianeta dove gli americani portano la loro "pace" assieme a pacchetti di "diritti umani" viene filtrato dai servizi di informazione. I servizi ammettono soltanto giornalismo "embedded", militante anzi....militarizzato.
Oggi la Stampa di Torino portava a grandissimi titoli questa dichiarazione di Gheddafi: "Chi non è con me deve morire!" frase smentita ieri sera da un giornalista di rai new24 attribuendola ad un errore di traduzione. In effetti Gheddafi ha detto: " Se il popolo non mi vuole, merito di morire!. Nonostante la correzione la frase manomessa è stata riportata da tutta la stampa italiana e credo mondiale e l'intervento di correzione è stato ignorato. Montagna di menzogne si sommano a montagne di menzogne. Alcune di queste sono anche grossolane e ridicole come quella delle fosse comuni che non erano altro che immagini vecchie di un anno del cimitero di Tripoli. Ma la scienza della disinformazione non bada a queste quisquilie. Anche se la notizie è falsa in modo strepitoso viene messa in circolo lo stesso sulla base di un principio di sedimentazione di un linguaggio, di una cultura dell'avvenimento che qui sarebbe troppo lungo discutere. Insomma anche se falsa si incide nella memoria del pubblico.
La rivolta popolare o meglio il golpe contro il despota Gheddavi, è mossa dalle stesse forze che si agitano contro Ahmadinjed e ne reclamano la morte; è la borghesia che vorrebbe fare affari con l'Occidente, arricchirsi e che non sopporta il monopolio statale
sul petrolio e sul metano e vorrebbe che i proventi non fossero tutti investiti in sanità, pensioni, opere pubbliche, salari, scuola...La Libia ha dato sicurezza e benessere a tutti i suoi abitanti e per quaranta anni ha assorbito per quasi la metà della sua popolazione immigrati dai paesi poveri dell'africa. Anche centinaia di migliaia di egiziani lavorano in Libia. E' stato ricordato che il reddito procapite è il più alto dell'Africa, la vita media è di 77 anni pari a tre volte quella africana ed il livello di scolarizzazione assai alto.
Alla insofferenza della borghesia che vorrebbe arricchirsi subito bisogna sommare un dato
regionale e tribale. La Libia è l'unione di tre regioni. La Cirenaica, la Tripolitania ed il Fezzan. La Cirenaica è luogo in cui era radicata la monarchia e non ha mai accettato del tutto di essere governata da Tripoli. Sul risentimento dei cirenaici e sulle pretese della borghesia si è costruito il blocco di forze, sostenuto dagli USA, che forse sta per abbattere Gheddafi.
Purtroppo il regime non ha tenuto conto che 42 anni sono tanti, tantissimi e che il potere si corrompe ed invecchia. Lo stesso Gheddafi è molto invecchiato. Fa impressione vedere che il secondo uomo della Libia è uno dei figli di Gheddafi e che non si vede non emerge un gruppo dirigente che pure c'è stato se ha fatto moderna e forte la Nazione. Oggi il regime non ha una classe dirigente in grado di proporsi e di cimentarsi con il futuro. Questo pesa, pesa l'idea di Gheddafi di sentirsi eterno ed insostituibile se non con qualcuno del suo stesso sangue. Ma i suoi oppositori sono una pure e semplice riedizione del colonialismo e dei suoi ascari che Gheddafi scacciò con la rivoluzione indolore di quaranta anni fa. La libia peggiorerebbe se passasse dalla gestione arcaica del potere di Gheddafi a quella del principe ereditario di re idris e dei petrolieri e generali USA che gli stanno dietro.
Può darsi che diventi un protettorato USA come l'Irak.
Pietro Ancona
http://medioevosociale-pietro.blogspot.com/
www.spazioamico.it

venerdì 25 febbraio 2011

ricordo di luigi granata

Luigi Granata

E' mancato all'affetto della famiglia, degli amici e dei socialisti siciliani Luigi Granata.
E' stato per anni esponente di rilievo del PSI, deputato all'Ars , segretario regionale del Partito e assessore all'industria del governo siciliano. Fu sempre dalla parte dei lavoratori e della Sicilia. Nel governo siciliano si distinse per l'attenzione ai problemi della industrializzazione e fu legato alle lotte dei minatori e dei contadini.
Attento alla memoria del movimento operaio dell'Isola organizzò ad Agrigento, nel 1975, un convegno di studi storici e politici sui Fasci Siciliani
con la collaborazione del professore Giuseppe Giarrizzo ed altri eminenti storici. Il recupero della esperienza dei Fasci, fino ad allora ignorato dalla storiografia come tante cose che riguardano il Mezzogiorno degli anni successivi il Risorgimento, contribuì alla delineazione della identità socialista radicandone il pensiero nella memoria
di una assai intensa stagione di lotte e di elaborazione ideologica che portò il gruppo dirigente socialista siciliano al livello della socialdemocrazia europea e dei sindacati francesi.
Fu attento alla storia del socialismo agrigentino. Si occupò in particolare della memoria di Giosuè Fiorentino, eminente socialista di Palma di Montechiaro, punto di riferimento dei braccianti poveri del suo paese che il PSI amministrò per tantissimi anni eleggendo a Sindaco Domenico Aquilino, maestro di scuola e uomo integerrimo.
Sono stato con lui e con Fausto D'Alessandro consigliere comunale di Agrigento. Fummo eletti tutti e tre sconfiggendo la vecchia guardia rappresentata dal professore Antonino Bosco che fu Vice Sindaco della città e che dovrebbe essere ricordato come persona di grande umanesimo socialista.
Nonostante invitati da Vincenzo Foti, Sindaco della città a fare una riedizione del centro-sinistra ci rifiutammo sempre e restammo alla opposizione. Pensavamo che avendo la DC
più di 21 Consiglieri su 40 il potere nostro di condizionamento sarebbe stato nullo. Argomento vero e non vero dal momento che la DC era spaccata in due gruppi tra bonfigliani e laloggiani. Ma eravamo "afflitti" da un inguaribile idealismo ed oggi saremmo stati additati come fondamentalisti.
Gli fui compagno di scuola alle secondarie. Naturalmente era il più bravo della classe.
Spero che un giorno possa rinascere il grande partito socialista impregnato di cultura, di idealità, di fervore che abbiamo conosciuto negli anni della nostra giovinezza.
Pietro Ancona
http://medioevosociale-pietro.blogspot.com/
www.spazioamico.it

giovedì 24 febbraio 2011

fidel castro interviene sulla crisi libica

Il petrolio si è trasformato nella principale ricchezza nelle mani delle transnazionali yankee; attraverso questa fonte di energia hanno potuto disporre di uno strumento che ha accresciuto considerevolmente il loro potere politico nel mondo. Fu la loro principale arma quando decisero di liquidare con facilità la Rivoluzione Cubana non appena vennero promulgate le prime leggi giuste e sovrane nella nostra patria: privarla del petrolio.



Su questa fonte di energia si è sviluppata la civiltà attuale. Il Venezuela è stata la nazione di questo emisfero a pagarne il maggior prezzo. Gli Stati Uniti si fecero padroni degli enormi giacimenti di cui la natura aveva dotato questo paese fratello.



Alla fine dell'ultima Guerra Mondiale si iniziò ad estrarre dai giacimenti dell'Iran, come pure da quelli dell'Arabia Saudita, dell'Iraq e dei paesi arabi situati vicino a quelli, sempre più rilevanti quantità di petrolio. Il consumo mondiale è aumentato progressivamente fino alla favolosa cifra di circa 80 milioni di barili al giorno, compresi quelli che si estraggono nel territorio degli Stati Uniti, a cui si sono ulteriormente sommati il gas, l'energia idraulica e quella nucleare. Fino all'inizio del XX secolo il carbone era stato la fonte fondamentale di energia che aveva reso possibile lo sviluppo industriale, prima che si producessero migliaia di milioni di automobili e motori consumatori di combustibile liquido.



I rifiuti del petrolio e del gas sono associati a una delle maggiori tragedie, assolutamente non risolta, che soffre l'umanità: il cambiamento climatico.



Quando la nostra Rivoluzione vide la luce, l'Algeria, la Libia e l'Egitto non erano ancora produttori di petrolio e gran parte delle sostanziose riserve di Arabia Saudita, Iraq, Iran ed Emirati Arabi dovevano ancora essere scoperte.



Nel dicembre del 1951 la Libia si trasforma nel primo paese africano a conquistare l'indipendenza dopo la Seconda Guerra Mondiale, in cui il suo territorio fu scenario di importanti combattimenti tra le truppe tedesche e quelle del Regno Unito, che diedero fama ai generali Erwin Rommel e Bernard L. Montgomery.



Il 95% del suo territorio è totalmente desertico. La tecnologia ha permesso di scoprire importanti giacimenti di petrolio leggero di eccellente qualità che oggi raggiungono un milione 800 mila barili al giorno e abbondanti depositi di gas naturale. Tale ricchezza le ha permesso di ottenere un'aspettativa di vita che raggiunge quasi i 75 anni, e le più alte entrate pro capite dell'Africa. Il suo arido deserto è ubicato su un enorme lago di acqua fossile, equivalente a più di tre volte la superficie di Cuba, che le ha reso possibile costruire un ampia rete di tubature di acqua dolce che si estende per tutto il paese.



La Libia, che aveva un milione di abitanti al momento dell'indipendenza, ne conta oggi più di 6 milioni.



La Rivoluzione Libica avvenne nel mese di settembre del 1968. Il suo principale dirigente era Muammar-al-Gheddafi, militare di origine beduina, che nella sua prima gioventù si ispirava alle idee del leader egiziano Gamal Abdel Nasser. Non c'è dubbio che molte delle sue decisioni siano da collegarsi ai cambiamenti che si produssero quando, come in Egitto, una monarchia debole e corrotta venne rovesciata in Libia.



Gli abitanti di questo paese hanno millenarie tradizioni guerriere. Si dice che gli antichi libici facevano parte dell'esercito di Annibale quando fu sul punto di liquidare l'antica Roma con la forza che attraversò le Alpi.



Si potrà essere o no d'accordo con Gheddafi. Il mondo è stato invaso da ogni tipo di notizia, specialmente con l'impiego dei mezzi di informazione di massa. Si dovrà aspettare il tempo necessario per conoscere in modo rigoroso quanto ci sia di verità o di menzogna, o il groviglio dei fatti di ogni tipo che, in mezzo al caos, si sono prodotti in Libia. Ciò che per me è assolutamente evidente è che il governo degli Stati Uniti non è assolutamente preoccupato per la pace in Libia, e non esiterà a dare alla NATO l'ordine di invadere questo ricco paese, forse nel giro di poche ore o di pochissimi giorni.



Coloro che con perfide intenzioni hanno inventato la menzogna secondo cui Gheddafi si sarebbe diretto in Venezuela, come hanno fatto la sera di domenica 20 febbraio, hanno ricevuto oggi una degna risposta dal Ministro delle Relazioni Estere del Venezuela, Nicolas Maduro, quando ha dichiarato testualmente che esprimeva “l'auspicio che il popolo libico trovi, nell'esercizio della sua sovranità, una soluzione pacifica alle sue difficoltà, che preservi l'integrità del popolo e della nazione libica, senza l'ingerenza dell'imperialismo...”



Per parte mia, non immagino il presidente libico che abbandona il paese, eludendo le responsabilità che gli vengono addossate, siano o no false in parte o nella loro totalità.



Una persona onesta sarà sempre contro qualsiasi ingiustizia venga commessa con qualsiasi popolo del mondo, e la peggiore, in questo momento, sarebbe quella di stare in silenzio davanti al crimine che la NATO si prepara a commettere contro il popolo libico.



La dirigenza di questa organizzazione bellicista ha fretta di compierlo. E' doveroso denunciarlo!



