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Colonialismo italiano in Libia: un passato da svelare
Giorgio Beretta
Giovedì, 27 Maggio 2004
Artiglieria Cammellata Italiana in Libia (1912) - da dodecaneso
Recentemente ho fatto un viaggio nel deserto della Libia. Ne ho ammirato le bellezze, ne ho gustato il silenzio e ho appreso con sorpresa, dalla guida "Libia" di Andrea Semplici, alcuni episodi raccapriccianti del nostro colonialismo in Libia negli anni 1911-43. Queste vicende sono state il "leitmotiv" del mio viaggio. Alcuni fatti mi hanno maggiormente colpita per l'atrocità, lo sterminio, il disprezzo per l'altro e la negazione della verità.
Quando nel 1911 con un motivo pretestuoso il liberale Giolitti scatena una guerra coloniale contro la Turchia che dominava la Libia, un contrattacco arabo-turco sorprende i bersaglieri italiani e ne uccide 500. La rappresaglia militare è immediata e spietata: oltre 2000 arabi sono fucilati o impiccati e cinque mila vengono deportati in Italia e confinati nelle isole di Ustica, Ponza, Favignana e Tremiti.
Deportazioni e campi di concentramento
La Libia chiede ancora oggi di sapere la verità sulla sorte dei libici scomparsi in Italia. Quando sono stata in queste isole, non ho visto alcuna traccia del passaggio di queste persone. Poiché la resistenza libica era molto forte in Cirenaica, il generale Rodolfo Graziani, inviato da Mussolini nel 1930, non esitò a mettere "a ferro e fuoco" tutta la zona. Confisca le zavie, centri spirituali ed assistenziali, sbarra con campi minati la frontiera con l'Egitto, annienta le mandrie e brucia i raccolti, usa gas e armi chimiche contro i civili. Tutta la popolazione dell'altopiano della Cirenaica, cento mila libici, viene deportata in campi di concentramento nel deserto della Sirte. In 40mila moriranno per fame, epidemie, violenze, uccisioni. Per tre anni staranno rinchiusi in questi campi delimitati da doppio filo spinato. Ogni atto di ribellione o tentativo di fuga era punito con la morte.
L'impiccagione avveniva a mezzogiorno, al centro del campo, dove tutti erano costretti a radunarsi. Ogni giorno, dicono i sopravvissuti, 50 cadaveri uscivano dal recinto. Naturalmente questi campi in Italia erano propagandati come paradisi dove fiorivano ordine e disciplina e regnavano igiene e pulizia.
Il leone del deserto
Nel 1979 Gheddafi affida al regista siro-americano Mustafà Akkad l'incarico di girare in Cirenaica un Kolossal sulla resistenza libica contro gli italiani. "Il leone del deserto" viene presentato a Cannes con un buon successo ma non sarà mai ufficialmente proiettato in Italia. "Il film è sgradito", dirà il sottosegretario agli esteri Costa nel 1981 e nel 1987 una proiezione a Trento verrà proibita dalla Digos. L'Italia ancora negli anni '80 non sopporta di veder raccontata una storia coloniale intrisa di orrori e tragedie.
Abdullah, la guida che mi ha accompagnato nel deserto, mi ha confermato quanto è vivo in loro il ricordo dei centomila libici deportati nel deserto nel 1932 e dei cinquemila deportati nelle nostre piccole isole nel 1911, di cui non hanno saputo più nulla. I libici aspettano ancora la mappa delle mine disseminate nel deserto che a tutt'oggi causano morti e mutilazioni. I libici sono anche consapevoli che il popolo italiano, nella stragrande maggioranza, è all'oscuro delle atrocità che hanno accompagnato e sostenuto la nostra vicenda d'oltremare.
Leggendo e venendo a sapere di questi episodi, mi sono sentita defraudata della conoscenza dei fatti di un periodo storico. La verità sul nostro periodo coloniale stenta ad apparire, mentre continua ad essere diffusa l'immagine di un colonialismo dal "volto umano" interessato alla valorizzazione delle terre e all'elevazione delle genti africane. Invece, quando nel 1943 finisce il periodo coloniale italiano in Libia, "l'eredità italiana è disastrosa: il 94% della popolazione è analfabeta, la mortalità infantile è al 40%, il reddito pro capite non supera le 16 sterline all'anno, la struttura sociale è arretrata di trecento anni; solo 13 libici sono laureati, tra di loro non c'è nessun medico" (da "Libia" di Andrea Semplici).
Il mito e la rimozione
Inoltre la Libia fu per l'Arma aeronautica italiana un campo sperimentale per l'impiego a scopo bellico di aeroplani, di dirigibili e di gas mortali. Gli aerei avevano l'ordine di alzarsi in volo per bombardare tutto ciò che si muoveva nelle oasi non controllate dalle truppe italiane: uomini, bestiame, coltivazioni e spesso le bombe erano cariche di iprite, gas mortale già allora al bando. Ciò che rende singolare la vicenda coloniale italiana rispetto a quella delle altre potenze europee sono i miti che ha prodotto e soprattutto i silenzi e le rimozioni che l'hanno seguita fino ad anni recenti.
