Editoriali
La memoria inutile di BARBARA SPINELLI
La memoria, che in Italia non è mai diventata musica di fondo della politica
come nelle nazioni che con tenacia hanno lavorato sul proprio passato
(parliamo in modo speciale della Germania, ma l’esame di coscienza fu
approfondito anche in Sud Africa, unendo la sete di verità al bisogno di
riconciliazione), è raramente trattata, dalla nostra classe dirigente, come
qualcosa che aiuta a capire perché un male è nato, perché si perpetua
mutando le forme, perché i rimedi non l’hanno curato ma anzi aggravato. La
memoria in Italia rischiara poco il passato e per nulla il presente: è una
memoria ancillare, e quasi sempre emiplegica. Ancillare, perché asservita a
questa o quella forza politica oltre che a effimere contingenze.
Emiplegica, perché chi la strumentalizza fa salire in superficie solo i
frammenti di passato che gli permettono di evitare, e tradire, l’esame di
coscienza.
Come nel malato emiplegico, una parte della memoria storica resta immersa in
un sonno scuro che consente ai ricordi di restare selettivi e che impedisce
il giudizio storico. Verso la storia, parecchi politici e giornalisti hanno
uno strano atteggiamento: da una parte ammettono che non possono scriverla
loro, essendo troppo coinvolti nel presente. Dall’altra pretendono di dirla
in prima persona, fingendo olimpiche distanze che non possiedono. Il
direttore del Tg1, nel celebrare i dieci anni della morte di Craxi, accampa
precisamente tale pretesa: «È arrivato il momento ( parola censurata
dall'Amministratore ) dice ( parola censurata dall'Amministratore ) di
guardare alle vicende di Craxi con gli occhi della storia».
Il ricordo degli anni di Bettino Craxi non è l’unico esempio di memoria
tradita. Anche il terrorismo italiano è ricordato con metodi poco corretti,
anche la storia del fascismo o di Salò. A partire dal momento in cui la
memoria è maneggiata alla stregua di domestica, quel che finisce col
prevalere è una visione dei mali italiani radicalmente distorta. Il male che
la coscienza impone di esaminare non fu un male in sé: in fondo, lo divenne
perché vinto dalla Storia. In molti casi fu perfino nobile, non meno del suo
avversario. Il conflitto non è fra ragione e torto, fra giustizia e crimine,
ma fra chi ha vinto e chi ha perso. In Italia si è ragionato così su Salò, e
anche sul terrorismo. Prima di rientrare da Parigi a Roma per presentarsi
alla giustizia, Toni Negri sostenne che il terrorismo era «superato perché
vinto», e per questo non era più «di attualità». La lotta armata di per sé
non era condannabile.
Lo stesso accade per la memoria di Craxi. La sua battaglia politica è
considerata grande e bella, se non fosse per Mani Pulite che gli strappò la
vittoria e macchiò questa compatta bellezza. Ovvio, in queste condizioni,
che le colpe siano tutte esterne al soggetto («L’inferno, sono gli altri»,
dice Sartre) come spesso succede nella memoria dei vinti che non guardano
dentro di sé, perché inebriati dall’esperienza della vittima. La memoria
selettiva e ancillare ci restituisce in tal modo un Craxi grande statista,
soprattutto un modernizzatore, il cui nobile progetto fallì a causa,
essenzialmente, dei magistrati. Per riscoprirlo è raccomandato non solo di
separare la politica dai fatti di corruzione, ma di estromettere i fatti di
corruzione lasciando che resti, del leader, solo la luce. Le inchieste
giudiziarie cadono nelle ombre del corpo politico emiplegico. Nietzsche
parlava di memoria antiquaria, che ammobilia «con pietà o furia
collezionista» un nido familiare chiuso, impenetrabile dall’esterno,
conservatore del passato.
Altra cosa la memoria critica, che guarisce trasformandoci: memoria
faticosa, perché gli uomini tendono a «darsi un passato da cui si vorrebbe
derivare, in contrasto con quello da cui si deriva».
Senza dubbio il leader socialista fu un politico con encomiabili progetti
iniziali: unificare le sinistre, rafforzando la componente socialista dell’unione
e banalizzando, alla maniera di Mitterrand, l’ingresso dei comunisti nel
governo; liberare sinistre e sindacati da formule errate come la scala
mobile; legare il Psi al dissenso nei paesi comunisti. La sua opera di
modernizzatore fu, secondo molti, la sua più grande virtù. Modernizzazione
che tuttavia riuscì solo in parte. Che fu a un certo punto abbandonata,
autonomamente. Che si spezzò non solo perché fortemente avversata dai
comunisti ma perché Craxi smise di volerla, prepararla, attuarla.
