domenica 6 giugno 2010

Il nostro contro-risorgimento. I Vinti. Carmine Crocco

Carmine Crocco, dei briganti il generale. Un documentario.
Massimo Lunardelli - Giovedì, 20 Novembre 2008 11:47:25


Alle 8.20 di domenica 18 giugno 1905, nel carcere di Portoferraio, sull'isola d'Elba, muore a 75 anni Carmine Crocco, il brigante lucano che durante gli anni dell'unità d'Italia, alla testa di un esercito che arrivò a contare tremila uomini, aveva messo a ferro e fuoco ampie zone del Mezzogiorno combattendo prima per Garibaldi, poi per i Borbone e alla fine soltanto per se stesso. Muore solo, per atonia senile si legge sullo sbrigativo referto medico. Gli unici che non hanno mai smesso di fargli visita, in quella prigione dove è rinchiuso da quasi quarant'anni, sono stati i lombrosiani, che gli trovano un cranio un po' piccolo rispetto alla statura. Lo psichiatra Pasquale Penta dell'università di Napoli, scriverà di lui nel 1901 sulla Rivista mensile di psichiatria forense come di "un uomo alto, robusto, svelto, ancora dritto e resistente dopo una vita agitata, piena di stenti e sofferenze". E Crocco, tra le lacrime, gli confesserà che vorrebbe tornare a morire là dove è nato. Piange l'uomo condannato per 67 omicidi, 20 estorsioni, 15 incendi di case; colui che se ne andava in giro con il cappello piumato e armato fino ai denti, accolto come un liberatore in tutto il melfese; il solo che poteva permettersi di entrare in chiesa a cavallo; lui, che era stato tra i primi ad adottare la tecnica della guerriglia, guadagnandosi sul campo i galloni di generale dei briganti.

La storia di Carmine Crocco comincia a Rionero in Vulture - oggi in provincia di Potenza, ma allora si diceva nel circondario di Melfi - il 5 giugno 1830, quarto di cinque figli di Francesco Crocco Donatelli e Maria Gera di Santo Mauro, contadini. Nell'autobiografia che Crocco scriverà in carcere nel 1889 e che, trascritta dal capitano medico Eugenio Massa, verrà pubblicata per la prima volta dalla tipografia Greco di Melfi nel 1903, si leggono parole che raccontano la miseria quotidiana: casupole annerite dal fumo da dividere con le bestie; il grano custodito come un tesoro da usare per fare il pane bianco solo quando arrivano le malattie; e intorno zoppi, monchi, reduci di antiche guerre, tra cui lo zio Martino, senza una gamba persa per una palla di cannone nell'assedio di Zaragoza in Spagna, che gli insegnerà a leggere e scrivere.

Quando, nel 1860, scoppiano i moti insurrezionali, Crocco ha già avuto i suoi guai con la giustizia: una condanna per furto nel 1855 a diciannove anni di ferri; un'evasione dal carcere di Brindisi; l'uccisione a coltellate di un signorotto del paese che aveva osato importunare la sorella Rosina. E' latitante e si unisce ai rivoltosi con la speranza di vedersi cancellare i vecchi reati. Ma non sarà così. Tornando a casa con la casacca del vincitore, scoprirà che ancora una volta tutto è cambiato per restare uguale. Persino il sindaco è lo stesso, ma prima stava con i Borbone e adesso con i liberali. Per Crocco non c'è speranza, così torna alla macchia e si unisce alla controreazione borbonica. I boschi di Monticchio diventano il suo impero, la Ginestra il suo recondito rifugio. Per qualche mese il suo destino si incrocia con quello di Josè Borges, il legittimista spagnolo arrivato al sud per organizzare la reazione. Ma il generale dei briganti non accetta di essere subalterno a nessuno e un giorno, all'improvviso, abbandona lo spagnolo al suo destino: catturato, verrà fucilato a Tagliacozzo.

