martedì 30 marzo 2010

La sentenza Pallavidini di Claudio Moffa

25 marzo 2010
La sentenza Pallavidini ha stabilito con correttezza ineccepibile i confini e i poteri di due funzioni centrali della Repubblica, quelle del giudice e del docente. Il docente si assentò dalla cerimonia della “memoria” – che quest‟anno nella sua nuova scuola si è svolta di pomeriggio – e ha vinto la causa contro l‟USR piemontese che lo aveva ingiustamente sanzionato.
NOVITA’ A TORINO: IL GIUDICE NON PUO’ SOSTITUIRSI ALLO STORICO, IL DOCENTE PUO’ ESPRIMERSI CRITICAMENTE SU ISRAELE E OLOCAUSTO IN AULA, SENZA PARTECIPARE ALLA CERIMONIA DEL 27 GENNAIO
di Claudio Moffa
Dalla sentenza:
“Il ricorrente ha riconosciuto al riguardo di aver avuto, nella classe I E il giorno 26 gennaio 2007, una discussione con alcuni studenti scaturita da una richiesta di un‟alunna in ordine al motivo per cui egli non celebrasse il giorno della memoria: di aver detto che “a mio insindacabile giudizio, era celebrativa e strumentale: serviva ormai solo a creare nell’opinione pubblica un clima sempre più favorevole alla politica israeliana, aggressiva e militarista nei confronti del popolo palestinese e dei paesi arabi confinanti” (doc. 4 ricorrente); di aver quindi detto, a seguito dell‟affermazione di un altro studente secondo cui Hezbollah era un gruppo terroristico e che l‟Iran voleva la distruzione di Israele, che “Hezbollah era un esercito partigiano di popolo e che il presidente iraniano non vuole la distruzione di Israele e che questa è tutta propaganda occidentale, la sua analisi dei rischi di dissoluzione dello stato di Israele è tutta diversa da quanto propongono i media. Dissi che era un presidente democraticamente eletto ed era un punto di riferimento della lotta antimperialista internazionale come il presidente Chavez”.
Si può. Si può in classe. Si può nell’orario di lavoro come docenti. Si può criticare la politica dello Stato di Israele, la sua natura di Stato coloniale, il suo uso strumentale del cosiddetto Olocausto a fini di oppressione del popolo
palestinese. Si può dire la verità sui movimenti di liberazione nazionale del Vicino e Medio Oriente, tali perché radicati nel popolo ed espressione di un paese occupato o aggredito militarmente da forze straniere, dunque “esercito partigiano di popolo”, nulla a che vedere col terrorismo transnazionale e stragista di Al Qaeda. Si può anche non partecipare alla Giornata della Memoria, perché tutti questi comportamenti sono protetti - come è corretto che sia - non solo dagli articoli 21 e 33 della Costituzione, ma anche dalla normativa vigente, in particolare il decreto legislativo 297/1994.
In breve, questo è il contenuto essenziale della sentenza 4490/2009 con cui la giudice del lavoro Daniela Paliaga ha accolto il ricorso del prof. Renato Pallavidini contro l’Amministrazione scolastica torinese che, succube dell’attacco criminale di Repubblica e di altri consimili giornalacci, lo aveva sanzionato fino a fargli perdere uno scatto di anzianità lavorativa per un episodio risalente al gennaio 2007: quando una studentessa aveva chiesto al docente cosa pensasse di Hezbollah e perché non partecipasse alla giornata della Memoria e lui, Pallavidini, aveva risposto con naturalezza e con pieno senso della propria autonomia di docente, che Hezbollah è un movimento di liberazione e che Israele usa l’Olocausto per meglio opprimere i palestinesi e rendersi immune dalle critiche della comunità internazionale.
Una sentenza importante, dunque, quella del giudice torinese, che giunge alla sua conclusione lungo due binari: uno, procedurale, che mette in evidenza la “totale genericità degli addebiti” mossi dall’Amministrazione al docente, tutti privi di prove certe, viziati da astrattezza e in sede dibattimentale mal fondati su testimonianze de relato; il secondo, quello fondamentale e veramente innovativo per una casta giudiziaria spesso prona ai diktat del Sinedrio mediatico, che affronta il merito del contenzioso dando ragione anche da questo punto di vista al ricorrente Pallavidini.
