lunedì 23 novembre 2009

Leonardo Sciascia ed una intervista di Camilleri

Spinto dalla intervista di Cammilleri sono andato a rileggermi il Giorno
della Civetta che, per me, è il migliore libro che sia stato scritto contro
la mafia. Il confronto che Cammilleri ne fa con Gomorra di Saviano non è convincente.
. Gomorra è inconfrontabile con l'opera di Sciascia: è
una sorta di affresco iperealista che
denunzia il giganteggiare il male ed il suo impadronirsi di tutto il tessuto
sociale. Il Giorno della Civetta illumina la mafia come terminale di un Potere
che sviluppa la sua tela e la sua volontà di dominio dai palazzi romani e che cresce e si rafforza per la sua appartenenza a questo potere. A cinquanta anni è sempre e valido come non mai specialmente ora che il Potere sta sfasciando l'apparato di lotta alla mafia e le leggi che lo sostenevano compresa quella sul sequestro dei beni che con prestanomi, la mafia può riconquistare. La Roba!!!
Ho rivisto anche il bellissimo film di Damiano Damiani ispirato al"Giorno
della Civetta" pessimista assai di più di Sciascia che si conclude con Don
Mariano affacciato dal suo terrazzo che si riceve gli omaggi della
popolazione che ha capito quanto sia forte ed invulnerabile. Don Mariano è
lo Stato. Nel Giorno della Civetta
il capitano Bellodi conclude il libro proponendosi di tornare in Sicilia.
Esclama: "Mi ci romperò la testa" Si può vedere in lui assai prima del tempo
Falcone, Borsellino o lo stesso generale della Chiesa. Lotta senza quartiere
alla mafia. Lo stesso non può dirsi di Montalbano che ha sempre buoni
rapporti con la mafia, ci convive riuscendo miracolosamente a mantenere la propria integrità morale ed indipendenza ,arriva addirittura a fare dei summit con
i grandi capi delle cosche per dipanare la matassa di omicidi
ai quali ritiene che la mafia non sia coinvolta. Infatti, in uno
dei suoi romanzi, in occasione dell'omicidio di un appaltatore che i più
attribuiscono alla mafia, Montalbano scopre che si tratta del delitto di una
donna timorosa di perdere la sua posizione economica.
Tutta l'intervista di Montalbano mi è sembrata piena di una sorta di llatente e forse inconsapevole
malanimo verso Sciascia che di tanto in tanto affiora nel racconto di
diverse vicende. Trovo imbarazzante il fatto che per ben due volte
sottolinea il fatto che era amico di Sciascia soltanto di secondo livello. Non condivido il rimprovero
a Sciascia di avere rotto l'amicizia con Guttuso dopo che questi si era rifiutato di testimoniare la verità in tribunale dove era stato trascinato da Berlinguer. La sua idea che Sciascia non doveva chiedere a
Guttuso di testimoniare perchè era comunista e membro della Direzione del PCI e quindi non poteva dire qualcosa di non favorevole al Segretario del suo Partito non è condivisibile. La verità non può
essere esibita soltanto quando non crea imbarazzo!!

Pietro Ancona
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L'Intervista " Il Fatto"

20 novembre 2009
di Silvia Truzzi

Cinquant’anni fa, o giù di lì. Andrea Camilleri, una sigaretta dietro l’altra,
non ricorda l’anno in cui conobbe Leonardo Sciascia (oggi ricorre il
ventennale della scomparsa). Ma è l’unica cosa che dell’amico non sa dire.
Tutto il resto, qui di seguito. Nuvole di fumo, lampi negli occhi, l’intraducibile
tono della voce, l’Isola nella pronuncia e nel cuore: una conversazione
sulla Sicilia, a ritmo di narrazione.

Com’è stato l’incontro Sciascia-Camilleri?