Fidel Castro Ruz



21 febbraio 2011

dalla Libia un duro colpo all'Italia

Dalla Libia un duro colpo all'Italia

Una intensa e martellante campagna propagandistica sta accreditando la menzogna di un leader che massacra il suo popolo con una repressione feroce fatta anche di bombardamenti aerei. Si parla di diecimila morti che naturalmente si attribuiscono a responsabilità di Gheddafi e del suo governo. Una potente e quasi impenetrabile cortina fumogena si è alzata sugli avvenimenti. Filtrano solo le "notizie" confezionate dalla batteria massmediatica occidentale. Gheddafi si trova nella condizione in cui venne a trovarsi Milosovic durante la crisi del Kossovo nella quale fu fatto credere all'opinione pubblica mondiale un genocidio a danno degli albanesi quando invece erano i serbi ad essere rastrellati, uccisi o costretti a scappare dalle loro case. I massmedia arabi più importanti di proprietà dell'Arabia Saudita forniscono la versione quotidiana degli avvenimenti e partecipano attivamente alla congiura mediatica. Gli insorti vengono fatti passare per inermi cittadini amanti della libertà e della democrazia e non viene spiegato come abbiano fatto a conquistare militarmente tante città. Si tratta di un colpo di Stato con epicentro in Cirenaica che è stato minuziosamente preparato dagli USA e da Israele che in questo modo regolano i conti con una realtà nazionale da sempre autonoma e non asservita come la Tunisia, l'Egitto, il Marocco, lo Yemen, la Giordania, agli interessi coloniali e geostrategici dell'Occidente. La posta in gioco è una profonda modificazione degli equilibri politici che non mette in discussione il lager di Gaza e che probabilmente si estenderà al controllo di tutto il Libano. Da questa crisi abilmente manovrata dagli USA esce anche una Italia più debole che dovrà rinegoziare gli accordi sugli approvvigionamenti di gas e di petrolio con i nuovi padroni americani ed i loro prestanomi. L'Italia e la Libia hanno realizzato per tantissimi anni una politica di pace e di cooperazione basata sulla esistenza del metanodotto ideato e concepito in Sicilia dall'Ente Minerario Siciliano a suo tempo proposto come alternativa vincente al trasporto del gas con navi. E' un durissimo colpo alla economia italiana ed alla sua sicurezza energetica. L'Italia uscirà da questa crisi con le ossa rotte. Questa crisi si sommerà alle tante altre che riguardano la nostra industria manifatturiera a cominciare dalla Fiat e renderà assai difficile e problematico il recupero. I guai non arrivano mai da soli!
Non sappiamo quale sarà il destino della Libia e se resterà unita o si frammenterà in due o tre staterelli secondo la tecnica del salame affettato che gli USA praticano con successo da anni a cominciare dalla Corea. Può darsi che Gheddafi non sarà in grado di continuare a controllare la Tripolitania anche perchè ha gestito il governo soltanto in termini familistici e senza proporsi la costruzione di un gruppo dirigente forte e preparato per lo Stato. Gheddafi è anziano e non ha successione dentro l'attuale dirigenza. Ha fatto una politica che ha garantito ricchezza ed indipendenza alla Libia ma non ha curato lo Stato che è sempre stato una specie di masseria. Ma certamente le condizioni del suo popolo sono migliori di quelle che hanno portato alla rivolta i tunisini e gli egiziani. La Libia ha sempre avuto un grande numero di lavoratori stranieri ai quali ha dato da mangiare per tanti decenni ed il reddito dei suoi sei milioni di abitanti è stato di 15 mila dollari contro gli 8 mila della Tunisia, i 4.300 del Marocco ed i 5000 mila dell'Egitto. Certamente ci sono problemi di diseguale distribuzione del reddito e di riforme ma non si può dire che la popolazione libica non abbia fruito dei proventi del petrolio in misura certamente maggiore di quella che gli USA concedono in Iraq. La fine della Libia indipendente si rifletterà sull'Europa che dovrà fare i conti con una nuova situazione per gli approvvigionamenti energetici dal Sud e non è detto che gli USA non preparino un colpo per spezzare le reni alla Russia che non ha voluto fare gestire agli oligarchi integrati nelle multinazionali di Wall Street le sue risorse petrolifere ed i suoi gasdotti.
Tutte le pedine che gli USA muovono sullo scacchiere mondiale sono finalizzate agli interessi particolari del suo imperialismo. Sono tutte pedine.

Non c'è e non ci sarà mai una politica di pace ed Obama non solo non è diverso da Bush nel suprematismo a stelle e strisce ma è ancora più pericoloso per la capacità di manipolazione. Ricordate che fece credere di essere con il Presidente dell'Honduras nello stesso giorno in cui questi veniva rapito da un aereo militare americano! Continua una guerra senza fine in Afghanistan ed a diffondere la favole di AlQaeda e del terrorismo per giustificare il lager e le torture di Guantanamo.
Pietro Ancona
http://medioevosociale-pietro.blogspot.com/
www.spazioamico.it

mercoledì 23 febbraio 2011

la rottura dello Stato Libico, la secessione della Cirenaica

Giusto piangere i morti libici. Giusta l'esecrazione del tiranno e della sua famiglia di spocchiosi dissipatori. Ma tutto l'Occidente oggi in gramaglie non versò una sola lacrimuccia per le centinaia di morti egiziani e neppure per tutti gli altri che hanno pagato con la vita la richiesta di pane e giustizia
La rivolta libica è diversa: è una secessione tribale sollecitata da forze straniere legate al controllo del petrolio.La secessione della Cirenaica nè è una prova.... Ha ragione Berlusconi ad avvertire sui pericoli del dopo Gheddafi. L'Italia rischia di essere trascinata nell'abisso e non solo per i pericoli delle ondate migratorie ma per gli interessi energetici e commerciali...
Non ho dubbi che il prossimo colpo sarà sferrato contro la Russia. La cupola criminale delle multinazionali con sede a Wall Street ha deciso di fare fuori l'Eni e l'Italia e farà di tutto per sfasciare la Russia dopo il fallimento del suo tentativo di impadronirsi del gas con l'Oligarca che Putin tiene giustamente in galera...

Pietro Ancona

Emanuele Macaluso ricorda Mimì La Cavera

La scomparsa di Mimì La Cavera

di Alessia Bivona
Macaluso ricorda La Cavera. La legge per l’industrializzazione della Sicilia, la rottura con la Confindustria nazionale e la destra Dc, fino al sostegno alla svolta anti-racket di Lo Bello.

. Il patriarca dell’industrializzazione in Sicilia, il grande vecchio dell’economia nell’isola, l’uomo delle battaglie per portare l’Eni di Enrico Mattei in Sicilia, il padre nobile del milazzismo, l’industriale con il sogno dello sviluppo della Sicilia se n’è andato ieri, alle 7.30 del mattino nell’attico di via Libertà dove, dopo tanti anni vissuti a Roma, era tornato ad abitare con la compagna Eleonora Rossi Drago, la celebre attrice scomparsa quattro anni fa.
L’ingegnere Domenico La Cavera, per gli amici Mimì, aveva 95 anni e l’inusuale talento di una straordinaria lungimiranza. Per il suo novantesimo compleanno era arrivato a Palermo a festeggiarlo l’allora presidente di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo. «Un uomo tutto d’un pezzo, che ha combattuto sempre per lo sviluppo della Sicilia. Uno che non si è mai arreso, e non si è mai venduto ai padroni». La voce al telefono è di un commosso Emanuele Macaluso, tra i più vicini testimoni della vita e dell’impegno di La Cavera.

Macaluso, avete attraversato insieme le più grandi trasformazioni sociali del Paese e della Sicilia.
Conoscevo Mimì da 65 anni, da quando io, allora 23enne, ero segretario della Cgil e lui presidente degli industriali. Da sempre il nostro è stato un rapporto di leale contrapposizione anche nelle stagioni di lotte aspre, di occupazioni dei siti industriali.C’era un fronte comune per sostenere lo sviluppo di una classe imprenditoriale siciliana. Eravamo alleati in questa battaglia, gli industriali siciliani e il sindacato, e avevamo l’appoggio politico di Alessi, Milazzo e degli sturziani. Mimì riteneva, con l’ambizione tipicamente lacaveriana, che questa legge sarebbe stata una importante leva per la trasformazione della classe dirigente. Al posto di una tramontata aristocrazia legata al latifondo poteva subentrare nei nuovi scenari politici una borghesia legata all’industria.

L'affermazione di una classe imprenditrice locale diventò poi un tema politico.
Il disegno di Mimì fu avversato dalla destra Dc di Giuseppe La Loggia e dai poteri forti che avrebbero preferito che la Sicilia restasse terra di colonizzazioni. Mimì ruppe il monopolio del petrolio nell’Isola, affiancando a GulfOil l’Eni di Mattei. Causò una frattura fra Sturzo e Alessi, ruppe con la Confindustria nazionale, con il partito liberale. Finì al centro di uno scontro non solo economico, ma anche politico. E la sua figura non fu più quella di un rappresentante di una categoria produttiva, ma assunse le dimensioni e i contorni di un soggetto politico.

Siamo nella seconda metà degli anni Cinquanta. Nasce il governo Milazzo, sostenuto tra gli altri sia dal Pci che dall’Msi. Un embrione di federalismo.
Milazzo prende le redini nel ‘58. La Malfa benedice l’operazione. E’ l’inizio di uno scontro detonante all’interno della destra, di una profonda frattura col governo nazionale. Il sicilianismo resta uno dei principi più solidi delle vedute di La Cavera. Anche dopo la crisi del milazzismo. Lui dirige la Sofis. Passa alla Cassa del Mezzogiorno. Poi alla Svimez, e la sua azione politica si distingue sempre per lo spiccato impegno a favore del Sud e della Sicilia.

La Cavera è stato meridionalista prima ancora che si parlasse di federalismo.
Mimì La Cavera non si è mai venduto ai padroni. Parole come queste oggi suonano strane. Non ha mai cambiato una casacca per convenienza politica o economica, né per convenienza di posizione personale. La fermezza della sua linea è uno dei motivi per cui è diventato nel corso dei decenni uno dei principali punti di riferimento nel panorama economico, politico e culturale. Il suo valore, la sua coerenza sono stati sempre riconosciuti. La stessa Confindustria siciliana gli ha riconosciuto la presidenza onoraria per chiudere un passato di rapporti travagliati. Negli ultimi anni Mimì ha sostenuto l’impegno antimafia di Ivan Lo Bello.

Per lei non era solo un co-protagonista di molte battaglie, era anche un amico.
Da un rapporto di lealtà, di stima reciproca, di collaborazione è nata poi una grande amicizia. Che si è consolidata sui grandi temi e nella unione di vedute, ma si è consolidata poi nei gesti quotidiani. Mimì da trent’anni ogni giorno mi telefonava alle 7.30. Era una delle prime chiamate della giornata, chiacchieravamo della situazione politica, economica. Dei fatti nazionali e delle storie siciliane. E’ difficile pensare a una quotidianità senza le sue sfuriate, le sue battaglie, senza i suoi strali contro la malapolitica. L’Italia ha perso un grande uomo.

martedì 22 febbraio 2011

E' l'ENI l'obiettivo della insurrezione contro Gheddafi?

Bisogna capire bene da che cosa è fatta l'insurrezione contro Gheddafi in Libia, quanto c'è di sofferenza popolare e giovanile e quanto di interessi tribali che si sono aggrovigliati con quelli USA e delle multinazionali dell'Energia.

Quello che è certo è che il metanodotto che porta il gas dall'Algeria alla Libia alla Sicilia è fermo. Non escludo che una vittima designata di questa rivolta sia l'Eni e comunque la politica commerciale autonoma dell'Italia che gli USA hanno "subito" con molti mal di pancia. Il PD maramaldesco farebbe bene a stare più accorto nelle critiche ed a distinguere l'Italia da Berlusconi e la Libia da Gheddafi

La grandiosa opera di pace del metanodotto, estranea agli interessi delle Sette Sorelle, garantisce energie e benessere da trenta anni all'Italia, all'Algeria, alla Libia. Gli Usa sono stati ostili da sempre.

La politica fatta dal governo italiano nei confronti della Libia e della Russia è la meno berlusconiana fatta dal Governo Berlusconi. Viene da molto lontano, dalla illuminata apertura terzamondista e pacifista di La Pira e Moro, di Nenni e di Fanfani.

Gli obiettivi dei rivoluzionari in Libia non sono chiari, non sono stati espressi. L'anelito di libertà e di democrazia si esprime in modi diversi.

Non difendo il regime di Gheddafi ma vorrei capire chi lo sta demolendo.

L'Italia rischia di essere travolta non solo da una ondata emigratoria ma dal crollo di suoi fondamentali interessi economici

crollo che va a sommarsi alla crisi ed al trasferimento della Fiat in USA ed alla scomparsa della sua industria di base e manifatturiera.

Anche la pace potrebbe essere travolta da una crisi di tutta l'area del Mediterraneo dentro la quale mimetizzare l'attacco e l'incenerimento dell'Iran e la fine della Palestina.

Pietro Ancona





Features

Libya's revolt scares oil traders

"Nothing explodes like an oil refinery and rioters tend to like to burn things," analyst says.
Chris Arsenault Last Modified: 22 Feb 2011 03:06 GMT
Email ArticlePrint ArticleShare ArticleSend Feedback

Italy has the most to lose from a revolution in Libya, because of its business ties with Muammar Gaddafi's government, according to one energy analyst [GALLO/GETTY]

As military jets pound protesters in the Libyan capital, oil analysts around the world are watching apprehensively from comfortable offices.

"The price for crude oil is up by five dollars per barrel, and most of the press is relating this rise to the tensions that are escalating as we speak," said Stephen Jones, the vice president of market services with Purvin & Gertz, an energy consultancy based in Houston, Texas.

“Unrest in the greater Middle East market-place is becoming a greater concern to global oil markets," Jones told Al Jazeera in a phone interview.

The price of Brent crude hit $105 per barrel on Monday, and pushed as high as $108 in after-hours trading, levels not seen since September 2008.

Libya, Africa's third largest oil producer, pumps out around 1.6 million barrels of oil per day, meeting roughly two per cent of global demand.

Fuelling revolt

Wealth from light sweet crude has allowed Muammar Gaddafi, an autocrat described as a "mercurial and eccentric figure who suffers from severe phobias” by US diplomats in WikiLeaks documents, to hold power for more than 40 years.

While oil production has only dropped by 50,000 barrels per day, according to International Energy Agency reports, Gaddafi's luck seems to be running dry.

"When you are using military force against protests in your capital, it shows how far it has gone," said Peter Zeihan, vice president of analysis with Stratfor, a global intelligence company.

At least 61 people died in unrest on Monday, adding to several hundred who have been killed in recent protests. Two Libyan air force jets landed on the island of Malta on Monday night; their pilots claimed they defected after refusing to bomb anti-government protesters. Several Libyan diplomats have also defected, protesting attacks on demonstrators.

"Libya is a genuine revolution. The military is split," Zeihan told Al Jazeera in a phone interview. A recent uprising in Egypt did not qualify as a revolution, he said, because the military remained united and firmly in control.

Libyans may be excited about the prospects of change. But energy markets beg to differ. "In general, oil markets prefer stability and stability often comes with [various] modes of governance," said Jones, hinting that markets are not perturbed by dictatorships, so long as the pipelines keep gushing.

"The best case scenario, from the oil market’s stand point, would be for unrest to calm," Jones added. "That might be at odds with the populace." The analyst would not comment on what would happen to energy markets if unrest spread to Saudi Arabia, the world’s biggest oil producer.

Paul Horsnell, head of oil research at Barclays Capital, told the UK Telegraph newspaper that Libya's uprising is "potentially worse for oil than the Iran crisis in 1979".

For global energy markets, that assessment might be an exaggeration. Libya's main oil infrastructure is located in the desert, far from population centres facing violence, said Stratfor's Zeihan. While drilling platforms and other expensive extraction equipment seem safe, refineries and loading platforms could be damaged.