La repressione piemontese contro il brigantaggio fu feroce: "Bastava il sospetto per radere al suolo interi villaggi senza risparmiare le donne e i bambini" dice Mario Proto, docente di Storia delle dottrine politiche all'Università di Lecce. L'argomento è minato. Si rischia di parlar male del Risorgimento facendo contente le varie leghe del nord e del sud, i detrattori di Garibaldi, i tanti e diffusi movimenti neoborbonici nostalgici di Francesco II e del Regno delle Due Sicilie. Ma se si guardano i numeri, ciò che è successo tra il 1861 e il 1964, ha tutta l'aria di una guerra civile. Ai bersaglieri veniva tagliato il pizzetto alla piemontese come fosse uno scalpo mentre i briganti venivano evirati, oppure decapitati, per mostrarne la testa nella pubblica piazza. "In tre anni abbiamo fucilato 7.151 briganti, altro non so e non posso dire", riferisce nel 1864 il generale La Marmora di fronte alla commissione parlamentare d'inchiesta sul brigantaggio voluta dalle sinistre e presieduta dal deputato Massari. "Più che di un esercito unificatore, si è trattato di un esercito occupatore" commenta Valentino Romano, storico del brigantaggio e della storia contadina, "e a farne le spese sono state soprattutto le classi umili, non certo i galantuomini, cioè i veri fomentatori della rivolta, che se ne uscirono tutti per il rotto della cuffia riuscendo a dimostrare un'innocenza che non avevano".

La vita brigantesca di Carmine Crocco si conclude nell'estate del 1864. Il vecchio sistema di potere si è ormai saldato con il nuovo e le masse contadine devono tornare ad essere solo forza lavoro. Nel 1863 inoltre, è entrata in vigore la legge Pica, la prima legislazione sui pentiti che concedeva forti sconti di pena a chi si sarebbe consegnato. Ci prova anche Crocco, che entra a Rionero con una bandiera tricolore in mano, ma poi rinuncia, non si fida. Però nei suoi boschi è sempre più isolato. Lo tradisce, come spesso accade, uno dei suoi uomini più vicini, Giuseppe Caruso, di Atella, che lo vende per un posto da impiegato regio e guida i bersaglieri nei suoi rifugi più segreti. La sera del 28 luglio del 1864 il generale dei briganti, ormai ferito molte volte, tenta la fuga verso Roma. Partirono in dodici, viaggiando di notte per tratturi nascosti, arrivarono in quattro. Ma una volta giunto nello Stato Pontificio, invece della libertà, come credeva, perché in fondo anche nel nome di Pio IX aveva combattuto, Crocco venne incarcerato e consegnato allo Stato italiano dopo sette anni di cella d'isolamento: "Al momento dell'arresto" si legge nella sua autobiografia "avevo con me 19.800 lire e questa somma non fu restituita a me e non fu data al governo, come di diritto, ma finì nelle tasche di qualche monsignore ladrone".

Il processo venne celebrato a Potenza nel 1872 di fronte a un pubblico numerosissimo che anche allora, come adesso, vuole vedere da vicino il terribile assassino, il generale della reazione e delle orde borboniche. Crocco viene condannato a morte, la pena di morte verrà commutata, per regio decreto, nei lavori forzati a vita. Un ergastolo scontato nello stesso carcere, oggi diventato Museo della Giuntella, dove espiarono le loro colpe Napoleone e Passannante, l'anarchico di Salvia di Lucania che nel 1878 tentò di uccidere Umberto I di Savoia.

Chi era, dunque, Carmine Crocco? Un eroe? Un bandito?

"Avrebbe potuto diventare un eroe positivo della storia, ma Crocco era un pastore che sapeva a malapena leggere e scrivere, un'idea precisa di quello che stava facendo non ce l'aveva" racconta Raffaele Nigro, giornalista e scrittore, originario di Melfi, un'adolescenza passata a cercare i leggendari tesori dei briganti nascosti nei tronchi cavi degli alberi, "che naturalmente non ho mai trovato", precisa. "Ormai gli storici sono in gran parte concordi nel definire il brigantaggio la rivolta anarcoide del mondo contadino. E' l'atavica questione della terra, quella terra promessa da Garibaldi che i contadini si videro sfilare da sotto i piedi" sostiene Valentino Romano. "Forse l'analisi più precisa sul brigantaggio" afferma Costantino Conte, del Centro Annali per una Storia sociale della Basilicata, "l'ha fatta Vito Di Gianni, un contadino analfabeta di San Fele, che arrestato, disse: "Fummo calpestati, noi ci vendicammo, ecco tutto".