Cominciammo ad avere dei contatti quando io ero all’ufficio sperimentazione
della Rai. Gli chiesi se poteva stendere la traccia di uno sceneggiato
perché riguardava il primo delitto di mafia nel quale erano coinvolti
politica, finanza e banche. Disse che non se la sentiva perché il materiale
era troppo. Poi cominciammo a frequentarci perché io dovevo mettere in scena
la riduzione teatrale del Giorno della civetta. Poi continuammo a
frequentarci perché io facevo il regista di quattro puntate a lui dedicate
di un programma che s’intitolava Uno scrittore e la sua terra. Poi ci siamo
visti anche privatamente per i fatti nostri. Poi gli portai del materiale su
un fatto di sangue accaduto nel mio paese pensando che potesse ricavarne uno
dei suoi libretti aurei, lui mi restituì tutto, dicendo: Ma perché non lo
scrivi tu? Poi mi convinse a scriverlo e me lo fece pubblicare da Elvira
Sellerio, facendo la bandella. Era La strage dimenticata. Abbiamo sempre
avuto un rapporto di amicizia. Ma tengo a precisare, onde evitare gelosie,
che io ero un amico di Sciascia di secondo grado. Perché ci sono gli amici
di primo grado, quelli ai quali si fanno confidenze. E io non appartenevo a
questa cerchia. Ero nella cerchia immediatamente dopo, tra quelli che lo
chiamavano Leonardo e non lo chiamavano Nanà, come facevano gli amici
intimi.


E di cosa parlavate?

Parlavamo di tutto. Di politica, di Stendhal, del fatto del giorno. E
polemizzavamo. Non era un’amicizia tranquilla. Ci trovavamo in disaccordo su
molte questioni. Per esempio la politica. Per esempio un’azzuffatina
notevole avvenne in occasione del sequestro Moro. Renato Guttuso, che era
fraterno amico di Sciascia (fino a quel momento, perché di lì a 15 giorni
non si salutarono più), l’invitò ad andare a trovare Berlinguer insieme con
lui. E trovarono un Berlinguer distrutto: Berlinguer pensava che il
rapimento Moro – ancora non era stato ammazzato –, fosse il frutto di una
felice collaborazione tra il Kgb e la Cia. E non ci era andato tanto
lontano, il povero Berlinguer. Naturalmente Sciascia scrisse un articolo sul
Corriere della Sera. Naturalmente Berlinguer non potè far altro che
smentire. Lo strappo con l’Unione Sovietica c’era stato, ma un po’ di
cordone ombelicale era rimasto. Berlinguer disse: Sciascia ha equivocato. E
Leonardo: Ma come? Era presente Renato Guttuso, che può confermare. Guttuso
era membro della direzione del Pci e si schierò con Berlinguer: ma no,
Leonardo ha frainteso. Bell’amico mi disse dopo Leonardo a proposito di
Guttuso. E io a lui: No, bell’amico tu. Perché? E io: perché se sei amico
fraterno di Guttuso e sai che Renato è membro della direzione del Pci ed è
un comunista convinto , non lo tiri in ballo. Lo tieni lontano da questa
faccenda, altrimenti lo metti in difficoltà. Voi comunisti siete tutti
uguali. E da qui cominciò un litigio che fortunatamente si risolse nel giro
di pochi giorni, dato che non eravamo amici di primo grado. Perché se
fossimo stati amici di primo grado penso che il litigio sarebbe stato assai
più serio.


Perché le prese di posizione di Sciascia – sulla mafia e sul sequestro Moro,
per esempio – hanno suscitato dibattiti così violenti?

Erano controcorrente. Ma non erano controcorrente per partito preso. Uno può
essere pierino, che dice sempre di no. Sciascia non era pierino, Sciascia
ragionava. Era di una lucidità intellettuale che pochi hanno avuto in
Italia. Quindi andava a finire che le sue conclusioni urtavano ferocemente
contro le conclusioni ufficiali, che non erano dettate dalla ricerca della
verità, erano in genere dettate da un accomodamento. A questo accomodamento
Sciascia non ci stava. Si poteva permettere il lusso di dire non ci sto,
perché così come era severo verso i terzi era severo verso se stesso.


L’indipendenza intellettuale è la sua più importante lezione?