Solo nel 1998, l'Italia "esprime rammarico per le sofferenze arrecate al popolo libico a seguito della colonizzazione" e accetta le trentennali richieste libiche: aiuto ai tecnici libici per individuare i vecchi campi minati, risarcimento delle vittime saltate su quegli ordigni dimenticati e indagine sulla sorte dei deportati libici. Ma ancora nulla di tutto ciò è stato fatto. Anche le recenti visite di Berlusconi in Libia non hanno concluso nulla. Anzi in questi tempi si sta cercando di cancellare gli orrori compiuti in tempo fascista. A Filettino, piccolo paese di montagna in provincia di Frosinone, paese di origine di Rodolfo Graziani, il sindaco, aiutato dalla Regione Lazio, sta pensando di dedicare un museo al sanguinario viceré che ha compiuto eccidi anche in Etiopia.
Accomiatandomi dai libici che mi avevano accompagnato nel deserto, ho esternato il rincrescimento per quanto accaduto. Penso che per stringere nuovi veri rapporti tra i due popoli, non solo il governo, ma anche i semplici cittadini, debbano riconoscere il male fatto quando se ne presenta l'opportunità. Ho promesso che avrei diffuso la conoscenza di quanto realmente accadutodurante il periodo coloniale italiano in Libia e avrei agito, di conseguenza, come cittadina italiana che vuole pace e giustizia tra i popoli.
di Amalia Navoni - Coordinamento Lombardo Nord Sud del Mondo rete Lilliput-Milano
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1 commento:
Premetto che condivido sia l’analisi che il giudizio storico storico-politico espressi dalla Navoni sul colonialismo italiano in Libia, nonché la necessità e il dovere morale, da lei sottolineati, di fare piena luce sul nostro passato di paese coloniale. Devo tuttavia far notare che in realtà le “Tracce” del “Passaggio” dei deportati a Ustica ci sono e che nell’isola nulla riguardo a loro è stato rimosso: né nella memoria, né nelle coscienze. La mia precisazione non vuole assolutamente avere una connotazione polemica, soprattutto se rivolta ad una attività di informazione/divulgazione, come la Vostra, da chi scrive condivisa e molto apprezzata. Vuole semmai contribuire ad un completamento dell’informazione e, perché no?- anche a riconoscere l’impegno che da più anni nell’isola è in atto (Dal 1997) attraverso una intensa attività di ricerca, documentazione e divulgazione sulla vicenda dei libici lì deportati. Attività ancora in corso e che ha fornito un contributo per la ricostruzione di quella tragica pagina di storia locale, ma, ovviamente, anche nazionale.
Il locale Centro Studi se ne è occupato sin dalla sua costituzione (1997), pubblicando sul suo periodico “Lettera” molti articoli, partecipando a tutti i Seminari sugli esiliati libici durante il periodo coloniale, organizzati dall’Istituto Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente (ISIAO) e dal Libyan Studies Center, uno dei quali ospitati proprio a Ustica (Con contributi pubblicati nei relativi Atti). Si tratta di Seminari progettati in seguito agli accordi sottoscritti tra l’Italia e la Libia (1998) e che hanno visto la partecipazione di importanti studiosi. Lo scopo dichiarato era quello dello ristabilimento della verità storica: condizione necessaria –tra le altre- per la risoluzione del lungo e tormentoso contenzioso politico ed economico tra i due paesi prodotto dall’occupazione italiana e che, in vario modo, connota sino ai giorni nostri i complessi rapporti diplomatici tra Italia e Libia. L’attenzione prestata a Ustica alla vicenda dei libici ha coinvolto in questi anni, oltre che le sue istituzioni culturali, anche quelle politiche e la comunità isolana più in generale.
Vorrei inoltre ricordare l’esistenza nell’isola del cosiddetto “Cimitero degli arabi”, adiacente a quello cristiano, su cui figura anche una lapide che ricorda i libici deceduti a seguito della deportazione; l’accoglienza solidale mostrata nei confronti di numerosi gruppi di libici giunti per molti anni nell’isola per commemorare i loro morti; la recente Delibera dell’ Amministrazione Comunale per l’intestazione di una Via alle vittime della deportazione; l’allestimento a Ustica, a cura del Centro Studi e con la partecipazione della Amministrazione comunale, di una mostra fotografico-documentaria (Molto visitata in estate dai numerosi visitatori dell’Isola). Mostra che, via via incrementata, è diventata anche itinerante, avendo avuto richieste da Istituti scolastici del capoluogo siciliano, Tremiti, Tripoli (Luglio 2010), Milano (Facoltà Statale di Scienze Politiche, nel centenario dall’occupazione di Libia –dal 12 Aprile 2011). Altre richieste sono nel frattempo pervenute.
Grazie per l’attenzione e buon lavoro.
Massimo Caserta
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