Oggi, a Rionero, una targa ricorda il luogo dove sorgeva la casa natale di Crocco che, ironia della sorte, è stata sostituita da un'armeria. Esiste un vero e proprio turismo del brigantaggio con percorsi tra i boschi del Vulture che conducono alle grotte e non è raro vedere la faccia di Crocco sulle insegne di qualche trattoria o sull'etichetta di birre o vini; o ancora su magliette, accendini, foulard, brocche in terracotta. Tutto un po' kitsch forse, ma sta a dimostrare che da queste parti il generale dei briganti è diventato icona, più di Garibaldi.

Resta da dire che su Carmine Crocco sono stati pubblicati decine di libri, che sono stati allestiti spettacoli teatrali, che nel 1999 Pasquale Squitieri si ispirò alla sua storia per trarne un film, … E li chiamavano briganti, per altro stroncato dalla critica, con Enrico Lo Verso e Lina Sastri.

Chi scrive invece, su Carmine Crocco ha realizzato un documentario. Quaranta minuti di interviste corredate da immagini di repertorio che cercano di raccontare, a quasi un secolo e mezzo dall'unità d'Italia, la storia di chi ha perduto. Chiunque desiderasse organizzare una proiezione pubblica può contatttarci e reperire ulteriori informazioni attraverso il sito www.colombre.it".









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Il brigante in tribunale
Massimo Lunardelli - Mercoledì, 19 Novembre 2008 10:55:15
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Verbale dell'interrogatorio di Carmine Donatelli Crocco
(3-4 agosto 1872)



L'anno milleottocentosettantadue il dì tré del mese di agosto nelle Carceri Giudiziarie di Potenza all'ora 1 pomeridiane; Noi Cav. Alessandro Fava Presidente della Corte Ordinaria di Assise con l'assistenza del Vice Cancelliere Signor Oreste Masci; in seguito della pervenienza degli atti del relativo procedimento sul conto del detenuto Carmine Crocco Donatelli, il quale con sentenza di questa Sezione di Accusa e di quelle di Napoli e Trani legalmente notificate, venne per vari reati rinviato alle Assise, volendo interrogarlo, lo abbiamo fatto tradurre avanti di Noi nella Camera degli esami, ove coll'assistenza dell'infrascritto Vice Cancelliere interrogato sulle generalità, ha risposto:


Mi chiamo Carmine Crocco Donatelli fu Francesco di anni 43, pastore, di Rionero in Vulture, scapolo, so leggere e scrivere, impossidente, sono stato militare col grado di caporale sotto il passato governo, sono stato condannato altra volta per crimine.

Domandato sul fatto di cui è accusato ha risposto :
Domanda: Voi Carmine Crocco non avevate compiuto ancora il 22° anno ed, associato ad altri malfattori nel 1852 e 1853, vi rendeste colpevole di varii furti qualificati, accompagnati da pubblica violenza. Per tali reati, nel 13 ottobre 1855, foste dalla corte Speciale di Potenza condannato a diciannove anni di ferri.
Menato al Bagno di Brindisi per la espiazione della pena tentaste nella notte del 19 luglio 1856 evadere da quelle carceri e foste per questo novello reato condannato dalla Commissione militare di Brindisi con sentenza del 2 ottobre 1856 ad un anno e mezzo di aumento di pena. È vero tutto questo Carmine Crocco?
Risposta: Si è verissimo.
Domanda: Quello che voi tentaste invano nella notte del 19 luglio 1856 vi riuscì però nel 13 dicembre 1859, quando con violenza evadeste dal bagno di Brindisi. Avete nulla ad opporre contro questo fatto?
Risposta: È vero che nel 13 dicembre 1859 io riuscii ad evadere dal Bagno di Brindisi, ma la mia evasione avvenne senza violenza. Io mi trovavo a lavorare alla banchina con altri forzati, fui mandato ad attingere dell'acqua alla fontana, accompagnato da un soldato del 12° cacciatori; non dovea che scavalcare un muro di giardino per ricuperare la mia libertà. Tentai questa impresa cosi facile per me, e, riuscitami, mi diedi alla fuga.