La genericità degli addebiti e la mancanza di prove
Le contestazioni a Pallavidini erano 6. Alcune di contorno, relative a una presunta sciatteria del docente nello svolgimento del suo lavoro: non puntualità nell’aggiornamento del registro di classe, incongruenze nell’attribuzione dei voti nei compiti in classe, assenze da scuola comunicate tardivamente. Fra questi addebiti minori merita di essere segnalata come variante tragicocomica dell’aggressione subita dal docente torinese la seguente annotazione dell’ispettore: “nell‟ultima pagina del compito di filosofia di un‟allieva il voto 9 sarebbe stato accompagnato dal giudizio: „e il prossimo anno la partita decisiva sarà Juve – Pizzichettone. Per lo scudetto della C2‟ ”. Una battuta che dovrebbe suscitare semplicemente simpatia. Ma evidentemente la mente degli Inquisitori non è capace di aprirsi al sorriso e passare ad altro capitolo più sostanzioso: tutto è utile pur di punire il “colpevole” anche - dentro un percorso lavorativo confortato da un curriculum professionale al di sopra della media - una frasetta ironica annotata come “fuori luogo” con “ineccepibile” meticolosità dall’ispettore.
Altre contestazioni pretendevano di mostrizzare l’immagine complessiva di Pallavidini: “esternazioni indebite” sulla sua vita privata agli studenti, uso di “epiteti maschilisti” verso
le studentesse. Alle spalle la separazione del docente. Ma comunque anche in questo caso nulla di provato.
Infine, ecco il vero casus belli dell’aggressione mediatico-amministrativa del 28 gennaio 2007, elencato non a caso come il primo degli addebiti al docente: il prof. Pallavidini – recitava la lettera dell’Amministrazione - avrebbe “abusato della funzione rivestita al fine di far valere le proprie visioni politiche con affermazioni riguardanti la „giornata del ricordo‟ in contrasto con le prescrizioni e le finalità contemplate nella legge n. 211 del 20 luglio 2000”, abuso che si sarebbe concretizzato anche con “comportamenti intimidatori nei confronti degli studenti”.
E’ il “cuore” del processo e della sentenza. Proceduralmente è un’accusa anch’essa sminuita da una relazione dell’ispettore che non ha più la valenza di un rapporto di pubblico ufficiale a causa della privatizzazione del rapporto di lavoro. Nel merito è un addebito viziato, di nuovo, dall’assenza di prove documentali e testimoniali (le testimonianze sono al massimo de relato, cioé indirette, persone che riferiscono quel che avrebbero detto altre persone). Inoltre, le espressioni attribuite al docente sono generiche, non riferite ad alcun episodio accertato: “oggetto della prova – recita la sentenza - è esclusivamente una espressione sintetica e valutativa, priva di qualsiasi indicazione delle condotte che la giustificherebbero e che dunque non consentirebbe al giudice di accertare la verità dei fatti e compiere autonomamente detta valutazione che, come si è sopra ricordato, appartiene soltanto al medesimo”
Il secondo binario: il giudice affronta il merito delle accuse a Pallavidini
Attenzione a quest’ultima frase, la doppia “rivendicazione” da parte del Giudice di espressioni precise, letterali, non valutative (il “fatto”) quale base per una valutazione compiuta, e dell’avocazione a sé, in quanto Autorità Giudiziaria e giudicante della “valutazione” delle suddette espressioni (il “giudizio”): attenzione, perché in essa, fuoriuscendo da una lettura meramente giuridica dell’evento-sentenza, si può racchiudere tutto il senso del processo Pallavidini e si potrebbe dire di tutti processi occorsi negli ultimi anni in Italia per presunti reati di opinione contro sua Maestà Israele e il suo Dio protettore, l’Olocausto. Ne parlerò fra breve, nelle conclusioni, intanto procediamo con l’analisi della sentenza.
Dunque, le prove documentali e testimoniali fin qui esaminate sono inaffidabili e inconsistenti. Cosa resta dunque a disposizione dell’Autorità giudicante? “La presente decisione – è la risposta– può e deve essere presa unicamente su ciò che è stato ammesso dal medesimo ricorrente nell‟audizione da parte della Preside in data 29 gennaio 2007 (allegato 2 resistente), nella nota del 30 gennaio 2007 (documento 1 resistente) nelle sue giustificazioni del 21 marzo 2007 (doc. 4 ricorrente) e nel presente giudizio”.