"Nothing explodes like an oil refinery and rioters tend to like to burn things," Zeihan said. “The country is self-sufficient in its refined goods, if its refineries remain intact.”

An Italian job

While Libya produces enough petroleum for domestic consumption, its former colonial master Italy is not so fortunate.
"The Italians have the most to lose," Zeihan said. "They get about one third of their oil and 10-15 per cent of their natural gas from Libya."

Eni, Italy’s biggest oil company which is partially owned by the government, has pledged to invest up to $25bn in Libya. Eni’s share price fell 5.1 per cent on Monday, the biggest drop since July 2009.

"If I was Eni, I would be terrified right now," Zeihan said. "The Italians don’t have an energy policy; they have even less of an energy policy than the Americans."

Italy is Libya's biggest trading partner. About $17bn worth of goods and services were exchanged between the two countries in 2009.

The Libyan Investment Authority, a sovereign wealth fund which invests Libya’s oil money overseas, owns about two per cent of Finmeccanica SpA, Italy’s biggest defense company.

If Gaddafi’s regime falls, it is unclear how a new government would approach relations with Italy, while it is unlikely any government would stop oil exports to Europe, Zeihan said.

"Whoever takes power, has an interest in producing oil and natural gas,” he said. If I was the Europeans, I would put together a nice little aid package, to see that the contracts move regardless of who comes to power. It is an opportunity for everyone who isn’t Italy."

International energy companies, including Eni, Shell, BP and Norway’s Statoil have repatriated some personnel from Libya, according to reports.

While analysts say that it is unlikely any new government would nationalise the energy industry, the behavior of specific tribes in Libya is harder to predict.

On Monday, the head of the Al Suwayya tribe in eastern Libya threatened to cut oil exports to western countries within 24 hours unless the authorities put an end to the "oppression of protesters".

While Libya doesn’t produce as much oil as other countries in the region “it is still a major producer," said the Texas-based analyst Stephen Jones. "The question is: How much of their production could be put at risk?"


Source: Al Jazeera and agencies

lunedì 21 febbraio 2011

Benigni, San Remo ed il Risorgimento

Eugenio Scalfari si è sperticato in lodi a Benigni contrapponendolo a Berlusconi. Benigni in Paradiso e Berlusconi all'inferno. Credo che Benigni abbia dato un contributo alla campagna patriottarda sentimentalistica sulla unità d'Italia che non è più convincente se mai lo è stata in passato. Benigni ha fatto un numero che ricorda gli spettacolini di avanspettacolo tipo "tripoli bel suol d'amore". Qualcuno oggi ha ricordato che avrebbe potuto citare la Resistenza che, a differenza del Risorgimento, è stato un grande fatto popolare di liberazione della Italia dal nazifascismo.
Mi duole molto che gli intellettuali meridionali, in gran parte massoni,si siano uniti alla campagna patriottica del 150 mo.Avrebbero dovuto reclamare quanto meno le scuse e la richiesta di perdono di Nnpolitano ai martiri di Fenestrelle ed ai bruciati vivi di Pontelandolfo piuttosto che lasciare questa materia soltanto ai neoborboni.-.
Inoltre l'unità d'Itali assai più che da Borghezio ed altri è stata lesionata profondamente dalla crisi del welfare che ha rotto il tacito compromesso sociale fatto di industrie al nord e di quadri e personale della pubblica amministrazione al sud. Il licenziamento di circa 150 mila insegnanti in gran parte meridionali brucia molto di più delle invettive della lega contro Garibaldi.L'Italia si distrugge attraverso la fine del welfare ed il federalismo che porterà pesi fiscali che indurranno davvero a bruciare i municipi come fecero i contadini per la tassa sul focatico.-

Il Parlamento Italiano pericoloso per la Costituzione

Il Parlamento italiano è diventato pericoloso per le libertà garantite dal bilanciamento dei poteri che la Costituzione ha fissato. Bisogna chiuderlo immediatamente prima di una possibile malattia o morte del Presidente della repubblica unico argine alll'oligarchismo fascista berlusconiano. Questo Parlamento illegittimo voluto da un accordo abominevole tra Berlusconi e Veltroni potrebbe stravolgere la Costituzione. Montagne di soldi ed un Potere quasi senza limite potrebbero travolgerne le residue difese. Chiudere subito il Parlamento!

L'opposizione dovrebbe denunziare subito il Governo ed il Primo Ministro per attentato alla Costituzione per la gravissima campagna di denigrazione della magistratura e della Corte Costituzionale. Dovrebbe poi chiudere al Presidente della repubblica di diffidare il Presidente del Consiglio dal prosieguo della sua campagna di odio contro la Costituzione. In ogni caso bisognerebbe vedere l'ipotesi di dimissioni di tutta l'opposizione. Se continua la campagna acquista dei deputatipuò darsi che altri PD come Calearo raggiungeranno la maggioranza. Questa sarà presto in grado di apportare qualsiasi modifica alla Costituzione.

Pietro Ancona

150 dell'Unità di Italia senza verità e senza giustizia

Pontelandolfo e Casalduni a ferro e fuoco

Pontelandolfo



Era il giorno della festa del patrono
E la gente se ne andava in processione
L’arciprete in testa ai suoi fedeli
Predicava che il governo italiano era senza religione
Ed ecco da lontano
Un manipolo con la bandiera bianca
Incline ad inneggiare a re Francesco
Ed ecco tutti quanti lì a gridare
Poi si corre furibondi al municipio
E si bruciano gli archivi
E gli stemmi dei Savoia

Pontelandolfo la campana suona per te
Per tutta la tua gente
Per i vivi e gli ammazzati
Per le donne ed i soldati
Per l’Italia e per il re.

Per sedare disordine al paese
Arrivano quarantacinque soldati
Sventolando fazzoletti bianchi
In segno di pace, ma non trovano nessuno.
Poi mentre si preparano a mangiare
Il rumore di colpi di fucile
Li spinge ad uscire allo scoperto
E son presi tutti quanti prigionieri
Poi li portano legati sulla piazza
E li ammazzano a sassate,
Bastonate e fucilate.

Pontelandolfo la campana suona per te
Per tutta la tua gente
Per i vivi e gli ammazzati
Per le donne ed i soldati
Per l’Italia e per il re.

La notizia arriva al comando
E immediatamente il generale Cialdini
Ordina che di Pontelandolfo
Non rimanga pietra su pietra
Arrivano all’alba i bersaglieri
E le case sono tutte incendiate
Le dispense saccheggiate, le donne violentate,
Le porte della chiesa strappate, bruciate
Ma prima che un infame piemontese
Rimetta piede qui, lo giuro su mia madre,
Dovrà passare sul mio corpo.

Pontelandolfo la campana suona per te
Per tutta la tua gente
Per i vivi e gli ammazzati
Per le donne ed i soldati
Per l’Italia e per il re.

Dall’album “Unità” (1972) Stormy Six



Ascolta Refrain 198KB


--------------------------------------------------------------------------------



ONORE AI CADUTI DI
PONTELANDOLFO E CASALDUNI

Alcune tele di Cuono Gaglione



L'artista Cuono Gaglione espone a Bruxelles
Il pittore di origini campane ma siciliano d'adozione, Cuono Gaglione
esporrà dall'11 Febbraio al 10 marzo 2006 presso una prestigiosa
galleria d'arte di Bruxelles ( LA COUR DES ARTS ) trenta opere sul
meridione Italiano.

--------------------------------------------------------------------------------



PONTELANDOLFO E CASALDUNI A FERRO E FUOCO



Il 12 agosto al maggiore Melegari fu ordinato di presentarsi dal generale Cialdini; con solerzia si recò alla luogotenenza, dove lo ricevette il generale Piola-Caselli, che lo fece accomodare e gli disse: - Maggiore, lei avrà sentito parlare di sicuro del doloroso ed infame fatto di Casalduni e Pontelandolfo; ebbene, il generale Cialdini non ordina, ma desidera che quei due paesi debbano fare la fine di Gaeta, ossia devono essere rasi al suolo ed i suoi cittadini massacrati. Ella, Sig. Maggiore, ha carta bianca ed è autorizzata a ricorrere a qualunque mezzo, e non dimentichi che il generale desidera che siano vendicati i soldati del povero Bracci. Infligga a quei due paesi la piú severa delle punizioni e ai suoi abitanti faccia desiderare la morte. Ha ben capito?. Melegari:- Signorsí, so benissimo come si devono interpretare i desideri del generale Cialdini. Sono stato con lui in Crimea e con lui ho fatto tutta la campagna del 1859, cosa devo fare. Cialdini in un'altra stanza stava istruendo il generale De Sonnaz che doveva dirigere le operazioni. Melegari partí con una compagnia di quattrocento soldati e il 13 mattina giunse a Solopaca; a mezzogiorno nei pressi di Guardia. Alle due del mattino del 14 agosto Melegari ed i suoi quattrocento eroi avevano invaso San Lupo; fece svegliare il capitano della Guardia Nazionale al quale disse: -Capitano, mi occorrono duecento uomini, devo attaccare i briganti. - Maggiore, i briganti sono tanti e bene armati. Ci faranno a pezzi se andiamo sul loro terreno! - rispose l'ufficiale della guardia nazionale. Melegari: - Capitano, niente di tutto questo, non sono venuto qui per combattere contro Giordano, ora è troppo forte. Sono venuto qui per punire gli abitanti di Casalduni; a Pontelandolfo sta dirigendosi De Sonnaz. So cosa devo fare. Lei deve occupare il promontorio da cui si domina la valle ed aspettare miei ordini. Qualcuno, forse qualche parente del capitano della guardia nazionale, corse ad avvertire il sindaco di Casalduni, Ursini. Da quel momento iniziò l'esodo dei casaldunesi verso le montagne difese dai partigiani di Giordano Alle quattro del mattino il 18° battaglione, comandato dal maggiore Melegari e guidato verso Casalduni dal liberale Jacobelli e dalla spia Tommaso Lucente, ricco nobilotto di Sepino, aveva già circondato il paese. Melegari si attenne agli ordini ricevuti dal generale Piola-Caselli e fece disporre a schiera le quattro compagnie di cento militi ciascuna. Dovevano aprire il fuoco di fila per incutere paura ai partigiani, che, secondo le informazioni ricevute, avrebbero dovuto difendere Casalduni da attacchi esterni; e poi attaccare il paese, baionetta in canna, di corsa, concentricamente. Le quattro compagnie ebbero il comando di carica alla baionetta dall'eroico Melegari e cominciarono la carneficina ed il saccheggio delle case e delle chiese come erano soliti fare per poi passare ad incendiarle. La prima casa ad essere bruciata fu quella del sindaco Ursini, indicata alla truppa dal servo nonché traditore Tommaso Lucente da Sepino. Sentendo gli spari e le grida dei bersaglieri, i pochi rimasti in paese uscirono quasi nudi; cercavano la montagna e trovarono la morte, infilzati dalle baionette dei piemontesi. Un certo Lorenzo D'Urso commerciante, fattosi sull'uscio per salutare i soldati, fu crivellato di colpi e poi infilzato dalle baionette; e cosí moltissimi cittadini inermi. L'eccidio fu meno feroce che a Pontelandolfo perché appunto, la gente, avvertita, era scappata. Dopo aver messo a ferro e fuoco Casalduni ed aver sterminato gli abitanti ivi rimasti, l'azzurro ed eroico maggiore Melegari chiamò a sé il tenente Mancini e gli ordinò di andare a Pontelandolfo per ricevere istruzioni dal generale De Sonnaz. Dopo un' ora il tenente ritornò, scese da cavallo e rivolgendosi al suo maggiore disse: - Possiamo tornarcene a San Lupo il colonnello Negri ha distrutto completamente Pontelandolfo. Ho visto mucchi di cadaveri, forse cinquecento, forse ottocento, forse mille, una vera carneficina!. Melegari: - Ci hanno fregati quelli del 36° fanteria! Casalduni era quasi vuota, qualcuno ha avvertito la popolazione!. Dalle alture i partigiani osservavano ciò che stava accadendo nei due paesi sanniti. Vedevano tanto fumo, sentivano gli spari dei bersaglieri, si sentivano impotenti di fronte a tanto orrore …… Molti volevano attaccare i piemontesi, anche sapendo di andare incontro a morte certa, visto il divario delle forze in campo …….. Giordano e i suoi scortarono oltre duemila casaldunesi fino alle porte di Benevento. Una volta in città Ursini chiese udienza al governatore. Fu incarcerato ! I morti furono tanti a Pontelandolfo e Casalduni, molti di piú che a Montefalcione, San Marco e Rignano, pure eccidiate ed incendiate ……. A Pontelandolfo e Casalduni i morti superarono sicuramente il migliaio, ma le cifre reali non furono mai svelate dal governo piemontese, come mai è stato svelato il numero dei morti della guerra civile del 1860-70. Il Popolo d'Italia , giornale filo governativo e quindi interessato a nascondere il piú possibile la verità sui morti, indicò in 164 le vittime di quell'eccidio, destando l'indignazione persino del giornale francese Patrie, filo unitario, e quella del mondo intero. Ma nessuno intervenne presso il governo dei carnefici piemontesi. L'invasione del Sud costò la vita, l'espatrio, il carcere ed il manicomio ad un milione di persone, costò la libertà e la dignità del popolo meridionale, ma, una cosa è certa, la gente del Molise, degli Abruzzi, del basso Lazio, della Terra di Lavoro, del Sannio, della Capitanata, della Basilicata ha venduto cara la propria pelle; ha dimostrato ai piemontesi ed al mondo di avere carattere e coraggio. Francesco II e la Regina Sofia sui bastioni di Gaeta disprezzarono la morte. Vittorio Emanuele III di Casa Savoia nel 1943 ha dimostrato di essere un codardo. Cosí il generale Cialdini, un vero assassino e criminale di guerra, a Custoza scappò come un coniglio di fronte all'esercito austriaco. Il colonnello Gaetano Negri, milanese purosangue, scrivendo al padre dopo l'eccidio di Pontelandolfo, non mostrò alcun segno di pentimento e di umanità. Questo signore fu eletto sindaco del capoluogo lombardo negli anni ottanta.







