La scomparsa di Mimì La Cavera
di Alessia Bivona
Macaluso ricorda La Cavera. La legge per l’industrializzazione della Sicilia, la rottura con la Confindustria nazionale e la destra Dc, fino al sostegno alla svolta anti-racket di Lo Bello.
. Il patriarca dell’industrializzazione in Sicilia, il grande vecchio dell’economia nell’isola, l’uomo delle battaglie per portare l’Eni di Enrico Mattei in Sicilia, il padre nobile del milazzismo, l’industriale con il sogno dello sviluppo della Sicilia se n’è andato ieri, alle 7.30 del mattino nell’attico di via Libertà dove, dopo tanti anni vissuti a Roma, era tornato ad abitare con la compagna Eleonora Rossi Drago, la celebre attrice scomparsa quattro anni fa.
L’ingegnere Domenico La Cavera, per gli amici Mimì, aveva 95 anni e l’inusuale talento di una straordinaria lungimiranza. Per il suo novantesimo compleanno era arrivato a Palermo a festeggiarlo l’allora presidente di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo. «Un uomo tutto d’un pezzo, che ha combattuto sempre per lo sviluppo della Sicilia. Uno che non si è mai arreso, e non si è mai venduto ai padroni». La voce al telefono è di un commosso Emanuele Macaluso, tra i più vicini testimoni della vita e dell’impegno di La Cavera.
Macaluso, avete attraversato insieme le più grandi trasformazioni sociali del Paese e della Sicilia.
Conoscevo Mimì da 65 anni, da quando io, allora 23enne, ero segretario della Cgil e lui presidente degli industriali. Da sempre il nostro è stato un rapporto di leale contrapposizione anche nelle stagioni di lotte aspre, di occupazioni dei siti industriali.C’era un fronte comune per sostenere lo sviluppo di una classe imprenditoriale siciliana. Eravamo alleati in questa battaglia, gli industriali siciliani e il sindacato, e avevamo l’appoggio politico di Alessi, Milazzo e degli sturziani. Mimì riteneva, con l’ambizione tipicamente lacaveriana, che questa legge sarebbe stata una importante leva per la trasformazione della classe dirigente. Al posto di una tramontata aristocrazia legata al latifondo poteva subentrare nei nuovi scenari politici una borghesia legata all’industria.
L'affermazione di una classe imprenditrice locale diventò poi un tema politico.
Il disegno di Mimì fu avversato dalla destra Dc di Giuseppe La Loggia e dai poteri forti che avrebbero preferito che la Sicilia restasse terra di colonizzazioni. Mimì ruppe il monopolio del petrolio nell’Isola, affiancando a GulfOil l’Eni di Mattei. Causò una frattura fra Sturzo e Alessi, ruppe con la Confindustria nazionale, con il partito liberale. Finì al centro di uno scontro non solo economico, ma anche politico. E la sua figura non fu più quella di un rappresentante di una categoria produttiva, ma assunse le dimensioni e i contorni di un soggetto politico.
Siamo nella seconda metà degli anni Cinquanta. Nasce il governo Milazzo, sostenuto tra gli altri sia dal Pci che dall’Msi. Un embrione di federalismo.
Milazzo prende le redini nel ‘58. La Malfa benedice l’operazione. E’ l’inizio di uno scontro detonante all’interno della destra, di una profonda frattura col governo nazionale. Il sicilianismo resta uno dei principi più solidi delle vedute di La Cavera. Anche dopo la crisi del milazzismo. Lui dirige la Sofis. Passa alla Cassa del Mezzogiorno. Poi alla Svimez, e la sua azione politica si distingue sempre per lo spiccato impegno a favore del Sud e della Sicilia.
La Cavera è stato meridionalista prima ancora che si parlasse di federalismo.
Mimì La Cavera non si è mai venduto ai padroni. Parole come queste oggi suonano strane. Non ha mai cambiato una casacca per convenienza politica o economica, né per convenienza di posizione personale. La fermezza della sua linea è uno dei motivi per cui è diventato nel corso dei decenni uno dei principali punti di riferimento nel panorama economico, politico e culturale. Il suo valore, la sua coerenza sono stati sempre riconosciuti. La stessa Confindustria siciliana gli ha riconosciuto la presidenza onoraria per chiudere un passato di rapporti travagliati. Negli ultimi anni Mimì ha sostenuto l’impegno antimafia di Ivan Lo Bello.
Per lei non era solo un co-protagonista di molte battaglie, era anche un amico.
Da un rapporto di lealtà, di stima reciproca, di collaborazione è nata poi una grande amicizia. Che si è consolidata sui grandi temi e nella unione di vedute, ma si è consolidata poi nei gesti quotidiani. Mimì da trent’anni ogni giorno mi telefonava alle 7.30. Era una delle prime chiamate della giornata, chiacchieravamo della situazione politica, economica. Dei fatti nazionali e delle storie siciliane. E’ difficile pensare a una quotidianità senza le sue sfuriate, le sue battaglie, senza i suoi strali contro la malapolitica. L’Italia ha perso un grande uomo.
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