E’ il “cuore” del contenzioso. Leggiamo: “Il ricorrente ha riconosciuto al riguardo di aver avuto, nella classe I E il giorno 26 gennaio 2007, una discussione con alcuni studenti scaturita da una richiesta di un‟alunna in ordine al motivo per cui egli non celebrasse il
giorno della memoria: di aver detto che “a mio insindacabile giudizio, era celebrativa e strumentale: serviva ormai solo a creare nell’opinione pubblica un clima sempre più favorevole alla politica israeliana, aggressiva e militarista nei confronti del popolo palestinese e dei paesi arabi confinanti” (doc. 4 ricorrente); di aver quindi detto, a seguito dell‟affermazione di un altro studente secondo cui Hezbollah era un gruppo terroristico e che l‟Iran voleva la distruzione di Israele, che “Hezbollah era un esercito partigiano di popolo e che il presidente iraniano non vuole la distruzione di Israele e che questa è tutta propaganda occidentale, la sua analisi dei rischi di dissoluzione dello stato di Israele è tutta diversa da quanto propongono i media. Dissi che era un presidente democraticamente eletto ed era un punto di riferimento della lotta antimperialista internazionale come il presidente Chavez”.
“Il ricorrente – recita ancora la sentenza - ha invece negato recisamente in ogni occasione di aver compiuto le due affermazioni che in alcuni allegati alla memoria difensiva gli vengono attribuite e cioè che il presidente dell‟Iran avrebbe ragione a volere la distruzione di Israele e che Hezbollah sarebbe il suo idolo politico”
E’ a partire da queste queste limpide “ammissioni” – in realtà si tratta di opinioni condivise da miliardi di persone in tutto il mondo, e da milioni di cittadini in Italia, nonché da una parte consistente degli esperti in Vicino e Medio Oriente - che il Giudice procede verso la Decisione: evitando esplicitamente - anche questo è da sottolineare come elemento cruciale e qualificante della Sentenza – di sostituirsi allo storico, di fare cioè egli stesso lo storico o il politologo pretendendo di entrare nel merito delle affermazioni di Pallavidini, e attenendosi invece al puro profilo giuridico da vagliarsi alla luce delle libertà costituzionali e della connessa normativa vigente in difesa della libertà di insegnamento.
Scrive la Giudice Daniela Paliaga: “Appare essenziale a questo punto sottolineare come la presente decisione ha ad oggetto unicamente la rilevanza disciplinare delle affermazioni che possono ritenersi accertate e dunque, facendo ben attenzione a non scivolare sul piano del giudizio personale, storico o politico, deve limitarsi a verificare se il docente abbia o meno travalicato i limiti di quelle libertà costituzionali di manifestazione del pensiero e di insegnamento che anche il decreto legislativo 297/1994 ribadisce, laddove all’art. 1 afferma di garantire ai docenti “la libertà di insegnamento intesa come autonomia didattica e come libera espressione culturale” e qualifica il relativo esercizio come “diretto a promuovere, attraverso un confronto aperto di posizioni culturali, la piena formazione della personalità degli alunni”
E’ vero, prosegue la sentenza, sia il Ministero convenuto, sia il Collegio di Disciplina per il personale docente nel parere del 5 ottobre 2007 hanno “usato espressioni di aperto riconoscimento della libertà di opinione e di insegnamento censurando l‟operato del ricorrente sotto il solo profilo di un abuso della funzione docente che sarebbe posto in essere attraverso l‟imposizione agli studenti delle proprie opinioni” ma tale contestazione è infondata perché “la manifestazione di opinioni nette, pur radicali, non è certo di per sé sufficiente per configurare sempre e comunque
una prevaricazione rispetto allo studente ed un‟assenza del citato “confronto aperto di posizioni culturali” tale da determinare uno sviamento della funzione docente”. Troppi i fattori contestualizzanti da vagliare per poterla avallare e rendere credibile: “La configurabilità o meno di tali effetti dipende evidentemente dal contesto, dai toni e dalle parole usati, dall‟età e formazione degli studenti a cui tale manifestazione di opinioni è diretta, essendo ovviamente ben diverso che le stesse affermazioni siano compiute ad esempio nei confronti di bambini che frequentano le scuole elementari ovvero di studenti liceali o magari universitari”.