--------------------------------------------------------------------------------



Riportiamo qui di seguito uno stralcio di quella lettera:

Napoli, agosto 1861- Carissimo papà, Le notizie delle province continuano a non essere molto liete. Probilmente anche i giornali nostri avranno parlato degli orrori di Pontelandolfo. Gli abitanti di questo villaggio commisero il piú nero tradimento e degli atti di mostruosa barbarie; ma la punizione che gli venne inflitta, quantunque meritata, non fu per questo meno barbara. Un battaglione di bersaglieri entrò nel paese, uccise quanti vi erano rimasti, saccheggiò tutte le case, e poi mise il fuoco al villaggio intero, che venne completamente distrutto. La stessa sorte toccò a Casalduni, i cui abitanti si erano uniti a quelli di Pontelandolfo. Sembra che gli aizzatori della insurrezione di questi due paesi fossero i preti; in tutte, le province, e specialmente nei villaggi della montagna, i preti ci odiano a morte, e, abusando infamemente della loro posizione, spingono gli abitanti al brigantaggio e alla rivolta. Se invece dei briganti che, per la massima parte, son mossi dalla miseria e dalla superstizione, si fucilassero tutti i curati (del Napoletano, ben inteso!), il castigo sarebbe piú giustamente inflitto, e i risultati piú sicuri e piú pronti..
Una vera bestia immonda. Se simili personaggi hanno fatto l'Italia una, oggi non dobbiamo piangere sulle due Italie: una ricca e prospera e l'altra povera. Questi personaggi hanno distrutto le ricchezze del Sud, hanno massacrato e fucilato gli uomini migliori, mentre hanno costretto all'emigrazione una grande moltitudine di Meridionali. Il 15 agosto 1861 il Generalissimo Enrico Cialdini, dalla sede dell'alto Comando di Napoli, telegrafò al ministro della guerra piemontese e quindi al mondo intero: "ieri all'alba giustizia fu fatta contro Pontelandolfo e Casalduni".




--------------------------------------------------------------------------------



> Da: "Renato" < info@pontelandolfonews.com >
> Data: Wed, 11 Jan 2006 20:17:27
> A:
> Oggetto: informazioni
>
> Sono il Prof.rinaldi renato residente in Pontelandolfo,bn,
> responsabile del sito www.pontelandolfonews.com
> su detto sito ho delle pagine sui fatti del 1861.
>
> Ho avuto modo di leggere i vostri articoli sui fatti di pontelandolfo
> e casalduni e vorrei pubblicarli,insieme ad altri fatti storici sul
> mio sito, chiedo la autorizzazione alla pubblicazione dei vostri articoli

Distinti saluti



Caro Professore, la rivista Due Sicilie è di tutti noi del Sud per cui può fare quello che vuole, soprattutto come cittadino di Pontelandolfo. Mi mandi pure il suo indirizzo che la inserisco nella lista di distribuzione della rivista.
Ha ricevuto il nr. 1 del 2006?
I miei più cordiali saluti.

Avv. Antonio Pagano
http://www.duesicilie.org/


--------------------------------------------------------------------------------
DUE SICILIE - 8/2007




--------------------------------------------------------------------------------

DUE SICILIE -5/2005

RICORDIAMO

Le stragi di Pontelandolfo e Casalduni del 14 Agosto1861

Il 2 agosto 1861, Massimo D'Azeglio, in una lettera al senatore Carlo Matteucci, pubblicata poi dai giornali, scrive : "Noi siamo proceduti innanzi dicendo che i governi non consentiti dai popoli erano illegittimi: e con questa massima, che credo e crederò sempre vera, abbiamo mandato a farsi benedire parecchi sovrani italiani; ed i loro sudditi, non avendo protestato in nessun modo, si erano mostrati contenti del nostro operato, e da questo si è potuto scorgere che ai governi di prima non davano il loro consenso, mentre a quello succeduto lo danno. Così i nostri atti sono stati consentanei al nostro principio, e nessuno ci può trovare da ridire. A Napoli abbiamo cacciato ugualmente il sovrano, per stabilire un governo sul consenso universale. Ma ci vogliono, e pare che non bastino, sessanta battaglioni per tenere il Regno, ed è notorio che, briganti o non briganti, tutti non ne vogliono sapere. Mi diranno: e il suffragio universale? Io non so niente di suffragio, ma so che di qua del Tronto non ci vogliono sessanta battaglioni e di là sì. Si deve dunque aver commesso qualche errore; si deve, quindi, o cambiar principi, o cambiar atti e trovare modo di sapere dai Napoletani, una buona volta, se ci vogliono sì o no. Capisco che gli Italiani hanno il diritto di far la guerra a coloro che volessero mantenere i Tedeschi in Italia; ma agli Italiani che, rimanendo Italiani, non vogliono unirsi a noi, non abbiamo diritto di dare archibugiate ... perché contrari all'unità".

Il D'Azeglio scrive quello che moltissimi pensano. Il governo «italiano» risponde addossando allo Stato Pontificio la responsabilità che il brigantaggio è alimentato da Francesco II con la protezione del Papa e che non si può dubitare della "legittimità" dei plebisciti. In realtà, com'è riconosciuto dalla stessa Commissione d'inchiesta, fazione esercitata dal governo duosiciliano in esilio a Roma è del tutto trascurabile e l'aiuto prestato è limitato all'invio sporadico di qualche agente di collegamento e di scarsi soccorsi materiali. In tutte le province duosiciliane la guerriglia è un fenomeno di ribellione popolare del tutto spontaneo per liberarsi dagli invasori.

Quasi tutti i paesi duosieiliani sono in rivolta. Numerosi sono i collaborazionisti uccisi dai partigiani.

La notte tra il 4 ed il 5, le montagne che cingono Pontelandolfo sono piene d'insorti: i fuochi accesi sono tantissimi. I liberali collaborazionisti dei piemontesi impauriti fuggono dalla cittadina.

Il giorno dopo, a Pontelandolfo, si tiene l'antichissima Fiera di S. Donato. Il viale che porta dalla provinciale alla piazza principale, attraverso lo spiazzo della chiesa di San Donato, è gremito di almeno cinquemila persone venute da altri paesi. Durante la processione arrivano anche gli insorti di Cosimo Giordano, accolti festosamente da tutti gli abitanti al grido di "Viva Francesco II.

I1 7, Casalduni è semideserta, numerosi sono a Pontelandolfo per la fiera. Verso le 18 qualcuno porta la notizia che alla fiera di San Donato sono arrivati il Giordano e il suo gruppo, che dappertutto sventolano i vessilli delle Due Sicilie e che è stato proclamato un governo provvisorio. La gente rimasta si raduna spontaneamente, si dirige alla caserma della guardia nazionale, ne scardina l'ingresso, s'impadronisce delle armi e delle munizioni e abbatte gli stemmi savoiardi.

Il 9, a Cancello, i soldati piemontesi uccidono 29 civili che manifestano contro gli occupanti. I guerriglieri dei La Gala assaltano un treno carico di truppe, a cui infliggono numerose perdite.

A Napoli, il Cialdini, temendo che la situazione diventi incontrollabile, telegrafa al generale Cadorna: "Nel caso di avvenimenti gravi ed imprevisti a Napoli od altrove, concentri la sua truppa a Teramo, Aquila e Pescara ed agisca secondo le circostanze se le comunicazioni con me venissero interrotte” .

Il giorno dopo, Ruvo del Monte, S. Giorgio, Molinara, Pago e Pietrelcina sono accerchiate dal truppe del 31 ° bersaglieri comandato dal maggiore Davide Guardi: le case sono saccheggiate, 23 persone uccise, il denaro delle casse comunali confiscato. L'ufficiale taglieggia anche i possidenti, ne arresta numerosi perché rifiutatisi di pagare e con l'accusa di attentato alla sicurezza dello Stato. Tra questi bersaglieri molti sono quelli che si fanno fotografare, sorridenti, accanto ai cadaveri degli insorti a cui tengono sollevata la testa per i capelli. Tra i taglieggiatori vi è anche il maggiore Du Coll del 61' fanteria.

Il Sannio ed il Molise sono praticamente sotto il controllo della resistenza. Cerreto Sannita è isolato e così pure Campobasso, il cui governatore Giuseppe Belli fa arrivare questa informativa al Cialdini: "Ho interessato questo colonnello del 36° Fanteria a spedire delle forze verso Sepino, lo stesso ho fatto col generale Villerey comandante la brigata di Isernia. Ho telegrafato al governatore di Benevento per conoscere lo stato di quei luoghi mentre il commercio si trova paralizzato da due giorni dopo le notizie dei noti avvenimenti, infine non ho mancato disporre che le guardie nazionali dei Comuni lungo la strada sino a Sepino, pratichino esatte e perenni perlustrazioni interessando in pari tempo i miei colleghi di Benevento e Caserta a fare lo stesso, per il tratto della consolare che rientra nelle rispettive giurisdizioni".

Il generale De Sonnaz, per sedare la rivolta di Pontelandolfo, invia da S. Lupo un drappello di 45 uomini del 36' fanteria, comandato dal tenente Cesare Augusto Bracci. Alle prime ore dell'alba del 10 agosto il tenente Bracci parte da Campobasso, ma, giunto in località Borgotello, è accolto da colpi di fucile. Un bersagliere rimane ucciso. Si dirigono poi a Pontelandolfo, ma circondati da numerosi partigiani a cavallo nei pressi della masseria Guerrera, si danno alla fuga in ordine sparso dirigendosi verso Casalduni. Inseguiti, sono costretti a uno scontro a fuoco. Due soldati rimangono uccisi. Nel frangente uno dei soldati, accusato il tenente Bracci di incapacità, gli spara col fucile uccidendolo. Tutti gli altri, tranne un sergente che si nasconde tra i rovi della boscaglia, si consegnano ai guerriglieri. Il Sergente partigiano Pica e i suoi uomini, ordinato ai prigionieri di mettersi in colonna, si dirigono verso Casalduni. I guerriglieri sono accolti da una folla festante. Tra la folla in piazza vi è anche il vice sindaco Nicola Romano, autore di brogli durante il plebiscito-farsa. Anche lui inveisce contro i prigionieri, ma, riconosciuto dalla folla, è legato ad un albero della piazza e fucilato. Per i prigionieri è istruito un processo sommario. Ne viene decisa la fucilazione, eseguita alle ore 22,30 del giorno 11.

La notizia degli avvenimenti di Casalduni arriva anche a San Lupo al liberale Iacobelli. Costui, alla testa di duecento guardie nazionali bene armate, si dirige verso la cittadina, ma accortosi che ogni strada è controllata dagli insorti, devia verso Morcone. Da questo luogo, invia al Cialdini un dispaccio, che in pratica decreta la fine di Pontelandolfo e Casalduni: "Eccellenza, quarantacinque soldati, tra i più valorosi figli d'Italia, il giorno 11 agosto 1861 furono trucidati in Pontelandolfo. Arrivati sul luogo vennero tenuti a bada dai cittadini fino al sopraggiungere dei briganti. Giunti costoro, i soldati avevano subito attaccato, ma il popolo tutto accorse costringendoli a fuggire. Inseguiti si difesero strenuamente, sempre combattendo, fino a ritirarsi nell'abitato di Casalduni ove si arresero e passati per le armi. Invoco la magnanimità di sua eccellenza affinché i due paesi citati soffrano un tremendo castigo che sia d'esempio alle altre popolazioni del sud.

Il Cialdini ordina allora al generale Maurizio De Sonnaz che di Pontelandolfo e Casalduni " non rimanesse pietra su pietra ". Costui, il 13, col 18° reggimento bersaglieri, forma due colonne, una di 500 uomini al comando del tenente colonnello Negri, che si dirige verso Pontelandolfo, l'altra di 400 al comando di un maggiore, Carlo Magno Melegari, che si dirige verso Casalduni. Prima di entrare nei paesi, le colonne si scontrano con una cinquantina d'insorti, che però sono costretti a fuggire nei boschi dopo avere ucciso nel combattimento venticinque bersaglieri.

accompagnato dal De Marco, ha contrassegnato le case dei liberali da salvare, i bersaglieri entrati in Pontelandolfo fucilano chiunque capiti a tiro: preti, uomini, donne, bambini. Le case sono saccheggiate e tutto il paese dato alle fiamme e raso al suolo. Tra gli assassini vi sono anche truppe ungheresi che si distinguono per loro immondi atrocità. I morti sono oltre mille. Per fortuna alquanti abitanti sono riusciti a scampare al massacro trovando rifugio nei boschi.

Nicola Biondi, contadino di sessant'anni, è legato ad un palo della stalla da dieci bersaglieri. Costoro ne denudano la figlia Concettina di sedici anni, e la violentano a turno. Dopo un'ora la ragazza, sanguinante, sviene per la vergogna e per il dolore. 11 soldato piemontese che la stava violentando, indispettito nel vedere quel corpo esanime, si alza e la uccide. Il padre della ragazza, che cerca di liberarsi dalla fune che lo tiene legato al palo, è ucciso anche lui dai bersaglieri. Le pallottole spezzano anche la fune e Nicola Biondi cade carponi accanto alla figlia. Nella casa accanto, un certo Santopietro con il figlio in braccio mentre scappa, è bloccato dalle canaglie savoiarde, che gli strappano il bambino dalle mani e lo uccidono.

Il maggiore Rossi, con coccarda azzurra al petto, è il più esagitato. Dà ordini, grida come un ossesso, è talmente assetato di sangue che con la sciabola infilza ogni persona che riesce a catturare, mentre i suoi sottoposti sparano su ogni cosa che si muove. Uccisi i proprietari delle abitazioni, le saccheggiano: oro, argento, soldi, catenine, bracciali, orecchini, oggetti di valore, orologi, pentole e piatti.