È una delle sue più importanti lezioni. Sciascia è sempre politico, è
politico anche quando scrive romanzi: Todo modo è un romanzo politico.
Altrimenti non si capisce perché uno scrive un romanzo, Il contesto,
definendolo romanzo, e provoca una violenta reazione da parte del Partito
comunista. Uno scrive Todo modo, che è il requiem della Democrazia
cristiana, e suscita polemiche. Erano politici i suoi romanzi, politici i
suoi articoli. Lui era un uomo naturaliter politico. Poi c’è il momento in
cui, dalla politica fatta in qualità di scrittore, diventa politico attivo
perché si presenta alle elezioni (sempre come indipendente, sia nel Pci sia
con i Radicali). Che cos’è il partito per Sciascia? La stessa cosa che è per
Enrico Mattei. Enrico Mattei diceva: il partito politico mi serve come un
tram, ci salgo sopra perché mi deve portare da qualche parte. Leonardo
Sciascia adopera il partito allo stesso modo, solo che i suoi fini sono
totalmente diversi. Non sono fini utilitaristici, come per Mattei. Sono la
possibilità di esprimere liberamente il proprio pensiero, senza dover
condividere le opinioni del conduttore del tram.


E le altre lezioni?

Sempre questa costante attenzione alla vita sociale e politica del paese.
Non c’è stato un momento in cui Leonardo si sia distratto per contemplare il
proprio ombelico. Oggi moltissimi letterati italiani non fanno altro che
contemplare il proprio ombelico. Voglio dire che lui è stato sempre utile
alla società nella quale viveva. Chiaro?



Parliamo della Sicilia. Sciascia l’ha vissuta anche come un problema.

C’era la questione della sicilitudine, che a lui stava sulle palle come sta
a me. È un termine coniato da una definizione di Léopold Sédar Senghor,
presidente del Senegal. Lui parlava di negritudine. Ma c’è una grossa
differenza tra negritudine e sicilitudine. E applicare un concetto così
ristretto come quello di negritudine non gli andava. La sicilitudine è il
lamento che il siciliano fa di sé. Vittorio Nisticò fece un giornale
leggendario che era l’Ora di Palermo. Vittorio diceva che i siciliani si
dividono in due grandi categorie. I siciliani di scoglio e i siciliani di
mare aperto. Il siciliano di scoglio è quello che riesce ad allontanarsi
fino al più vicino scoglio. Il siciliano di mare aperto invece prende il
largo e se ne va. Leonardo era un siciliano di scoglio, non c’è dubbio. Però
il suo scoglio era così alto che lui da lassù poteva guardare il mondo. Non
riusciva a stare lontano dalla Sicilia. La prima volta che andò a Parigi mi
dissero: Leonardo si è beccato tre influenze di fila e se ne sta chiuso in
albergo. Gli telefonai: Come ti senti? Risposta: Male assai. E gli chiesi:
Per l’influenza? Sì, sì l’influenza. Ma poi sentimmi ghittato ‘ca a Parigi.
Capito? Buttato qua a Parigi, come se fosse stato in esilio in un paese del
Terzo mondo. Sicilitudine è una condizione segnata con l’evidenziatore da
alcuni particolari. È, come dire, un gusto compiaciuto per l’essere isolati,
per il sentirsi diversi. Invece non lo siamo, diversi. Siamo semplicemente
separati dalla terra ferma. La questione divenne la sicilianità, soprattutto
per quanto riguarda i caratteri negativi: la sicilianità è molto
semplicemente il prodotto di 13 o 14 dominazioni diverse che si sono
susseguite in Sicilia. È il senso dell’isola. I siciliani di queste 13
dominazioni hanno preso il meglio e il peggio. Quindi si sono creati un
carattere prismatico, cioè assolutamente contraddittorio. Tra persona e
persona, tra siciliano e siciliano. Uso una bellissima immagine di Vitaliano
Brancati: ci sono il signor Rossi e il signor Bianchi, tutti e due di
Catania, tutti e due abitanti nello stesso condominio. Ma li divide il
pianerottolo e passare il pianerottolo è come fare una traversata atlantica.
Tutto questo coacervo di situazioni, di modi di pensare e agire, fa la
sicilianità intesa come complessità. La contraddizione è sempre presente.
Non a caso Leonardo aveva pensato, in un primo tempo, di fare scrivere sulla
propria tomba: visse e si contraddisse. Poi cambiò idea e fece scrivere: ce
ne ricorderemo di questo pianeta.