Domanda: Evaso dalle prigioni dove andaste a rifugiarvi ?
Risposta: Per tutta l'invernata stetti nascosto nel bosco di Monticchio.Venuta la primavera commisi, lo confesso, perché Crocco nulla nega, vari reati unito ad altri due compagni, Vincenzo d'Amato e Michele Di Biase. Nel 18 agosto io mi unii ai volontari capitanati da Mennuni e mi recai con gli altri in Potenza dove fu proclamata la decadenza dell'antica dinastia, ed inaugurato il Governo dell'Italia una, con Vittorio Emanuele. Ricordo che in quella occasione mettemmo in fuga tutti i Gendarmi, che inseguimmo fino alle vicinanze della montagna di Vignola.
Nel dì seguente il Capitano Ottavio Mennuni, il Sig. Attanasio Santangelo di Venosa e Pasquale Corona di Rionero presentarono me ed i miei due compagni alla Giunta presieduta dal Colonnello Boldoni, o convocata da costui, che era stato qui mandato da Garibaldi. In prosieguo io e i miei compagni facemmo parte dei volontari di questa Provincia, che andarono a riunirsi in Auletta ai Battaglioni di Garibaldi che venivano dalle Calabrie.
Seguimmo il Generale a Napoli, S. Maria, Capua, Ponte della Valle e prendemmo parte alle battaglie della patria indipendenza.
Finita la guerra avemmo il debito congedo, e venimmo qui in Potenza a presentarci al Governatore Sig. Albini, il quale ci assicurò che si sarebbe tirato un velo sulle nostre colpe passate. Costui però non ci attenne la promessa, perché dopo un mese, verso la fine di dicembre o i principii di gennaio, sapemmo che da quello stesso Governatore era stato spiccato ordine di presentazione per doversi trattare la nostra causa, con minaccia che altrimenti saremmo stati arrestati, e con promessa dall'altra parte che si sarebbe tenuto conto dei servizi da noi prestati. Non essendoci stata mantenuta la prima promessa noi non credemmo alla seconda.
Domanda: E che faceste?
Risposta: Feci quello che doveva fare. Presi una seconda volta la via dei boschi, io non aveva altra casa o palazzo dove potessi stare sicuro. Pure conoscendo per prova i disagi della vita brigantesca pensava tra me stesso, se non mi fosse stato possibile dì potermi andare ad imbarcare in Barletta o in altro posto dell'Adriatico per recarmi in Grecia, a vivere una vita più tranquilla e lontana dalle persecuzioni.
Fatalmente si diede una circostanza che mi fece abbandonare questo divisamento. Fui chiamato in segreto da talune persone che io non nomino, perché sarebbe inutile nominare essendo talune di esse già morte, e le stesse mi invitarono a prendere parte ad una controrivoluzione borbonica che mi assicuravano di essere già preparata.
Nello stato di esasperazione di animo in cui mi trovava commisi la debolezza di accettare la proposta



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Il brigante e lo psichiatra. Carmine Crocco raccontato da Pasquale Penta.
Massimo Lunardelli - Mercoledì, 12 Novembre 2008 15:30:53
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Pasquale Penta (1859-1904) psichiatra, ordinario di Antropologia Criminale presso l'Università di Napoli, fondò nella città partenopea nel 1896, quasi in contemporanea con quello di Cesare Lombroso, un museo che riempì con alcune centinaia di crani di briganti meridionali. Nel 1901, sulla "Rivista mensile di psichiatria forense", da lui fondata e diretta, pubblicò il resonconto di una visita effettuata a Carmine Crocco nel bagno pensale di Santo Stefano. Di seguito, il testo dell'articolo.

Crocco Donatelli Carmine , nato il 1830 in Rionero (Potenza) pastore e poi militare, fu il capo-brigante più celebre delle province meridionali, che tenne la campagna dal 1861 al 1863, comandando talvolta sino a 3 mila briganti e fu chiamato perciò il Comandante Crocco.

Ecco le note redatte su di lui dal Direttore del Bagno Penale di S.Stefano, quando egli vi entrò: "Delinquente gravissimo, pericolosissimo, condannato a morte e poi graziato da S.M. Vittorio Emanuele II. A lui solo sono stati imputati 74 reati, tre omicidi, grassazioni, ricatti etc., bisogna tenerlo severamente e continuamente in osservazione".

Certo il Crocco fu un delinquente gravissimo, sebben forse non mai feroce, come altri briganti, Ninco-Nanco, ad es, Giona o Cipriano La Gala, ma sentiamo un po' la sua storia.