Angiolo De Witt, del 36° fanteria bersaglieri, così descrive quell'episodio: "... il maggiore Rossi ordinò ai suoi sottoposti l'incendio e lo sterminio dell'intero paese. Allora fu fiera rappresaglia di sangue che si posò con tutti i suoi orrori su quella colpevole popolazione. I diversi manipoli di bersaglieri fecero a forza snidare dalle case gli impauriti reazionari del giorno prima, e quando dei mucchi di quei cafoni erano costretti dalle baionette a scendere per la via, ivi giunti, vi trovavano delle mezze squadre di soldati che facevano una scarica a bruciapelo su di loro. Molti mordevano il terreno, altri rimasero incolumi, i feriti rimanevano ivi abbandonati alla ventura, ed i superstiti erano obbligati a prendere ogni specie di strame per incendiare le loro catapecchie. Questa scena di terrore durò un'intera giornata: il castigo fu tremendo...".

Due giovani, di cognome Rinaldi, salvati dal De Marco perché liberali, alla vista di tanta barbarie e tanto accanimento contro i loro compaesani e la loro città, consultatisi col padre, si dirigono verso il Negri. I due giovani avevano appreso le idee liberali frequentando circoli culturali a Napoli, sognavano un'Italia una, libera, indipendente; sognavano la fratellanza. A quelle scene di terrore e di orrore aprono però di colpo gli occhi. Il più giovane dei due aveva finito da poco gli studi all'Università di Napoli e si avviava all'avvocatura; il fratello maggiore era un buon commerciante di Pontelandolfo. I due fratelli sono accompagnati dal De Marco per protestare contro quel barbaro eccidio. Il Negri per tutta risposta dà immediatamente ordine di fucilarli tutti. Dieci bersaglieri prendono i Rinaldi, s'impossessano dei soldi che hanno nelle tasche e li portano nei pressi della chiesa di San Donato. l due fratelli chiedono un prete per l'ultima confessione. ma è loro negato. Sono bendati e fucilati. L'avvocato muore subito, mentre il fratello, pur colpito da nove pallottole, è ancora vivo. Il Negri lo finisce a colpi di baionetta.

Il saccheggio e l'eccidio durano l'intera giornata del 14. Numerose donne sono violentate e poi uccise. Alcune rifugiatesi nelle chiese sono denudate e trucidate davanti all'altare. Una, oltre ad opporre resistenza, graffia a sangue il viso di un piemontese; le sono mozzate entrambe le mani e poi è uccisa a fucilate. Tutte le chiese sono profanate e spogliate. Le sacre ostie sono calpestate. Le pissidi, i voti d'argento, i calici, le statue, i quadri, i vasi preziosi e le tavolette votive, rubati. Gli scampati al massacro sono rastrellati e inviati a Cerreto Sannita, dove circa la metà è fucilata.

A Casalduni la popolazione, avvisata in tempo, fugge. Rimane in repressione e qualche altro che pensa di farla franca restando chiuso in casa. Alle quattro del mattino, il 18° battaglione, comandato dal Melegari e guidato dal Jacobelli e da Tommaso Lucente di Sepino, circonda il paese. Il Melegari, attenendosi agli ordini ricevuti dal generale Piola-Caselli, dispone a schiera le quattro compagnie di cento militi ciascuna e attacca baionetta in canna concentricamente. La prima casa ad essere bruciata è quella del sindaco Ursini. Agli spari e alle grida, i pochi rimasti in paese escono quasi nudi da casa, ma sono infilzati dalle baionette dei criminali piemontesi. Messo a ferro e a fuoco Casalduni e sterminati tutti gli abitanti trovati. Dalle alture i popolani osservano ciò che sta accadendo nei due paesi, ma sono impotenti di fronte a tanto orrore.

A Pontelandolfo e a Casalduni, i morti superano il migliaio ma le cifre reali non sono mai svelate dal governo «italiano». Il "Popolo d'Italia", giornale filogovernativo e quindi interessato a nascondere il più possibile la verità, indica in 164 le vittime di quell'eccidio, destando l'indignazione persino del giornale francese " La Patrie " e dell'opinione pubblica europea.

Il giornale fiorentino "Il Contemporaneo" pubblica alcune statistiche sui primi nove mesi della "libertà" piemontese nel Regno delle Due Sicilie: morti fucilati "istantaneamente" 1.841, fucilati "dopo poche ore" 7.127, feriti 10.604, prigionieri e arrestati 20.000, 3000 ex soldati deportati nel campo di concentramento di S. Maurizio (presso Torino), famiglie "perquisite" (saccheggiate) 2.903, case incendiate 918, paesi totalmente distrutti 14, paesi incendiati 5, chiese saccheggiate 12, sacerdoti fucilati 54, frati fucilati 22, comuni insorti 1.428, persone rimaste senza tetto 40.000.

Ai criminali assassini Cialdini, Negri, Melegari, Rossi e agli ungheresi, lo Stato italiano ha concesso onorificenze e medaglie d'oro. Questi criminali ancora oggi sono considerati e venerati come «eroi del risorgimento».

I martiri di Pontelandolfo e Casalduni sono, invece, completamente ignorati dallo Stato italiano, che però continua a perseguire i nazisti, che, al confronto con le canaglie savoiardo­piemontesi, sembrano teppisti da oratorio.

Antonio Pagano




--------------------------------------------------------------------------------



DUE SICILIE-6/2005

Egregio Direttore, certamente, sono un convinto ed appassionato sostenitore dell'Italia unita, lo sono, così come lo sono stati i miei antenati. Ma sono amante, soprattutto di quella storia che è fatta di verità, di documenti, di nomi e di fatti precisi e concreti, e che non può essere né confusa con l'ideologia (quanto spesso faziosa!), né con i `sembra', i `si dice', e con le parole e le affermazioni non confortate da documenti.

Tanto premesso, proprio per amore della storia, il che vuol dire della verità, sento il dovere di confutare le sue affermazioni contenute nell'articolo «Ricordiamo le stragi di Pontelandolfo e Casalduni del 14 agosto 1861», pubblicato nel periodico Due Sicilie del 28.8.05.

Nel mio libro «Storia dei fatti di Pontelandolfo e Casalduni», giunto alla terza edizione, ho chiarito una volta per sempre, con la dovuta documentazione e quindi in maniera inconfutabile, quanto veramente avvenne a Pontelandolfo e Casalduni nei maledetti quindici giorni dell'agosto 1861. L 'undici agosto 1861 furono trucidati ben 45 soldati italiani (uno a Pontelandolfo dai briganti reazionari floborbonici; due o tre alle contrade Minicariello e Cerquelle di Pontelandolfo dai briganti di Pontelandolfo e Casalduni; ed i restanti, fatti prigionieri dagli anzidetti, furono poi trucidati a Casalduni dai briganti di quel paese, comandati dal famigerato Pica per ordine del sindaco Luigi Orsini).

Di questa strage compiuta dai briganti filoborbonici Lei tace nel suo articolo, mettendo invece in luce, e non nelle sue reali proporzioni, la reazione dell'esercito italiano. La storia, egregio direttore, procede obbedendo ad un rigido e logico rapporto di cause ed effetti: e, perciò, non significa fare opera di storico parlare degli effetti soltanto, trascurando le cause. Comunque, le vittime tra gli abitanti di Pontelandolfo e Casalduni (vittime certamente innocenti, in quanto non colpevoli di responsabilità personale, ed alle quali va senz'altro il riconoscimento di martiri) furono quindici: tredici a Pontelandolfo e due a Casalduni, e non «oltre mille», come Lei dice nel suo articolo, ispirato unicamente da passione di parte.

Voglio ancora precisare che nessun prete figura tra gli uccisi, come Lei, per rendere più patetico il quadro, ha detto, seguendo il ben noto cliché dell'informazione mediatica contemporanea.

Questo, egregio direttore, sentivo il dovere di precisare: non solo per confutare la faziosa propaganda secessionistica che avvelena oggi il clima politico italiano, ma soprattutto per amore della verità e della Storia. Voglia gradire l'omaggio del mio libro sull'argomento in discussione.

Gr. Uff. Dott. Ferdinando Melchiorre Pulzella, Benevento

Egregio Gr. Uff. Dottore,

Il Regno delle Due Sicilie ha perso l'indipendenza a causa dei traditori che han venduto il loro Paese allo straniero. Lei afferma, soprattutto nel libro che ci ha omaggiato, che il suo avolo sindaco "oltre ad essere liberale, faceva finanche parte del Comitato Liberale Unitario di Pontelandolfo, del quale era stato il promotore", questo già nel 1859, quando il Re Francesco II si affannava a difendere il Reame dalle brame savojarde. Dunque il Suo avolo, per il suo ruolo e per la carica rivestita - oggettivamente parlando - era un traditore al pari di Liborio Romano. Se, cittadino piemontese, il Suo arcavolo si fosse solamente azzardato a farlo in Piemonte, sarebbe finito sulla forca. Dante, se l'avesse conosciuto, l'avrebbe sbattuto nellWferno, così come ha fatto per Buoso di Duera, traditore del Re Manfredi. Per molto meno, per averlo solo pensato, nel regno sardo il Garibaldi e il Mazzini erano stati condannati a morte. Né oggi le cose sono diverse: ovunque nel mondo, per i traditori, si profila lo spettro della forca. Al suo avolo è andata bene, così Lei può cantarne il peana, invece che vergognarsene. Complimenti. I Duosiciliani morti dal 1860 per oltre un decennio per mano delle canaglie subalpine e dei traditori nostrani attendono dunque ancora giustizia - non i socii del Suo antenato, da Lei definiti "innocenti"; ai quali va tuttavia la nostra pietà, dato che in parecchi la giustizia la

conobbero per mano dei da Lei vituperati "briganti". La invitiamo per un solo istante a considerare le conseguenze di quell'epocale tradimento: rapina della flotta e delle ricchezze auree, perdita del baricentro economico con conseguente fuga degli investitori stranieri da allora mai più ritornati, diaspora senza fine del popolo duosiciliano, la vergogna di dover adoperare da 145 anni una moneta straniera per i commerci ( la Banca d'Italia è una succursale delle banche del nord)..., con la connivenza dei cosiddetti "galantuomini'; traditori, ripetiamo, del loro popolo, quel popolo che avevano già tradito nel 1799, per il loro tornaconto di biechi latifondisti.

Lei si dichiara convinto sostenitore dell'Italia unita, non si accorge di essere stato ingannato (se è in buonafede) come lo sono stati tanti nel 1860, i quali troppo tardi si accorsero del grande inganno ordito dal sinedrio savojardo, che, con le rapine a mano armata al Sud, si è creato il cosiddetto triangolo industriale. Ma la rapina, cara Lei, non terminò allora con l'espropriazione del tesoro delle Due Sicilie e con la vendita delle terre demaniali ed ecclesiastiche, oggi continua più di allora, pensi, per esempio, a quanto denaro fluisce annualmente dal Sud al Nord solamente per effetto dell'assicurazione obbligatoria sugli autoveicoli (circa quindicimila miliardi di vecchie lire ogni anno), pensi ai supermercati pieni di prodotti allogeni... Effetti nefasti di quel tradimento. Come possono in tali condizioni formarsi i capitali occorrenti per un decollo industriale? Occorrerebbe che i Duosiciliani di oggi comprassero maniacalmente solo prodotti del Sud. È un invito che rivolgiamo anche a Lei.

Veniamo al Suo libro su Pontelandolfo. Lei afferma di aver chiarito "una volta per sempre" i fatti che vi si svolsero in quel fatale 1861. Dunque se altri portassero elementi confutatorii delle Sue affermazioni potrebbero, secondo il Suo punto di vista, essere accusati di mendacio, in palese contraddizione con quanto Lei, pro domo sua, afferma nella presentazione del Suo libro: "sono d'accordo con i revisionisti, quando sostengono che il giudizio storico non può considerarsi cristallizzato e codificato per sempre".

E Lei ha fatto il revisionista. Per noi la Sua ricerca è solamente un tassello della storia di Pontelandolfo. Quanto poi il tassello sia sincero e veritiero, questo è da vedersi. Lei afferma, secondo le risultanze delle Sue ricerche (che noi non biasimiamo affatto), essere stati gli uccisi dai piemontesi (non "italiani'; come afferma Lei; l'esercito "italiano" era ancora di là da venire) solamente 13 a Pontelandolfo e 2 a Casalduni contro i 46 (non 45, cfr. Molfese) dell'esercito invasore. Ci consenta al riguardo una piccola considerazione. Sembra che all'epoca gli abitanti del paese,fossero circa 4500. Il battaglione di piemontesi arriva a Pontelandolfo per vendicare i 46 uccisi dai "briganti". Secondo le regole, scritte o non scritte della rappresaglia, i sicari del Cialdini avrebbero dovuto accoppare almeno 460 persone, invece si accontentano di ammazzarne, secondo Lei, solamente 13, dopodiché il comandante di quegli "italiani", sazio della piccola mattanza e disgustato di se stesso, contravviene, bontà sua, agli ordini ricevuti e griderebbe: "Pontelandolfesi, la nostra sete di vendetta è placata, venite fuori con tutta sicurezza, non temete, siamo vostri,fratelli, non vi faremo più niente, state tranquilli, dobbiamo solamente bruciare le vostre case". Ma ci ,faccia il piacere, direbbe l'indimenticabile Totò. Il Molfese afferma essere stati deportati circa 400 Pontelandolfesi, evidentemente i rastrellati dopo la rappresaglia e sfuggiti alla mattanza. Ci dica allora che fine fecero gli altri circa 4000 abitanti della cittadina. Noi le rispondiamo con le parole contenute in una lettera di Francesco II in data l S dicembre 1861 al Cardinale Riario Sforza Arcivescovo di Napoli una settimana dopo il terremoto che aveva colpito Torre del Greco (8 dicembre): 'Torre del Greco rassomiglia a Pontelandolfo e Casalduni; meno misera sol perché non può rigettare su gli uomini l'atrocità della sua ruina'; dove la parola atrocità, ponga mente, non può riferirsi alle case crollate, bensì all'umanità derelitta perita in quel tragico giorno.