Mafia e antimafia: due parole sui professionisti dell’antimafia.

Sciascia non era dentro le segrete cose della magistratura. Qualcuno lo
informò che era cambiato il meccanismo di promozione dei giudici. Prima
venivano promossi in base all’anzianità. Si cambiò con Borsellino: secondo i
vecchi criteri la promozione non gli spettava. Venne nominato procuratore in
base alla specifica conoscenza che aveva della mafia. E questo Leonardo lo
reputò un errore. E fu un errore di Leonardo. Come si dice: ha toppato,
perché mica era Dio. E mica è stata l’unica volta. Quello che posso
garantire io, è che le sue erano toppate in assoluta buona fede. Infatti,
quando gli spiegarono come stavano le cose, si precipitò a scusarsi con
Borsellino. Leonardo non aveva capito che nel caso della mafia l’unica
strada è la specializzazione.


Sciascia letterato: qual è il suo valore?

Questo è molto discusso. Per me è stato uno dei maggiori letterati del
Novecento, assieme a Carlo Emilio Gadda. Molti gli rimproverano una
scrittura professorale. Non è così. Il suo italiano, che sembra accademico,
è una lingua che lui affilava quotidianamente per farne qualche cosa che
somigliasse a un bisturi.


La prima delle Lezioni americane di Calvino: la leggerezza.

Non a caso erano amici.


Classifica dei libri di Sciascia.


Il più bello in assoluto è Il Consiglio d’Egitto, perché mette in campo
drammaticamente la condizione dell’essere siciliani. Il libro è diviso in
due parti separate da un intermezzo - proprio intitolato Intermezzo - in cui
il Viceré siciliano, che non è siciliano, chiede a un notabile siciliano: ma
come si fa a essere siciliani? Per dire che il libro è incentrato sulla
natura e sullo spirito dei siciliani. Io ho trovato una risposta a quella
domanda. Vuole saperla? Si fa con l’ironia. Poi Candido e poi Porte aperte.
Certo, c’è Il giorno della civetta. Ma è uno di quei libri che non avrei
voluto fossero mai stati scritti. Ho una mia personale teoria. Non si può
fare di un mafioso un protagonista, perché diventa eroe e viene nobilitato
dalla scrittura. Don Mariano Arena, il capomafia del Giorno della civetta,
giganteggia. Quella sua classificazione degli uomini – omini, sott’omini,
ominicchi, piglia ‘n culo e quaquaraquà – la condividiamo tutti. Quindi
finisce con l’essere indirettamente una sorta di illustrazione positiva del
mafioso e ci fa dimenticare che è il mandante di omicidi e fatti di sangue.
Questi sono i pericoli che si corrono quando si scrive di mafia. La
letteratura migliore per parlare di mafia sono i verbali dei poliziotti e le
sentenze dei giudici. Saviano è riuscito a dimostrare che si può scrivere un
libro - non un romanzo perché è una cosa diversa - e mostrare la camorra per
quello che è. Ma è un caso isolato.


Già nei primi anni Ottanta Sciascia manifesta una grande preoccupazione per
la deriva della politica verso il malaffare. Oggi cosa scriverebbe?

Forse non scriverebbe proprio nulla. Quando tu hai una tale e vasta conferma
di quello che avevi intuito sarebbe avvenuto, ti cascano le braccia. Di
Leonardo sento la mancanza, ma certe volte sono contento che non ci sia più.
Perché penso: Poveraccio, se ci fosse ancora. Almeno non deve vedere tutto
questo.


da Il Fatto Quotidiano del 20 novembre 2009




























































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