Orbene, nel caso specifico, quelle del prof. Pallavidini sono senz’altro “precise e radicali opinioni personali su delicate questioni internazionali” ma “sono state manifestate a studenti di liceo classico – dunque ben in grado per età e preparazione culturale e come dimostra il dibattito in cui si sono inserite – di riceverle come tali e distinguerle dall‟insegnamento. Non sono state pronunciate nel contesto di una lezione (che riguardava tutt‟altro) ed allo scopo di determinarne l‟apprendimento acritico da parte degli studenti, bensì nell‟ambito di una breve discussione provocata da specifiche domande degli studenti stessi … Esse non contenevano d‟altronde alcun riferimento alle tragiche vicende storiche a cui la legge 211/2000 dedica il “Giorno della Memoria”, né alcunché che possa essere qualificato come svilimento o addirittura negazione delle stesse”.
La negazione del mobbing, con una motivazione che richiama il ruolo specifico - nell’ingiusta sanzione subita da Pallavidini - dei mass media.
Le richieste del ricorrente erano però due, non solo la sanzione ma anche il mobbing subito negli anni, al cui interno sarebbe andato ad inserirsi – aveva denunciato Pallavidini - il “caso” esploso il 26 gennaio 2007: un filo rosso di discriminazioni di cui si possono trovare i riferimenti negli articoli sul suo caso e nelle sue interviste su questo stesso sito (21e33.it). Il Giudice Paliaga ha però negato la configurabilità di “una condotta persecutoria riconducibile al cd. mobbing” fondata cioè su una “serie reiterata e continua di condotte caratterizzate, nel loro insieme, dallo scopo o quanto meno, dall‟effetto di persecuzione e di emarginazione” ai danni del docente, onde per cui assolve l’Amministrazione dalla denuncia di responsabilità di questo ulteriore danno per il ricorrente. Ma la assolve con una allusione importante, con una motivazione cioè che richiama lo stesso scenario cui accennavo in precedenza, lì dove sottolineavo la doppia sacrosanta “rivendicazione” del Giudice di doversi e volersi attenere ai fatti, e di essere Egli – e non l’Amministrazione e i documenti da essa prodotti, fra cui anche diversi articoli e citazioni di stampa – l’Autorità giudicante. Leggiamo la condanna e l’assoluzione:
“Per tutti questi motivi sopra esposti, la sanzione inflitta dal ricorrente risulta priva di giustificazione e dunque illegittima e come tale, in accoglimento della relativa domanda di parte ricorrente, deve essere annullata … ne deriva la condanna dell‟Amministrazione convenuta al pagamento delle somme trattenute a tale riguardo, anche in applicazione della sanzione necessaria di cui all‟art. 497 dlgs. 297/1994. La seconda domanda di parte del ricorrente appare invece infondata e va respinta …
Tutto ciò che emerge in atti, tuttavia, è una sollecitudine ed un‟estensione dell‟indagine ispettiva - ... chiaramente dovuti al tenore della reazi0ne di alcune famiglie ed alla risonanza che la stessa ha avuto sulla stampa”.
Le famiglie per inciso erano due: quella di Elena Lowenthal de La Stampa la cui figlia era capitata proprio nella classe di Pallavidini e quella di un Procuratore presso il Tribunale di Torino. Quanto alla stampa, i veri responsabili e promotori del “caso” Pallavidini erano stati i soliti giornalacci e i soliti pennivendoli del Sinedrio che di volta in volta assalgono le “teste libere” del mondo della scuola e dell’Università italiane. Da questi fattori inquinanti le libertà costituzionali, il Giudice del Lavoro di Torino ha preso opportunamente le distanze, e in tal modo ha potuto, sulla base di una vera autonomia della sua funzione giudicante, decidere quel che ha deciso: che le pur radicali espressioni usate da Pallavidini in classe, in un’aula della Scuola pubblica italiana, nell’ambito peraltro di un dibattito provocato dagli stessi studenti, erano legittime e possibili perché così recita la Costituzione e la normativa vigente italiana. Non si può non sottolineare la novità giurisprudenziale della sentenza di Torino, rispetto ai tantissimi casi in cui, fuori e dentro le Aule dei Tribunali, le libertà costituzionali e normative sono state e sono disattese: un appunto che introduce alcune riflessioni finali.