Ascolti ancora: oA Pontelandolfo - scrive P. K. O' Clary in La Rivoluzione italiana, ediz. Ares, anno 2000, pag. 518 - trenta donne che si erano rifugiate intorno alla croce eretta sulla piazza del mercato, nella speranza di trovarvi scampo agli oltraggi e alla morte, furono tutte uccise a colpi di baionetta. Propaganda borbonica? No, perché ce ne fa fede il liberale Ferrari, il quale denunciò l'episodio a Torino, e sulla cui testimonianza Mr Cavendish Bentinck parlò alla Camera dei Comuni. Questo, però, era soltanto un segmento del vasto quadro di orrori e di massacri».

A Lei non è venuto il sospetto che i documenti da Lei compulsati relativi ai fatti di Pontelandolfo siano stati bellamente falsificati in illo tempore? Badi che tale pratica è stata ed è ancora molto comune, soprattutto quando si tratta di cadaveri di Stato. Anzi, aggiungiamo, talvolta se ne è servita persino la Chiesa , pensi per esempio al falso della famosa donazione di Costantino. Ma noi, leggendo nel Suo libro i nomi delle persone commemorate sulla lapide di Pontelandolfo, abbiamo scoperto la malizia di chi ha fatto apporre la lapide, malizia che a Lei, noi lo speriamo, è forse sfuggita: si tratta, con tutta evidenza, delle vittime perite per mano di 'fuoco amico'; come dicono talvolta gli americani impegnati sul fronte irakeno, cioè di liberali, come i Rinaldi, uccisi dai piemontesi durante la consumazione della loro vendetta e che potevano essere accomunati, da chi ordinò la lapide, solamente con altri della stessa fazione.

Dunque la lapide commemora solamente le vittime di una parte sola, le uniche degne di essere ricordate. Non per questo vien meno la nostra pietà. Ma ricordando solamente i tredici, e non tutti gli altri periti nella rappresaglia, che liberali non erano, chi ha negato loro persino il ricordo presso i posteri li ha uccisi una seconda volta. Questa nostra affermazione dovrebbe portarla a guardare con più attenzione al lavoro di D. F. Panella, che Lei pur cita, e ai dati del De Witt, e, se poi Le si aprono gli occhi, anche a quanto riferiscono gli storici della parte non liberale.

I savoiardi, per piegare la volontà di indipendenza del popolo duosiciliano, compirono nefandezze furibonde che forse solo il terrore hitleriano o staliniano o Pol Poi hanno superato: Scurcola Marsicana, Tagliacozzo, Catania, Montefàlcione etc. Morti a migliaia e deportazioni.

Nell'ultima località (Montefalcione) i fucilati furono 139 in un sol giorno (cfr. Molfese), eppure nessuna località delle Due Sicilie è diventata simbolo - come ad esempio Coventry per gli inglesi, Dresda per i tedeschi, Hiroshima e Nagasaki per i giapponesi - simbolo dell'efferatezza savojarda se non Pontelandolfo e Casalduni, segno questo che l'eccidio aveva superato perfino quelli del famigerato Manhès durante l'invasione napoleonica. Questo fatto non Le,fa sorgere qualche dubbio sulla Sua ricostruzione dei fatti?

Circa il rapporto di causa ed effetti, il suo discorso è intenzionalmente paralogico, Lei "dimentica" la causa delle cause, la causa prima, come direbbero i filosofi scolastici medievali: cioè l'invasione piemontese a tenaglia, da sud col nizzardone e da nord col savojone, invasione favorita, ripetiamo, dai traditori nostrani. Circa i preti, si ricordi che i primi ad essere uccisi erano proprio questi. Veda, alla caduta di Civitella del Tronto, la fucilazione di padre Zilli da Campotosto, secondo gli usuali ordini del criminale di guerra Cialdini: "uccidete prima i preti". E veda quanto scrisse il soldato piemontese Marcolfi sui fatti di Pontelandolfo. Continui a leggerci, forse rinsavirà.

Antonio Pagano




--------------------------------------------------------------------------------







--------------------------------------------------------------------------------


Polibio redivivo!
Ho appena letto il nuovo msg [in cui si parla di un recente testo che minimizzerebbe l'entità degli eccidi di Pontelandolfo e Casalduni – N d. R.] della rete delle Due Sicilie, ecco come zittire il "grande studioso" !!!

E' inutile citare uno storico contemporaneo per smentire un altro storico (o presunti tali), se non conoscessi le fonti dell'evento storico in questione, penserei "'a parola mia, contra 'a toia, chissà addò stà a' verità!"

Ma a me risulta, benché non abbia mai scritto alcun libro di storia, che la storia la si fa consultando i documenti dell'epoca che vogliamo trattare, valutandone preventivamente l'attendibilità. Qui riporto alcune testimonianze dirette degli eccidi di Pontelandolfo e Casaladuni. Sottolineo che Melegari, Negri e Margolfo avevano tutto l'interesse a minimizzare l'accaduto, ma se pure avessero raccontato la verità oggettiva, il nostro "Polibio" avrebbe scritto una marea di menzogne, giacché il bersagliere Margolfo ammette: " subito incominciato a fucilare preti e uomini, quanti capitava , indi il soldato saccheggiava”.

Nemmeno un prete fu ucciso ? Caro Polibio redivivo, credo proprio che il nostro abbia personalmente fucilato almeno un prete... in fondo lo ammette candidamente !!!

"Briganti arrendetevi" Anonimo (Carlo Melagari), Edizioni Osanna Venosa, 1996, pp. 22-33.

[...] “quando si parlava e si leggeva sui giornali che gli abitanti di Casalduni e Pontelandolfo, unitisi a 400 bri­ganti, dopo le più crudeli sevizie, avevano infamemente massacrato una mezza compagnia e ufficiali del 36°reggimento di linea.”

[...] “Persuaso che nulla poteva accadere d'importante, alla sera mi recai all'adiacente teatro San Carlo, prevenendo il capi­tano più anziano che, in caso di bisogno, mi avesse fatto chiamare. ...e mi com­piacevo di poter assistere ad un magnifico spettacolo, come se ne soleva rappresentare in questo gran teatro; la nume­rosa e buona orchestra cominciava ad accordare gli strumenti, quando, volgendo lo sguardo al fondo della platea, vidi un tenente del battaglione che, alzando la destra, indi­cava volere parlarmi. Lasciata la poltrona, l'incontrai nel vestibolo: “ II generale Cialdini, mi disse, la vuole subito al Comando”.

[...] “Accorsi e trovai invece il generale Piola-Caselli, che, un poco contrariato per il mio ritardo, mi riceve con queste parole: « Ella avrà senza dubbio udito parlare del doloroso ed infame fatto di Casalduni e Pontelandolfo; orbene, il generale Cialdini non ordina, ma desidera che di quei due paesi non rimanga più pietra sopra pietra... Ella è autorizzata a ricorrere a qualun­que mezzo, e non dimentichi che il generale desidera che siano vendicati quei poveri soldati, infliggendo la più seve­ra punizione a quei due paesi. Ha ella ben capito?“

“Generale, risposi io, so benissimo come si devono interpretare i desiderii del generale Cialdini: ho fatto la campagna della Crimea e quella del 1859 sotto i suoi ordi­ni, e so per prova come egli sia uso a comandare e ad essere ubbidito”. Ciò detto m'accomiatai e ritornai al teatro, ove potei ancora godere di due atti degli Ugonotti e del grande ballo“[...]

“Spuntava appena il giorno che il battaglione si trovava schierato di fronte a Casalduni. Immantinenti ordinai di circondare il paese, posto in basso, e di aprire il fuoco di fila fino al mio segnale di cessate-il-fuoco; quindi d'entrare, baionetta in canna, di corsa, compagnia per compagnia per i diversi sbocchi, onde concentrarsi sulla piazza del paese vicino alla chiesa. Le campane suonavano tristemen­te a stormo, pochi colpi di fucile partivano dai campanili e dai terrazzi.... Fui sorpreso di trovare le vie deserte ed un silenzio sepolcrale nelle case. I briganti e gli abitanti, avvertiti dell'avvicinarsi dei bersaglieri....

Era giunto finalmente il momento di vendicare i nostri compagni d'armi, era giunto oramai il momento del tre­mendo castigo . Chiamati a me gli ufficiali delle tre com­pagnie che si trovavano riunite sulla piazza, ove s'ergeva anche la casa del Sindaco, ordinai loro di far atterrare le porte e di appiccare il fuoco alle case, a cominciare da quella del Sindaco. In breve dense nubi di fumo s'elevavano al cielo e l'incendio divampava in diverse parti del paese.

Nella casa del Sindaco già le fiamme, irrompendo dai vani del pian terreno, a guisa di serpenti s'allungavano ed invadevano il piano superiore. Alcuni bersaglieri, udendo strepiti e nitriti, entrati nella scuderia ne tiravano fuori due cavalli furiosi dallo spavento; altri, saliti al primo pia­no, buttavano giù dalle finestre bandiere borboniche, uni­formi, razioni di pane, armi, e fra queste i fucili con le cinghie bianche insanguinate appartenenti ai poveri solda­ti sopraffatti a tradimento e trucidati barbaramente.”

[...] “ L'incendio continuava l'opera sua di distruzio­ne e da una casa si propagava facilmente all'altra “[...]

Abstracts, presi dal web, tratti da: L'invenzione dell'Italia unita di Roberto Martucci

[...] “All'alba del 14 agosto 1861 i soldati, che nel frattempo hanno preso posizione sulle alture circostanti, ricevono l'ordine di aprirsi a ventaglio per investire da più lati l'abitato, con i suoi cinquemila abitanti immersi nel sonno. Come ci conferma il diario del bersagliere Margolfo , i soldati avevano ricevuto l' ordine di “entrare nel comune di Pontelandolfo, fucilare gli abitanti, meno i figli, le donne e gli infermi ed incendiarlo” [...]

[...] «Entrammo nel paese - scrive il bersagliere Margolfo - subito incominciato a fucilare preti e uomini, quanti capitava , indi il soldato saccheggiava».

Come non manca di ricordare, assaporandone empio il ricordo, l'ufficiale Angiolo De Witt che, pur non essendo presente ai fatti, ricostruisce la strage grazie al racconto dei commilitoni:

“Allora fu fiera rappresaglia di sangue che si posò con tutti i suoi orrori su quella colpevole popolazione. I diversi manipoli di bersaglieri fecero a forza snidare dalle case gli impauriti reazionari dell'ieri, e quando dei mucchi di quei cafoni erano costretti dalle baionette di scendere per la via, ivi giunti vi trovavano delle mezze squadre di soldati che facevano una scarica a bruciapelo su di loro.

Molti mordevano il terreno; altri rimasero incolumi, i feriti rimanevano ivi abbandonati alla ventura, ed i superstiti erano obbligati di prendere ogni specie di strame per incendiare con quello le loro stesse catapecchie.

Questa scena di terrore guerresco duro una intiera giornata; il gastigo fu tremendo, ma fu più tremenda la colpa. Donne oltraggiate, malgrado lo spavento e il terrore che saetta dagli occhi, subiscono violenza da molti, pensando, forse, di averne salva la vita fino a che, pietosa, una baionetta mette fine ai loro giorni. Alle vecchie, solenni negli abiti neri, si strappano dalle orecchie i monili: poi per tutte un gesto di morte, rapida per le più fortunate, lunga e straziante per le altre.

Nella mozione che gli fu impedito di svolgere alla Camera, Marzio Proto, duca di Maddaloni, aggiunge particolari agghiaccianti; vi sono donne che, temendo lo stupro, preferiscono rimanere nelle case in fiamme: Nei vortici di fiamme che divoravano il vecchio ed adusto Pontelandolfo udivansi alcune voci di donne cantanti litanie e miserere.

Certi Uffiziali si avanzarono verso l'abituro onde veniva quel suono, ed apersero l'uscio, e videro cinque donne che scapigliate e ginocchioni stavano attorno di un tavolo su cui era una Croce con molti ceri ivi accesi. Volevano; ma quelle gridando: Indietro... maledetti! indietro... non ci toccate, lasciateci morire incontaminate, si ritrassero tutte in un cantuccio, e tosto profondò il piano superiore e furono peste le loro ossa, e la fiamma consumò le innocenti . “

Il legittimista Giacinto De Sivo si dirà incapace di descrivere «lo spavento tra la morte e le fiamme di quella città infelice, bruttata da italici rigeneratori» che «impotenti co' tedeschi, con gli inermi son prodi».

Qualora i giudizi espressi da un borbonico possano risultare ancora oggi sospetti, proviamo a leggere cosa scrive nel suo diario inedito, con una prosa zoppicante ma efficace, il bersagliere Margolfo:

«quale desolazione, non si poteva stare d'intorno per il gran calore: e quale rumore facevano quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti e chi sotto le rovine delle case»

Ma questa partecipazione al dolore è quasi certamente frutto di una rielaborazione successiva, dato che, quasi a voler sottolineare l'estraneità dei soldati al loro massacro di donne, bambini, vegliardi, Carlo Margolfo sente di dover aggiungere: «noi invece durante l'incendio avevamo di tutto: pollastri, pane, vino e capponi, niente mancava» , a parte 1'appetito, distrutto «per la gran stanchezza della marcia di 13 ore»

I morti? La strage non ha una contabilità ufficiale, ma considerato che Pontelandolfo e Casalduni nell'insieme contavano circa 12.000 abitanti, non ci sbaglieremmo di molto ipotizzando che le vite stroncate siano state parecchie centinaia, forse anche un paio di migliaia.