L’azione di Craxi fu in realtà un singolarissimo impasto di intuizioni
giuste e coraggiose, di spregio profondo della politica, di intreccio tra
politica e mondo degli affari, di uso spregiudicato di mezzi finanziari
illeciti. La corruzione non fu un dettaglio inessenziale di tale azione ma
un suo torbido elemento costitutivo. Era moderno il politico che si crea
spazi di potere con l’aiuto di potentati economici, e in cuor suo ritiene
inefficace la via virtuosa. Il motto degli esordi craxiani fu: primum
vivere, prima di tutto urge vivere e sopravvivere. In un’intervista a
Eugenio Scalfari, il 3-5-90 su Repubblica, Craxi non nasconde la crisi
abissale della democrazia e dei partiti: la società italiana si era
irrobustita per conto proprio, dice, mentre il ceto politico era restato una
chiusa corporazione, incapace di rinnovarsi. E a Scalfari che gli chiede
perché, Craxi replica: «Non ci sono più ideali, si gestiscono interessi».
In fondo non sono diversi i due discorsi tenuti alla Camera durante Mani
Pulite, il 3 luglio ’92 e il 9 aprile ’93. Due discorsi che descrivono la
corruzione di un intero sistema politico. Questo dice la chiamata di correo
del ’92: «Tutti sanno che buona parte del finanziamento politico è
irregolare o illegale.(...) Non credo che ci sia nessuno in quest’aula (...)
che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto
affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo
spergiuro». Nessuno si alzò, e l’atto mancato resta la vergogna dei politici
e di una classe dirigente. Una vergogna che in assenza di memoria critica s’è
estesa. A Scalfari, Craxi aveva detto: «Non ci sono più ideali, si
gestiscono interessi». Oggi, gli interessi particolari sono diventati ideali
e il loro conflitto con la politica una cosa normale per tanti.
La modernizzazione di Craxi fallì dunque molto prima di Mani Pulite, a causa
del malaffare in cui i partiti, compreso il suo, nuotavano. Fallì perché il
Pci si oppose per anni all’alternanza, preferendo compromessi con la Dc che
preservavano lo status quo. Fallì per l’immobilità in cui Craxi stesso
sprofondò: il primum vivere divenne brama del vivere per vivere, di
arraffare frammenti del presente e del potere, di non progettare più nulla.
Il socialismo italiano naufragò per colpa dei socialisti, non dei
magistrati: e naufragò perché più di altri aveva suscitato sì vaste attese.
Perfino alcuni successi del capo socialista andrebbero narrati in maniera
meno edulcorata, censurata. Sigonella non fu un atto di autonomia verso l’America,
ma la misera messa in libertà d’un gruppo terrorista (i palestinesi di Abu
Abbas) che aveva ucciso proditoriamente, sull’Achille Lauro, un anziano
americano in sedia a rotelle, Leon Klinghoffer, solo perché ebreo. Anche in
economia Craxi non fu modernizzatore. Lo spiega bene Salvatore Bragantini,
sul Corriere del 14 gennaio: sotto la guida sua e dei successori «il nostro
debito pubblico è volato dal 60% al 120% del Pil; (...). Nell’escalation del
debito ebbe il suo bel peso l’aumento dei costi delle opere pubbliche dovuto
alle tangenti, scoperte grazie a Mani Pulite».
Oggi, censurare tanta parte del passato è utile soprattutto a Berlusconi e
alla sua offensiva contro la giustizia. Se il duello è tra vincitori e
vinti, e non tra buongoverno e governo corruttibile, si tratta di
contrattaccare e vincere finalmente la guerra. Oggi ci si difenderà dai
processi, ma restando al potere anziché fuggendo come latitanti. Stefania
Craxi lo ha detto chiaramente, il 3 gennaio alla televisione: «La storia di
Craxi si ripete con Berlusconi. Gli italiani allora non credettero a Craxi,
ma a Berlusconi, oggi, credono». A questo serve la politica della memoria in
Italia: a perpetuare la melma in cui ci troviamo, senza mai cominciare l’esame
di coscienza che da essa ci libererebbe.
La stampa 24 gennaio 2010
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