Lettere al direttore |
Un altro punto di vista sulla Libia
Trovo quasi sempre persuasive e documentate le analisi e gli interventi di Enea Bontempi, sicché, leggendo la sua ultima lettera sul “Quarantotto arabo” (cfr. lettera n. 394), mi trovo ancora una volta a concordare con la sua impostazione e con le sue considerazioni, tranne una: quella riguardante la Libia, che egli accomuna alle altre rivolte dell’area nord-africana e del Vicino Oriente. Non sono d’accordo: la Libia è un’altra cosa. A mio giudizio, fra tutte le lotte in corso nell’area testé citata la più difficile da interpretare è proprio quella libica.
Ragioniamo: la città orientale di Bengasi pare che sia sotto il controllo dell’opposizione al regime di Gheddafi. Orbene, è solo una coincidenza che la ribellione sia iniziata a Bengasi, che si trova a nord dei più ricchi campi petroliferi della Libia e nelle vicinanze della maggior parte degli oleodotti, dei gasdotti, delle raffinerie e del porto per il gas liquefatto? È solo un’ipotesi accademica pensare che vi sia un piano di spartizione del paese? La Libia, infatti, non è come l’Egitto. Il suo leader, Muammar Gheddafi, non è stato un burattino nelle mani dell’imperialismo
come Hosni Mubarak. Per molti anni, Gheddafi è stato un alleato di paesi e movimenti di lotta contro l’imperialismo. Quando assunse il potere nel 1969 con un colpo di stato militare, nazionalizzò il petrolio libico e usò gran parte delle risorse petrolifere per sviluppare l’economia del paese elevando in misura notevole le condizioni di vita della popolazione.
Ragioniamo: è solo un’ipotesi accademica pensare che l’imperialismo americano (e questa volta, caro Bontempi, non “solo in seconda battuta”) abbia deciso di schiacciare la Libia. La memoria degli italiani è piuttosto labile a causa della disinformazione creata dai ‘mass media’, ma forse qualcuno è ancora in grado di ricordare che gli Stati Uniti nel 1986 lanciarono attacchi aerei su Tripoli e Bengasi uccidendo 60 persone, tra cui la figlia più piccola di Gheddafi. All’attacco aereo
seguirono pesanti sanzioni da parte degli Usa e dell’Onu, il cui obiettivo era sostanzialmente quello di distruggere l’economia libica.
Ragioniamo: dopo che gli Stati Uniti ebbero invaso l’Iraq nel 2003, Gheddafi cercò di allontanare la crescente minaccia di aggressione contro la Libia facendo grandi concessioni politiche ed economiche agli imperialisti. Aprì l’economia alle banche e alle società straniere, accettò le richieste di “aggiustamento strutturale” del Fmi, privatizzò molte imprese di proprietà statale e tagliò le sovvenzioni statali per generi di prima necessità come il cibo e il carburante. La conseguenza fu che il popolo libico, che aveva fino ad allora beneficiato di condizioni economiche e sociali di relativo benessere, si è trovato esposto al rincaro dei prezzi e all’aumento della disoccupazione, due fattori che hanno causato le ribellioni in altri paesi e che derivano dalla crisi economica mondiale del capitalismo.
L’interesse dell’imperialismo americano per la Libia non è di tipo turistico. Conviene allora ricordare alcuni dati oggettivi: la Libia è il terzo produttore di petrolio dell’Africa, ma è anche quello con le maggiori riserve del continente (44,3 miliardi di barili). È un paese che con il suo potenziale produttivo costituisce un boccone succulento per le grandi compagnie petrolifere. Dietro alla ‘propaganda dell’orrore’ che i ‘mass media’ hanno scatenato, dietro alla campagna per i diritti democratici del popolo libico che gli imperialisti improvvisamente hanno lanciato
vi è una precisa strategia di sovversione del regime e di acquisizione del controllo delle enormi risorse di un paese molto esteso ma con una popolazione numericamente esigua e divisa da conflitti tribali. L’Iraq ‘docet’. Il trattamento a cui si vuole sottoporre Gheddafi è lo stesso a cui fu sottoposto Saddam Hussein. Il vero nemico dell’imperialismo nel Vicino Oriente è infatti il nazionalismo panarabo, non il fondamentalismo islamico.
Concludiamo: le concessioni ottenute da Gheddafi non sono sufficienti per l’imperialismo. L’obiettivo di quest’ultimo è fare della Libia una colonia di produzione e sfruttamento dell’‘oro nero’, più o meno ammantata da qualche orpello formalmente ‘democratico’. L’imperialismo non ha mai perdonato a Gheddafi di aver rovesciato la monarchia e nazionalizzato il petrolio, così come non ha mai tollerato che l’Italia, grazie all’Eni di Mattei, abbia realizzato con i paesi arabi
del Mediterraneo e in particolare con la Libia una politica autonoma dalle ‘sette sorelle’ nel campo degli approvvigionamenti energetici. Fidel Castro, che ha una certa esperienza in questo campo, sottolinea in un suo commento la fame di petrolio dell’imperialismo e lancia l’allarme per l’intervento militare che gli Stati Uniti potrebbero attuare in Libia adducendo il solito pretesto ‘umanitario’. La Sesta Flotta americana, come è noto, incrocia nel Mediterraneo. Forse quello a cui ci toccherà di assistere in Libia sarà (non un “Quarantotto” ma) un “Ottantanove” arabo.
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