Il tenente Gaetano Negri parlò dell'eccidio in una lettera indirizzata al padre:

“Probabilmente anche i giornali nostri avranno parlato degli orrori di Ponte Landolfo. Gli abitanti di questo villaggio commisero il più nero tradimento e degli atti di mostruosa barbarie; ma la punizione che gli venne inflitta, quantunque meritata, non fu per questo meno barbara. Un battaglione di bersaglieri entrò nel paese, uccise quanti vi erano rimasti, saccheggiò tutte le case e poi mise il fuoco al villaggio intero, che venne completamente distrutto. La stessa sorte toccò a Casaldone i cui abitanti si etano riuniti a quelli di Ponte Landolfo.”

Lo storico legittimista Giacinto De Sivo, pochi anni dopo i fatti, scrive: “quattrocento piemontesi da San Lupo, con seguito di mascalzoni, guidati da quel tristo del Jacobelli, credendo sorprendere la popolazione, entrarono da più parti in Casalduni, sparando all'aria, spaventando quei pochi di vecchi e donne e fanciulli rimasti. Un Tommaso Lucente da Sepino [...] precedeva i soldati, indicando le case da ardere, prima quella del sindaco Ursini.

In ogni parte sacco, lascivia, incendi; nudi i cittadini fuggivano dalle fiamme; chi bastonato era, chi ammazzato.

Un Lorenzo d'Urso, là venuto per faccende, fattosi sull'uscio a salutare i soldati, è spento; e poi la casa col cadavere sono arsi. Il vecchio arciprete fugge in camicia, e ne more indi a poco. Un malato, rizzandosi sul letto per ispavento è ucciso .

Ugual ruina che a Ponte Landolfo, ma meno sangue, perché quasi, deserto il luogo, e più pochi gli assassini. Stigmatizzata dal «Times» di Londra in una corrispondenza del settembre 1861, denunciata con parole roventi alle cancellerie europee da Pietro Calà d'Ulloa duca di Lauria, ministro di Francesco II nell'esilio romano, della strage non si sarebbe mai saputo nulla - vista la mancata iscrizione all'ordine del giorno dell'interpellanza Proto de120 novembre - se la questione non fosse stata sollevata alla Camera dei deputati da Giuseppe Ferrari.

Prende la parola il 2 dicembre 1861... :

Nel turbinio degli avvenimenti [...] la confusione giunge a tal punto che io a Napoli non poteva sapere come Ponte Landolfo, una città di 5.000 abitanti fosse stata trattata. Io ho dovuto intraprendere un viaggio per verificare il fatto cogli occhi miei. Ma io non potrò mai esprimere i sentimenti che mi agitarono in presenza di quella città incendiata. Mi avanzo con pochi amici, e non vedo alcuno; pochi paesani ci guardano incerti; sopravviene il sindaco; sorprendiamo qualche abitante incatenato alla sua casa rovinata dall'amore della terra, e ci inoltriamo in mezzo a vie abbandonate. A destra, a sinistra le mura erano vuote e annerite, si era dato il fuoco ai mobili ammucchiati nelle stanze terrene e la fiamma aveva divorato il tetto; dalle finestre vedevasi il cielo. Qua e là incontravasi un mucchio di sassi crollati; poi mi fu vietato il progredire; gli edifizi puntellati minacciavano di cadere ad ogni istante.

L'implacabile Giuseppe Ferrarii, impolitico e indignato, non aveva tregua e con pathos infinito rievocava una tragedia paradigmatica:

E quando Volli vedere più addentro lo spettacolo ce1ato delle afflizioni domestiche, mi trassero dinanzi il signor Rinaldi, e fui atterrito. Pallido era, alto e distinto della persona, nobile il volto; ma gli occhi semispenti lo rivelavano colpito da calamità superiore ad ogni umana consolazione.

Appena osai mormorare che non così s'intendeva da noi la libertà italiana.

Nulla io chiedo, disse egli, e noi ammutimmo tutti. Aveva due figli, l'uno avvocato, l'altro negoziante, ed entrambi avevano vagheggiato da lontano la libertà del Piemonte, ed all'udire che approssimavansi i piemontesi, che così chiamasi nel paese la truppa italiana, correvano ad incontrarli. Mentre la truppa procede militarmente, i saccomanni la seguono, la straripano, l'oltrepassano, e i due Rinaldi sono presi, forzati a riscattarsi, poi, dopo tolto il danaro, condannati ad istantanea fucilazione.

L'uno di essi cade morto; l'altro viveva ancora con nove palle nel corpo; e un capitano gittavasi a ginocchio dinanzi ai fucilatori per implorare pietà; ma il Dio della guerra non ascoltava parole umane e l'infelice periva sotto il decimo colpo tirato alla baionetta.

Rinaldi possedeva due case, e l'una di esse spariva tra le fiamme, e appena gli uffiziali potevano spegnere l'incendio che divorava l'altra casa. Rinaldi possedeva altre ricchezze, e gli erano rapite; aveva altro... e qui devo tacermi, come tacevano dinanzi a lui tutti i suoi conterranei. Quante scene d'orrore!

Qui due vecchie periscono nell'incendio; là alcuni sono fucilati, giustamente, se volete, ma sono fucilati; gli orecchini sono strappati alle donne; i saccomanni frugano ogni angolo; il generale, l'uffiziale non possono essere dappertutto: si è in mezzo alle fiamme, si sente la voce terribile: piastre! piastre! e da lontano si vede l'incendio di Casalduni, come se l'orizzonte dell'esterminazione non dovesse avere limite

Su quelle ed altre efferatezze, un alto magistrato, Pietro Calà d'Ulloa, già consigliere della Corte suprema di Napoli, poi a Gaeta e a Roma con Francesco II, avrebbe cercato di sensibilizzare l'opinione pubblica europea, chiosando un lungo elenco di abusi con un richiamo alle vecchie e nuove pratiche coloniali: «non facevan le stesse cose gli inglesi in India, i francesi in Algeria, non avevano agito con la medesima accortezza gli spagnoli nel Messico e nel Perù contro i barbari."

Cordialmente FDV

P. S.

Ci avete fatto caso? Melegari ha l'ordine di massacrare degli inermi mentre stava al San Carlo, dove poi ritorna subito dopo, come se niente fosse. Eppure qualcuno mi accusa di delirare, quando sostengo che certi personaggi hanno profanato la nostra Terra e i monumenti a loro dedicati, e continuano a farlo !!!

Per completezza di informazione, segnaliamo il libro a cui si fa riferimento:





Articolo pubblicato dal quotidiano “ROMA” DEL 13/09/1980
Dibattito aperto su don Lorenzo Melchiorre sindaco di un altro secolo
Pontelandolfo / si faccia luce
sui «fatti d'arme» del 1861

Riceviamo da Pontelandolfo una nota di precisazione a firma di
Di Mella e Lopez circa una polemica che da circa un " mese sta sviluppandosi nel paese sannita a seguito di una rappresentazione teatrale su basi storiche sulla quale non tutti convengono. Pubblichiamo volentier

II giorno 27 agosto, sul quotidiano Roma, è apparsa una precisazione su Lorenzo Melchiorre, sindaco di Pontelandolfo all'epoca dei fatti d'arme del 1861. Il Nu¬cleo Ricerca Teatrale, mettendo in scena a Pontelandolfo il lavoro teatrale di Carlo Perugini «Agosto 1861 - Pontelandolfo: ultimo atto» ha inteso portare a cono¬scenza di tutti l'avvenimento storico sul massacro di Pontelandolfo da parte delle truppe piemontesi. È un episodio triste su cui è stato scritto moltissimo anche da scrittori come C. Alianello, F. Molfese, Nikolaj Dobrol¬júbov, L. Greco e A.Scotti.
Il Nucleo Ricerca Teatrale, che ha rappresentanto non la storia ma un lavoro costruito sulla base di dati storici, a questo punto poteva ritenersi soddisfatto del risultato ottenuto, anche perché la rappresentazione ha suscitato molti consensi e qualche critica. La precisazione su don Lorenzo Melchiorre, apparsa sul Roma, lascia alquanto perplessi perché, se è vero, come è vero, che egli fu sin¬daco di Pontelandolfo per circa I S anni, e cioè dal marzo 1855, significa che fu sindaco di parte borbonica.
Perche’ ritenne opportuno abbandonare quel governo per rifugiarsi nelle file dei piemontesi al momento della prospettata Unita’ d’Italia(tant’è vero che,si legge nella precisazione,fondò il Comitato Liberale Unitario di Pontelandolfo).
Questo cambiamento fu frutto di una evoluzione ideologica o un fatto di trasformismo politico?

Inoltre sappiamo che il Melchíorre abbandono il paese proprio alla vigilia dell'arrivo dei Piemontesi. Se egli, come riferisce ancora la precisazione, era per il governo piemontese, perché fuggì lasciando il paese senza guida, senza sostegno, senza protezione? E perché non si pro¬digò presso i suoi amici Piemontesi perché fosse evitato l'eccidio, il sacco, la distruzione del 14 agosto?

In un diario dell'epoca, scritto da Pistacchio, si legge, fra l'altro, che il Melchiorre, per ciò che aveva fatto, do¬veva essere fucilato. Ora ci si chiede cosa mai potesse aver fatto di così grave da rischiare la fucilazione è per giunta da parte dei suoi stessi amici Piemontesi?!

Nella monografia di Daniele Perugini su Pontelandolfo c'è forse la risposta a questi interrogativi.

Egli scrive testualmente: «...alcuni sciagurati ignoran¬ti, sperando di farsi un merito col nuovo governo, ed at¬teggiandosi colla divisa di liberali mentre mangiavano ancora la pagnotta largita loro dai borboni, ci dipinsero come avversi al nuovo governo...» (pag. 9). Emerge dunque don Lorenzo Melchiorre come figura discussa ed ambigua. Non potrebbero i Piemontesi aver avuto la stessa impressione? Per questi interrogativi non c'è una risposta precisa, perciò vorremmo capire come si sono svolti realmente i fatti del 1861, facendo luce sugli avvenimenti e sulle persone di quel periodo.

Per questo proponiamo un dibattito sui fatti dell’epoca aperto a tutti coloro che si sono interessati dell’avvenimento:a noi basterebbe conoscere la verita’,anche se questa dovesse smontare uno per uno tutti i nostri interrogativi o dovesse infrangere la facciata di lealta’ e perbenismo di alcuni personaggi locali…

--------------------------------------------------------------------------------

Articolo tratto da “il Messaggio d’oggi” del 23 Ottobre 1980
Contestato a Pontelandolfo un Sindaco di 120 anni fa
Tema di una recente ricerca il massacro della popolazione locale che si
trovò al centro della guerra combattuta tra i resti dell'esercito borbonico e le truppe piemontesi del generale Cialdini

Una ricerca teatrale “Pontelandolfo 1861”, rappresentata nella cittadina sannita in questa decorsa estate, è tornata su un an¬tico problema: la posizione assunta dal Sindaco di Pontelandolfo del 1861, appunto, Don Lorenzo Melchiorre, nella disputa tra esercito borbonico e trup¬pe piemontesi.
Sappiamo che la questione ha suscitato polemi¬che, ha dato luogo a dissensi, ha urtato suscetti¬bilità, specialmente per quanto si riferisce ai di¬scendenti del vecchio Sindaco... contestato.
Non abbiamo approfon¬dito il problema, ma ci perviene ora una lettera inviata dall'attuale Sindaco di Pontelandolfo, rag. Giuseppe Perugini, al di¬scendente vivente del Sin¬daco dell'epoca nella qua¬le, ci pare opportunamen¬te, si fa il punto su una situazione che rimonta ad oltre un secolo fa.
Ci è gradito, pertanto, pubblicare la lettera che l'attuale Sindaco di Ponte¬landolfo ha inviato nei giorni scorsi al dott. Melchiorre, discendente dello '! antico Sindaco di Pontelandolfo.
Caro ed illustre dottore,
la lettera recentissima del Sindaco di Torino Diego Novelli che ci comunica - come Amm. Comunale - di aver interessato la Direzione del Teatro Stabile di Torino in relazione al¬la la ricerca teatrale Pontelandolfo 1861 mi dà l'oc¬casione per intervenire in una polemica riguardante, appunto, i fatti del 1861 e, più specificatamente, il ruolo mantenuto dal Sindaco dell'epoca.Ebbene, credo che non si sia mai voluto aprire un dibattito su don Lorenzo Melchiorre. Sarebbe stato un dibattito lontano, in¬comprensibile, astratto co¬me una disputa bizantina.
Tema della ricerca è stato e resta il massacro subito dalla popolazione di Pontelandolfo che, inerme, si trovò al centro di questioni ideologiche ed in mezzo ad una guerra vera¬mente cruenta, combattuta dai resti dell'esercito borbonico e le truppe pie¬montesi del generale Cialdini.
Si sostiene - e sono scrittori, storici e saggisti, - che don Lorenzo Melchiorre fece una scelta nel segno del Risorgimento e dell'unità d'Italia e fu una scelta motivata perchè la storia, il divenire, impone¬vano il processo di riuni¬ficazione politica della pe¬nisola; in tutto questo non possono esserci margini di dissenso e di polemica, e, comunque, nessuno ha mai pensato di provocare una conta astratta dei buoni e dei cattivi.
La ricerca voleva e vuo¬le far riemergere una vicenda intrisa di sangue e di distruzione sulla quale era caduto il silenzio del¬la storia ufficiale.
La storia rappresenta un valore immutabile e percìò immutabile è la dimensione del sacrificio di Pontelandolfo ed immutabile il ruolo mantenuto dalla famiglia Melchiorre nel corso dei tempi rispet¬to alla nostra comunità.
Un ruolo di direzìone e di servizio sempre positívo, un ruolo mai dimenticato e vivificato e rigenerato meravigliosamente con Lei, caro don Ferdi¬nando, che è ritornato in mezzo a noi, per gestire e valorizzare il complesso monumentale della Torre che è il cuore pulsante della nostra tradizione, della nostra cultura, dei nostro passato.

