Caro Manifesto,
nell'articolo di Mario Sai "Congresso CGIL, per un'altra idea di Confederalità" c'è un'affermazione che è una enorme menzogna. Si dice: " ....eppure è su questo tasto che il sindacato si batte da più di quindici anni: I grandi accordi di concertazione e così pure i contratti di categoria hanno dato centralità al recupero del potere di acquisto rispetto agli andamenti inflattivi (!!!!), situazione che si presenta oggi più complicata dopo l'accordo separato sulle regole contrattuali etc....".
Gli accordi di concertazione governo, padronato, sindacati firmati nel 1993 (per la CGIL Trentin)
hanno creato un meccanismo opposto a quello richiamato da Sai. Hanno parametrato gli incrementi salariali al tasso di inflazione "programmato" che notoriamente è un riferimento politico e finanziario che non supera mai il 2 per cento. Questa parametrazione alla quale tuttora si riferiscono le richieste di aumento salariale compresa quella della Fiom (mai più oltre i 100 euro spalmati nel tempo) nel corso di quindici anni ha impoverito i lavoratori italiani facendoli precipitare in fondo alla scala dei salari europei. Se oggi abbiamo salari miserrimi del quaranta per cento inferiori a quelli europei lo dobbiamo ad un diabolico marchingegno per il quale Trentin, dopo aver firmato gli accordi, rassegnò le dimissioni.
In quanto alla
confederalità e la nuova idea di confederalità di cui parla Sai è esattamente il contrario di quanto hanno oggi bisogno i lavoratori. Aveva un senso quando esisteva una progetto di unificazione Nord-Sud e di sostegno dei redditi delle categorie svantaggiate. Per intenderci, la scelta dell'EUR) Oggi c'è bisogno di più sindacato di categoria. E non venite a dire che questa è l'idea di un sindacato corporativo!!
Pietro Ancona
già segretario cgil sicilia
http://medioevosociale-pietro.blogspot.com/
www.spazioamico.it
Il Manifesto 1 novembre 2009
La Cgil più che di un congresso
avrebbe bisogno di un suo Concilio
Vaticano Secondo, perché deve
fare i conti - oltre che con le regole
della democrazia e le procedure dei
contratti - con una crisi di orientamento
del suo popolo.
Una struttura produttiva diffusa e disarticolata,
come è quella del nostro Paese,
che sta affrontando la crisi in difensiva
(basta guardare la caduta degli investimenti
fissi doppia rispetto a Germania
e Francia) ha come corrispettivo
il radicarsi nelle relazioni industriali dell’idea
che «siamo tutti sulla stessa barca
», che l’azienda, il territorio siano la
dimensione comunitaria alla quale anche
i lavoratori devono abbrancarsi.
Se si sta tutti sulla stessa barca, è facile
anche convincersi che «la barca è piena
» (così in tempi cupi il governo elvetico
giustificava i respingimenti degli
ebrei in fuga dall’olocausto). «Prima gli
italiani per i servizi, la casa, il lavoro» è
una parola d’ordine che ormai si sente
anche nelle assemblee operaie. La crescita
di consenso tra i lavoratori dipendenti
alla destra, e segnatamente alla
Lega, si spiega con un diffuso senso di
insicurezza (per le proprie condizioni
di vita e lavoro, per il proprio futuro e
per quello dei figli, prima ancora che
per la piccola criminalità).
C’è contemporaneamente una caduta
della capacità del lavoro dipendente
di pensarsi come forza sociale autonoma
con un proprio progetto di trasformazione
economica, di cambiamento
sociale. Di più. È entrato ormai nel senso
comune che il lavoro, nei suoi contenuti
culturali e professionali, nella sua
capacità di produrre valore, sia un
aspetto dell’autostima delle persone e
non un elemento costitutivo del processo
produttivo e della mobilità sociale.
Periodicamente le statistiche internazionali
ci informano che i salari italiani
sono i più bassi in Europa e tra i più bassi
dei paesi Ocse e che la loro perdita di
potere d’acquisto è continua.
Eppure è su questo tasto che il sindacato
batte da più di quindici anni. I
grandi accordi di concertazione e così
pure i contratti di categoria hanno dato
centralità al recupero del potere d’acquisto
rispetto agli andamenti inflattivi,
situazione che si presenta oggi più complicata
dopo l’accordo separato sulle regole
contrattuali, come dimostra la scelta
di Federmeccanica di fare guerra
aperta alla Fiom.
La rincorsa salari-inflazione è stata
una sfida impossibile da vincere, mentre
si è perso di vista il profondo cambiamento
nel riconoscimento dei percorsi
formativi e nelle competenze richieste
dai processi di riorganizzazione del lavoro
indotti dalle nuove tecnologie, dal
cambiamento di ruolo della pubblica
amministrazione, dallo sviluppo di nuove
forme di terziario, dalla dispersione
territoriale, dalla precarietà.
Anche per questo si sono diffuse pratiche
sindacali chiuse nella gabbia dell’aziendalismo:
dall’ancoraggio degli aumenti
salariali ai risultati d’impresa (e
non ai contenuti professionali che sono
richiesti dall’organizzazione del lavoro
in cui si opera) al ritorno a forme dimutualismo,
subendo così l’offensiva contro
lo stato sociale e l’universalità dei diritti.
Combattere questa deriva è una delle
condizioni per superare le pesanti conseguenze
della crisi in atto a cominciare
dalla disoccupazione.
Servono un progetto ed una pratica
sindacale che abbiano al loro centro il
riconoscimento sociale ed economico
del valore del lavoro; la contrattazione
delle sue trasformazioni, della sua organizzazione,
della sua distribuzione.
Non sarà certo un pranzo di gala, ma
uscire dalla crisi come prima solo un
po’ più deboli e poveri vorrà dire più disoccupazione,
più localismo, più spinte
corporative.
Per questo serve una nuova idea di
confederalità - non come gerarchia tra
strutture - ma come progetto politico a
cui partecipino con pari responsabilità
categorie e territori e che veda i delegati
sindacali protagonisti nei luoghi di lavoro.
Il congresso della Cgil deve mettere
in luce le differenze che ci sono nel definire
questo progetto (nei momenti difficili
bisogna cercare e cercare ancora),
senza trasformarsi, però,
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