giovedì 22 ottobre 2009

riduzione in schiavitù

RIDUZIONE IN SCHIAVITU'

Ieri sera a Exit di Ilario D'Amico su La7 ci hanno fatto vedere un filmato riguardante la colonizzazione del capitalismo mafioso cinese del territorio industriale della città di Prato, nel cuore della Toscana, in cui una è stata costruita sotto lo sguardo indifferente delle autorità locali e nazionali,
una enclave senza leggi in cui forse cinquantamila lavoratori e lavoratrici cinesi vivono ridotti in schiavitù, con paghe di fame, dentro le fabbriche in cui lavorano non si sa per quante ore al giorno e dove dormono, si alimentano, abitano forse senza mai uscire all'aperto.
L'enclave cinese riguarda cinquemilaeseicento capannoni industriali che coprono una superficie enorme dentro la quale lavorano a pieno ritmo, forse ventiquattro ore su ventiquattro quando necessario, migliaia di macchine preposte al ciclo del "pronto moda". L'importanza del polo cinese è internazionale: fornisce abiti a committenti italiani ed europei ed a grandi marche naturalmente a costi assai convenienti. Enormi utili vengono ricavati dalle committenti della moda, spesso multinazionali del settore
spremuti ad una classe lavoratrice di schiavi condannati a produrre per miserissime paghe e magari obbligati dal ricatto di familiari rimasti in Cina e soggetti alle rappresaglie dei mandarini capitalisti e mafiosi che hanno realizzato una grande operazione di globalizzazione: un forte punto produttivo nel cuore dell'Italia e dell'Occidente per ridurre al massimo il costo dei trasporti e stare affacciati sui mercati di vendita dei loro prodotti.
Il servizio della D'Amico ha fatto constatare l'impossibilità di un intervento dello Stato dal momento
che - è stato detto- per ispezionare i 5600 capannoni alla media di due ispezioni alla settimana ci vorrebbero qualcosa come cinquanta o sessanta anni e che è impossibile accompagnare alla frontiera tutti i clandestini o inviarli al CIE dal momento che questo è lontano trecento chilometri. E' stato poi mostrato come i sigilli ai capannoni ispezionati ed il sequestro delle macchine utensili non servono praticamente a niente dal momento che le multe sono ridicole (dieci euro a macchina utensile e quattrocento per tutto il punto di produzione e della capacità degli "imprenditori" cinesi di spostare l'attività in diversi luoghi sempre all'interno dell'enclave pratese.
Messa cosi la questione non si può che convenire con il sindaco ed il prefetto del luogo che hanno sottolineato l'inutilità di qualsiasi intervento.
Ma l'intervento è appunto inutile e sterile di risultati perchè viene attuato in attuazione alle razziste e
sciocche leggi sulla sicurezza recentemente approvate. Il problema non è quello di criminalizzare i lavoratori cinesi di Prato quando di mettere in luce la loro riduzione in schiavitù, il loro sfruttamento disumano ad opera di una imprenditoria cinese mafiosa che ha la copertura e la complicità o addirittura è associazione con nostri imprenditori coinvolti in un giro di affari miliardario.
L' immigrazione cinese in Italia non è per niente da classificare con l'immigrazione che viene da tutti gli altri paesi. E' una immigrazione-colonizzazione del commercio e della industria che viene operata con grossi capitali in grado di fare investimenti nel lungo periodo, con forza sufficiente per sopportare tempi morti ed improduttivi. Credo che una indagine sulle acquisizioni di proprietà di
cinesi in Italia non sia mai stata fatta ed a Prato o a Napoli o altrove parte del nostro sistema produttivo barbaro e corsaro sia interessato al mantenimento delle enclavi in cui centinaia di migliaia di esseri umani sono ridotte ad utensili senza diritto e senza libertà per produrre capi di vestiario o altro destinato ad essere esposto in via Montenapoleoni a Milano o in Via Condotti a Roma.
L'accusa che dovrebbe essere formulata non è quella di immigrazione clandestina ma si violazione delle leggi sui diritti umani e riduzione in schiavitù Si cominci con il revocare le licenze e le iscrizioni alla Camera di Commercio di tutte le "ditte".Si dovrebbero subito confiscare e non sequestrare i capannoni e quanto contengono e porsi il problema enorme che nessuna comunità di stranieri o di italiani può costruirsi una enclave dove far valere leggi diverse da quelle dello Stato: leggi di violenza e sopraffazione.
Pietro Ancona
http://medioevosociale-pietro.blogspot.com/
www.spazioamico.it






http://www.la7.it/blog/default.asp?idblog=ILARIA_DAMICO_-_Exit_15

1 commento:

Anonimo ha detto...

Il sindaco di Prato

La Sasch non produrrà più niente a Prato ed è subito polemica, visto che l’azienda leader nel settore dell’abbigliamento appartiene a Roberto Cenni, che di Prato è il sindaco. La notizia, anticipata dalla cronaca pratese del Tirreno di oggi, ha così immediatamente suscitato molte reazioni in città e nel mondo imprenditoriale. In realtà la Sasch già produceva la quasi totalità dei suoi capi in Cina. Secondo quanto riferito dalla stessa azienda ormai in Italia veniva realizzato solo lo 0,7% della produzione, pari a circa 100mila abiti confezionati nel reparto di Modelleria e dai lavoratori della Mi.Mill. Adesso anche questi vestiti saranno prodotti in Cina, mentre per nove lavoratori Sasch e altrettanti di Mi.Mill. è stata chiesta la cassa integrazione. Dalla Sasch spiegano che si tratta di una normale razionalizzazione del processo produttivo, necessario a tenere il passo con colossi come Zara e H&M. E per far capire come tutto questo non abbia ripercussioni sul piano occupazionale interno, i vertici aziendali ricordano come nell’ultimo anno sono stati aperti 50 negozi a marchio Sasch in Italia per un totale di 400 nuovi posti di lavoro.