Don Lorenzo Melchiorre risplende in questo ritorno ed in questo impegno di civiltà e d'amore; la figu¬ra del parroco don Epifanio De Gregorio (altro protagonista di quei giorni di tormenta e di lutti) rivivrà per le pagine di un saggio Storico autore il nipote prof. Narciso, di imminente pubblicazione; il sacrificio della gente, della popolazione, degli anonimi di Pontelandolfo speriamo possa essere ricordato ed ' esaltato, per la iniziativa i del Sindaco di Torino nella capitale stessa del Regno di Piemonte e di Sar¬degna da dove partì - come fatto politico e militare - la conquista del Sud. Cordialmente.
Pinuccio Perugini


--------------------------------------------------------------------------------


LO STERMINIO DEGLI ABITANTI

DI PONTELANDOLFO E CASALDUNI TRUCIDATI NEL ROGO DAGLI INVASORI PIEMONTESI
NELLA NOTTE DEL 14 AGOSTO 1861

Nell'agosto del 1861 la guerra di conquista del Sud era terminata da un pezzo con l'annessione del Regno delle Due Sicilie e la proclamazione del Regno d'Italia. Garibaldi si trovava confinato a Caprera e il "gran tessitore" Cavour era morto nel giugno precedente. Bettino Ricasoli era Primo Ministro.

Ma nel Sud, nell'antico Regno fondato dai Normanni, si combatteva ancora. Una guerriglia senza fine di "briganti" testardi che non si volevano piegare al nuovo re savoiardo, fedeli alla dinastia dei Borbone costretti all'esilio a Roma.

Il governo del neo-regno italiano con capitale Torino aveva spedito nelle Due Sicilie buona parte del suo apparato di guerra e si preparava ad inviare numerosi altri reparti dell'esercito perfettamente armati ed equipaggiati.

A dirigere tutte le operazioni era stato mandato a Napoli l'arrogante e cinico generale Enrico Cialdini, nominato governatore delle Province Meridionali. Per Cialdini tutto il territorio duosiciliano doveva essere "normalizzato" e perciò doveva essere rastrellato in modo minuzioso.

L'll agosto del 1861 un gruppo di 40 bersaglieri del 36° di linea di stanza a Campobasso al comando del tenente Luigi Augusto Bracci, scortato da 4 carabinieri, perlustrava quella zona del Sannio, posta al confine del Molise e al sud del Matese, alla ricerca della banda di briganti capeggiata da Cosimo Giordano, già sergente del disciolto esercito duosíciliano, che in quelle zone era stata segnalata. Purtroppo dei briganti nemmeno l'ombra, sparivano come folletti nei boschi e nelle montagne del Matese e del Molise. Qualcosa si doveva pur fare, pensò e disse il giovane ufficiale, dirigendosi verso i comuni di Pontelandolfo (4500 abitanti) e Casalduni (3000 abitanti).

Alla loro vista gli inermi contadini scapparono nelle vicine montagne chiedendo aiuto ai cosiddetti briganti. I partigiani legittimisti non si fecero pregare più di tanto ed in massa scesero subito dai monti.

I bersaglieri stretti ed attaccati da una moltitudine di combattenti finirono per essere sopraffatti dal numero, presi prigionieri e uccisi. Già prima il loro ufficiale era stato ucciso dai suoi stessi soldati. Solo un sergente riuscì a salvare la pelle e a scappare e, quindi, fu in grado di dare l'allarme a Benevento dove si trovava il generale piemontese Maurizio De Sonnaz.

La vendetta non tardò a venire. Il generale Cialdini, prontamente avvertito, da Napoli dispose l'immediato invio, in quelle zone, della truppa in forza alle guarnigioni savoiarde di Napoli, Avellino e Nocera Inferiore.

Nella notte tra il 13 ed il 14 agosto, 500 bersaglieri al comando del colonnello Negri circondarono Pontelandolfo e altri 400 al comando del Maggiore Carlo Melegari circondarono Casalduni.

Erano le ore 03.30 di mercoledì 14 agosto 1861. In un assoluto silenzio notturno si diede inizio ad una grande azione criminale, forse unica nella storia per la sua crudeltà. A gruppi, silenziosamente, entrarono nell'abitato dei due paesi e ad ogni porta, ad ogni finestra di abitazione civile, nonché alle chiese dei due centri misero fascine e paglia, e anche, in abbondanza stracci imbevuti di combustibile liquido infiammabile ed appiccarono il fuoco, mentre altri militari si appostavano all'uscita dei due paesi con le armi cariche e puntate contro eventuali persone che avessero cercato scampo nella fuga.

Poco dopo, tutto cominciò a bruciare. I malcapitati, colti nel sonno e svegliati di soprassalto, tentarono un'istintiva salvezza, ma la nudità, lo spavento, la ressa e tutte le circostanze del caso furono, per loro, fatali. Le prime vittime furono donne, vecchi e bambini e chi riuscì a mettersi in salvo dalle fiamme e tentava la fuga nelle strade e nei campi veniva raggiunto dalle pallottole dei soldati appostati.

Fu una carneficina, non mancarono le scene di violenza e di stupro sulle donne e poi ci fu lo scempio dei cadaveri, per derubarli degli oggetti d'oro e del denaro, specie sulle donne alle quali venivano strappati i lunghi pendoli d'oro che usavano portare in quell'epoca come orecchini.

E poi ...e poi ...e poi...spuntava l'alba e poi il sole, uno splendido sole d'agosto che illuminava uno spettacolo terrificante e che mai prima di allora si era visto e abbattuto su quelle contrade. I pochi superstiti e gli abitanti accorsi da altri villaggi vicini furono testimoni di una situazione orribile. Tutto si presentava distrutto dalle fiamme con case annerite dalle cui porte e finestre aperte usciva fumo acre ed intenso, con centinaia di cadaveri per lo più bruciati e nudi sparsi su vasta area. Il generale De Sonnaz, informato, ne fu compiaciuto. Trionfante, telegrafò dalla Prefettura di Benevento sia al generale Cialdini a Napoli sia a Torino all'aiutante di campo di sua maestà il re d'Italia, Vittorio Emanuele II di Savoia: "giustizia è,fatta"- scrisse e sottoscrisse il De Sonnaz, che aggiunse "l'azione di Negri è stata perfetta". Già, giustizia era fatta e al novello "padre della patria" dovette risultare più che gradita la notizia della nuova «vittoria». Su Pontelandolfo e Casalduni, intanto, per precise direttive governative fu imposto e fatto calare l'oblio. Certi misfatti era meglio non farli sapere in giro per l'Europa.

Quanti morti vi furono oltre agli ingenti danni combinato? Nessuno si curò o fu incaricato di contarli, qualche "pennivendolo" di parte savoiarda scrisse di 164 morti solo a Pontelandolfo, ma alcuni storici contemporanei, studiosi di quel periodo, lontani dalle passioni dell'epoca ed anche dalle tesi del risorgimento, sostengono che la maggior parte degli attuali abitanti di Pontelandolfo e Casalduni non sono i discendenti di quelli che popolavano i due paesi in quel disgraziato anno del 1861 e che quindi i morti furono numerose centinaia, cifra per difetto e non per eccesso.

Comunque, una cosa è certa, che, ancora oggi a 144 anni circa dall'eccidio, sui testi ufficiali di storia delle scuole di ogni ordine e grado dello Stato italiano, lo sterminio viene ignorato e non è mai menzionato, nemmeno come versione di tesi "risorgimentalista", e l'oblio imposto all'epoca da casa Savoia continua ancora.

A Pontelandolfo, tra le mura secolari dell'ex chiesa dell'Annunziata, che nei nostri tempi è chiamata Tempio dell'Annunziata antica, ancora oggi, durante le notti in cui nella pioggia scrosciante regnano i tuoni e i lampi accecanti, le anime delle vittime di quella notte si risvegliano e continuano a vivere. Esse invocano giustizia e le loro grida si confondono con i fragori della tempesta.

ONORE E GLORIA ALLA MEMORIA DEGLI ANTICHI POPOLI SANNITI DI PONTELANDOLFO E CASALDUNI, EROI DELLE DUE SICILIE ED INNOCENTI VITTIME DELLA FEROCIA SAVOIARDA. POSSA QUEL SACRIFICIO VINCERE L'OBLIO IMPOSTO DAGLI INVASORI
ED ESSERE D'AMMONIMENTO IN ETERNO.

ALFONSO CERRATI




--------------------------------------------------------------------------------




Pontelandolfo 1861 LA VERITÀ SEPOLTA (da Due Sicilie - 1/2006)

A proposito della verità sui fatti legati alle luttuose vicende che coinvolsero Pontelandolfo in quella fatidica alba del 14 agosto 1861, sulla Precisa entità dei martiri. vittime della carneficina di proporzioni apocalittiche. Mi piace riportare quanto il compianto parroc o Don Giovanni Casilli,attingendo dalle fonti dell'archivio Parrocchiale. a pagina 1 7 del suo "In cammino verso Emmaus". scrive: ... "un calo secco dal 1857 al 1861 registra la popolazione di Pontelandolfo, passando dai 5561 abitanti (nel 1857) a 4375 unità (nel 1861). Quali le cause non sappiamo, ma non si può escludere che, poiché fu Pontelandolfo dal 7 al I S agosto 1861 teatro di azioni di brigantaggio, queste suscitarono un'aspra reazione delle truppe guidate dal generale Cialdini, comandante delle province napoletane, che misero a ferro e fuoco il paese e, una specie di diaspora conseguente alla pertanto, ne seguisse carneficina ..."
Dunque, nel 1861 mancano all'appello a Pontelandolfo ben 1186 anime! Che fine hanno fatto? Sono decedute? O sono scappate lontano, oltreoceano, per sfuggire alla dura persecuzione messa in atto dal nuovo Governo? I morti accertati durante le note vicende, sono tredici: BARBIERI RAFFAELE, BIONDI CONCETTA, BIONDI FRANCESCO, BIONDI NICOLA, CIABURRI GIUSEPPE, D'OCCHIO LIBERO ROCCO, IZZO MARIA, LESE CARLO ANTONIO, MANCINI GIOVANNI, PERUGINI MICHELANGELO, RINALDI ANTONIO, RINALDI FRANCESCO, RINALDI TOMMASO, SANTOPIETRO GIUSEPPE, SANTOPiETRO PELLEGRINO, TEDESCHI ANGELO, VITALE AGOSTINO.

E i restanti 1173 dove si trovano? Ognuno è libero di interpretare la vicenda a modo suo, dato che la verità è stata irrimediabilmente sepolta dalla storia scritta dai vincitori.

Nel 1656 la peste miete a Pontelandolfo ben 1195 vittime. L'arciprete del tempo così annota sul Liber Mortuorum (dal 1635 al 1687): in appendice Die 15/8/1656 encominciata la peste e no si è fatto officio né, funerale a morti per essere che si sono atterrati nella chiesa della SS. Annunziata senza eccezione di persone e senza pompe funebre 25 e 30 al giorno, e sia prova dura che sono li 30/9/1656 che ne saranno morti a questa giornata 1195. Non si assegna certo numero per essere che si atterrano senza suono di campane. Potrebbe essere che sia toccata uguale sorte ai 1173 corpi esanimi? Tumulati nelle viscere della chiesa della SS. Annunziata, senza la possibilità di dare loro un nome perché irriconoscibili, stante le devastanti bruciature? E se invece sono fuggite lontano da Pontelandolfo per paura, non hanno comunque determinato tristezza e la morte di un paese?

I deceduti a Pontelandolfo nell'anno 1861 sono complessivamente 291, come risulta dal Liber Mortuorum in archivio parrocchiale,per la maggior parte dal 14 agosto al 31 dicembre. quando. rifugiatisi nelle campagne, in condizioni disumane sono morti di stenti, per le gravi ferite riportate e per le atroci bruciature, conseguenza dell'eccidio. Quanto accadde a Pontelandolfo all'alba di quel fatidico 14 agosto, triste vicenda a tutti nota, è tratto dal manoscritto degli episodi della vita militare del bersagliere Margolfo Carlo del 6° Battaglione 2° Compagnia 4° Corpo d'armata comandato dal generale Cialdini: «Al mattino del mercoledì, giorno 14, riceviamo l'ordine superiore di entrare nel comune di Pontelandolfó, fucilare gli abitanti, meno i figli, le donne e gli infermi, ed incendiarlo. Difatti un po' prima di arrivare al paese incontrammo i Briganti attaccandoli, ed in breve i briganti correvano davanti a noi, entrammo nel Paese subito abbiamo incominciato a fucilare i Preti ed uomini quanti capitava, indi il soldato saccheggiava, ed infine abbiamo dato l'incendio al paese, abitato da circa 4.500 abitanti. Quale desolazione, non si poteva stare d'intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti, e chi sotto le rovine delle case. Noi invece durante l'incendio avevamo di tutto: pollastri, pane, vino e capponi, niente mancava, ma che fare non si poteva mangiare per la gran stanchezza della marcia di 13 ore. u

Allora la domanda nasce spontanea: se Pontelandolfo, come è vero, fu rasa al suolo, fatto salvo, ovviamente, le poche case dei filo piemontesi, e l'ordine perentorio era quello di fucilare gli abitanti, meno i figli, le donne e gli infermi, o il paese era abitato soltanto da figli, donne ed infermi, oppure la mira del plotone di esecuzione di 500 bersaglieri fu così tanto scarsa che a cadere sotto i colpi furono solo 13 innocenti?

A questo punto non può che prendere sempre più corpo, purtroppo, la triste verità, che diverse centinaia furono i morti bruciati vivi e tumulati nelle viscere della chiesa Annunziata, ahimè, senza un nome. Quel nome che i fautori dell'eccidio intesero cancellare per sempre, ma che resterà comunque scolpito per l'eternità nella memoria dei pontelandolfesi.

Gabriele Palladino


--------------------------------------------------------------------------------

Eccidio di Pontelandolfo e Casalduni tratto dal Diario del Bersagliere Margolfo