Conclusioni: chi ha vinto e chi ha perso nella causa di Torino
Il prof. Pallavidini ha ottenuto l’abolizione della sanzione di 15 gg di sospensione con relativa riattribuzione della quota stipendio trattenutagli, la restituzione dello scatto di anzianità negatogli a seguito del provvedimento e un risarcimento delle spese giudiziarie. Ma non è solo lui ad aver vinto la causa di Torino: ha vinto la categoria dei docenti tutti, che grazie alla sentenza Paliaga ha ottenuto il riconoscimento formale, beninteso dentro gli indirizzi generali ministeriali, della propria individuale autonomia contro una tendenza micrototalitaristica che si è andata affermando negli ultimi due decenni, per la quale il singolo docente dovrebbe sottoporsi ad una offerta formativa rigidamente prefissata dall’organo collegiale degli insegnanti: una follia che genera in continuazione situazioni di mobbing contro il tanto decantato “diverso”. Un “diverso” in realtà riconosciuto come tale, come doc, solo in base a un senso e un luogo comune imposto dal martellamento mediatico (si ha diritto ad essere “diversi” come gay, lesbiche, trans ma non a esprimere opinioni diverse sull’Olocausto).
Inoltre, hanno paradossalmente vinto anche l’Amministrazione scolastica e la Magistratura italiana: la prima si è riscattata dal misfatto compiuto ai danni di un suo bravo docente in quell’inverno 2007, quando restò succube e travolta, oltre che dall’attivismo di alcuni nemici più o meno personali del professore torinese, anche e soprattutto dello scandalismo mediatico della solita stampaccia pseudo progressista, che aggredendo selvaggiamente Pallavidini lese e interferì anche la sua autonomia, l’autonomia cioè dell’Amministrazione scolastica e del Ministero della Pubblica Istruzione. La seconda, la Magistratura, per motivi consimili: perché la sentenza Paliaga investe principi di giurisprudenza tipici di tanto dibattito degli ultimi dieci-quindici anni: primo, per valutare serenamente occorrono fatti e prove certe, affermazione banale da un punto di vista giuridico ma spesso disattesa da giudici iperideologizzati che si sentono investiti di
chissà quale missione etica (a senso unico); secondo, il giudice deve fare il giudice e non lo storico, deve astenersi cioè dall’entrare nel merito dei contenuti didattici contestati e applicare la legge e la Costituzione italiane.
Così ha fatto la giudice Paliaga. Decretando indirettamente la sorte dell’unico vero sconfitto della vicenza Pallavidini: il giornalismo-canaglia che si ammanta di progressismo per imporre col terrorismo psicologico le “sue” sentenze alla Magistratura e i “suoi” provvedimenti disciplinari agli organi dello Stato. Una indecenza da professionisti della disinformazione, che nel caso Pallavidini ha toccato l’apice con l’ignobile perizia psichiatrica dell’estate 2007 in cui venne chiesto al docente torinese nientemeno dei suoi genitori e nientemeno della sua opinione sul Partito democratico. Pazzesco. La sentenza Paliaga segna un punto di svolta netto rispetto a tutto questo.
Ma non bisogna pensare che essa metta la parola fine a questa guerra per la libertà di opinione e di insegnamento in Italia. In difesa della coraggiosa giudice Paliaga potrebbe essere necessario “vigilare” in caso di possibili ritorsioni dirette o indirette da parte dei soliti poteri forti, nei confronti del suo corretto operato. Più in generale il braccio di ferro col totalitarismo olocaustico continua. Rincuorarsi e vedere le cose al positivo è l’effetto benefico della sentenza Pallavidini. Abbassare la guardia sarebbe sbagliato e impossibile, almeno fino a che in tutta l’Europa non siano state abrogate le leggi liberticide che nella Francia hanno perseguitato per due decenni Garaudy e Faurisson, in Polonia vogliono perseguire chi “neghi” “i crimini del comunismo”, e in Germania hanno portato allo scempio dell’incarcerazione dell’avvocato Sylvia Stolz, colpevole di aver usato in aula argomentazioni “negazioniste” per difendere i suoi clienti “negazionisti”.
Claudio Moffa

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