martedì 3 novembre 2009

congresso CGIL, lettera al Manifesto

Caro Manifesto,

nell'articolo di Mario Sai "Congresso CGIL, per un'altra idea di Confederalità" c'è un'affermazione che è una enorme menzogna. Si dice: " ....eppure è su questo tasto che il sindacato si batte da più di quindici anni: I grandi accordi di concertazione e così pure i contratti di categoria hanno dato centralità al recupero del potere di acquisto rispetto agli andamenti inflattivi (!!!!), situazione che si presenta oggi più complicata dopo l'accordo separato sulle regole contrattuali etc....".

Gli accordi di concertazione governo, padronato, sindacati firmati nel 1993 (per la CGIL Trentin)
hanno creato un meccanismo opposto a quello richiamato da Sai. Hanno parametrato gli incrementi salariali al tasso di inflazione "programmato" che notoriamente è un riferimento politico e finanziario che non supera mai il 2 per cento. Questa parametrazione alla quale tuttora si riferiscono le richieste di aumento salariale compresa quella della Fiom (mai più oltre i 100 euro spalmati nel tempo) nel corso di quindici anni ha impoverito i lavoratori italiani facendoli precipitare in fondo alla scala dei salari europei. Se oggi abbiamo salari miserrimi del quaranta per cento inferiori a quelli europei lo dobbiamo ad un diabolico marchingegno per il quale Trentin, dopo aver firmato gli accordi, rassegnò le dimissioni.
In quanto alla
confederalità e la nuova idea di confederalità di cui parla Sai è esattamente il contrario di quanto hanno oggi bisogno i lavoratori. Aveva un senso quando esisteva una progetto di unificazione Nord-Sud e di sostegno dei redditi delle categorie svantaggiate. Per intenderci, la scelta dell'EUR) Oggi c'è bisogno di più sindacato di categoria. E non venite a dire che questa è l'idea di un sindacato corporativo!!

Pietro Ancona
già segretario cgil sicilia
http://medioevosociale-pietro.blogspot.com/
www.spazioamico.it



Il Manifesto 1 novembre 2009
La Cgil più che di un congresso
avrebbe bisogno di un suo Concilio

Vaticano Secondo, perché deve

fare i conti - oltre che con le regole

della democrazia e le procedure dei

contratti - con una crisi di orientamento

del suo popolo.

Una struttura produttiva diffusa e disarticolata,

come è quella del nostro Paese,

che sta affrontando la crisi in difensiva

(basta guardare la caduta degli investimenti

fissi doppia rispetto a Germania

e Francia) ha come corrispettivo

il radicarsi nelle relazioni industriali dell’idea

che «siamo tutti sulla stessa barca

», che l’azienda, il territorio siano la

dimensione comunitaria alla quale anche

i lavoratori devono abbrancarsi.

Se si sta tutti sulla stessa barca, è facile

anche convincersi che «la barca è piena

» (così in tempi cupi il governo elvetico

giustificava i respingimenti degli

ebrei in fuga dall’olocausto). «Prima gli

italiani per i servizi, la casa, il lavoro» è

una parola d’ordine che ormai si sente

anche nelle assemblee operaie. La crescita

di consenso tra i lavoratori dipendenti

alla destra, e segnatamente alla

Lega, si spiega con un diffuso senso di

insicurezza (per le proprie condizioni

di vita e lavoro, per il proprio futuro e

per quello dei figli, prima ancora che

per la piccola criminalità).

C’è contemporaneamente una caduta

della capacità del lavoro dipendente

di pensarsi come forza sociale autonoma

con un proprio progetto di trasformazione

economica, di cambiamento

sociale. Di più. È entrato ormai nel senso

comune che il lavoro, nei suoi contenuti

culturali e professionali, nella sua

capacità di produrre valore, sia un

aspetto dell’autostima delle persone e

non un elemento costitutivo del processo

produttivo e della mobilità sociale.

Periodicamente le statistiche internazionali

ci informano che i salari italiani

sono i più bassi in Europa e tra i più bassi

dei paesi Ocse e che la loro perdita di

potere d’acquisto è continua.

Eppure è su questo tasto che il sindacato

batte da più di quindici anni. I

grandi accordi di concertazione e così

pure i contratti di categoria hanno dato

centralità al recupero del potere d’acquisto

rispetto agli andamenti inflattivi,

situazione che si presenta oggi più complicata

dopo l’accordo separato sulle regole

contrattuali, come dimostra la scelta

di Federmeccanica di fare guerra

aperta alla Fiom.

La rincorsa salari-inflazione è stata

una sfida impossibile da vincere, mentre

si è perso di vista il profondo cambiamento

nel riconoscimento dei percorsi

formativi e nelle competenze richieste

dai processi di riorganizzazione del lavoro

indotti dalle nuove tecnologie, dal

cambiamento di ruolo della pubblica

amministrazione, dallo sviluppo di nuove

forme di terziario, dalla dispersione

territoriale, dalla precarietà.

Anche per questo si sono diffuse pratiche

sindacali chiuse nella gabbia dell’aziendalismo:

dall’ancoraggio degli aumenti

salariali ai risultati d’impresa (e

non ai contenuti professionali che sono

richiesti dall’organizzazione del lavoro

in cui si opera) al ritorno a forme dimutualismo,

subendo così l’offensiva contro

lo stato sociale e l’universalità dei diritti.

Combattere questa deriva è una delle

condizioni per superare le pesanti conseguenze

della crisi in atto a cominciare

dalla disoccupazione.

Servono un progetto ed una pratica

sindacale che abbiano al loro centro il

riconoscimento sociale ed economico

del valore del lavoro; la contrattazione

delle sue trasformazioni, della sua organizzazione,

della sua distribuzione.

Non sarà certo un pranzo di gala, ma

uscire dalla crisi come prima solo un

po’ più deboli e poveri vorrà dire più disoccupazione,

più localismo, più spinte

corporative.

Per questo serve una nuova idea di

confederalità - non come gerarchia tra

strutture - ma come progetto politico a

cui partecipino con pari responsabilità

categorie e territori e che veda i delegati

sindacali protagonisti nei luoghi di lavoro.

Il congresso della Cgil deve mettere

in luce le differenze che ci sono nel definire

questo progetto (nei momenti difficili

bisogna cercare e cercare ancora),

senza trasformarsi, però,

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