E' individuo alto della persona (1.75) robusto, svelto, con occhio indagatore, sospettoso, attento. Non vi è nel suo corpo di straordinario che la grandezza e la sporgenza dei seni frontali e delle arcate orbitrarie, ed un cranio rispetto alla statura, non molto grande (55 cm. Di circonferenza massima). La circonferenza toracica è di 92 cm, la persona è ancora dritta e resistente, dopo una vita agitata, piena di stenti, di sofferenze, di timori e di pericoli d'ogni sorta.

E' di una intelligenza non ricca, al certo, né libera di superstizioni (anch'egli porta il rosario al collo, abitini ed amuleti), ma chiara, ordinata e sicura. Non è andato a scuola, ma durante la sua vita di pastore un po' da sé, un po' aiutato da qualche compagno, imparò a leggere e a scrivere in qualche modo, da potere esprimere dialettalmente i suoi pensieri sulla carta, facendosi comprendere molto bene. Che anzi egli ha potuto così scrivermi tutta la storia della sua vita, prezioso documento, che poi io ho smarrito per colpa non mia.

Appena arrivato al Bagno penale di S.Stefano, dove lo mandarono dopo la grazia sovrana, con un pezzo di carbone disegnò sulle mura una croce, per dire allegoricamente ch'egli così dimenticava tutto il suo passato tumultuoso, violento, criminale, agitato, lo condannava e intendeva cambiar vita.

E fu infatti così.

Nel Bagno non ha dato mai molestia a nessuno, si è fatto rispettare, coll'autorità del suo nome e del suo passato, nella ciurma, ma ha rispettato tutti, specialmente gli agenti, il Direttore e gli altri impiegati; né si è unito mai agli altri per gridare, far tumulti o prepotenze: è stato sempre a suo posto; ma non ha mancato nelle occasioni di prestare il suo aiuto, il suo consiglio, il suo soccorso ai sofferenti (accolto nella infermeria del Bagno per Bronchite catarrale, appena in convalescenza e volontariamente era divenuto un ottimo infermiere). Non ha voluto far mai valere la sua autorità e il rispetto che incuteva agli altri, se non per consigliare alla tranquillità, alla calma, alla disciplina e al lavoro.

Egli stesso non disdegnava punto il lavoro, e non sapendo che altro fare, né permettendogli la vigilanza speciale, di uscire per occuparsi di fatiche campestri, faceva calza, le quali nel Bagno godevano fama di ottima fattura.

Aveva dei sentimenti anche generosi e nutriva profonda gratitudine per Vittorio Emanuele che gli aveva fatto grazia della vita, mentre mostrava tutta la sua collera e il suo dispetto pel Cardinale Antonelli il quale, oltre ad averlo ceduto al governo Francese, che poi lo consegnò alla Italia, gli frodò anche 25 mila lire di cui lo rese depositario nell'atto che a lui si costituiva, sfuggendo all'inseguimento dei soldati italiani.

Si ricordava con affetto dei genitori, degli amici, del suo paese e delle sue campagne, nonché dei nipoti del fratello, cui egli impedì di farsi anche brigante, non volendo vedere estinta la sua famiglia e il proprio cognome. (Il Prof. Lombroso ricorda questo fatto nell'Uomo delinquente, a proposito della vanità e dell'orgoglio dei criminali).

Conservava dunque una quantità di buoni sentimenti e di dolci ricordi, i quali mostravano che la sua natura non era affatto primitivamente immorale, o viziosa, non efferata e triste; per quanto egli avesse dato prova anche di odi violenti e d'impulsività nella vita di brigante.

Era, come tutte le nature primitive, capace di bene e di male, di generosità e di malvagità, di affetto e di collera cieca, che potevano mostrarsi o prevalere, a seconda le circostanze e gli uomini.

C'era però in lui, forse, il germe della pazzia materna, morta nel manicomio di Aversa nel 1851, pazza pel dolore della carcerazione del marito, e ci era lo esempio del padre omicida; ed ecco come cominciò la sua vita criminale.

Egli aveva vissuto da pastore sempre in mezzo ai campi, libero, padrone assoluto di sé, quasi ex-lege: conosceva più gli animali che gli uomini, più la terra nella sua selvaggia e rude fecondità, che le mollezze, i piaceri delicati, gli artifizi della civiltà.

Dalla terra e dagli animali aveva imparato ad essere forte, ardito, violento, a non avere bisogni e a far tutto da sé, anche la giustizia e la vendetta, a godere liberamente l'amore, a vincere collo ardimento e la forza i rivali, a farsi temere e rispettare.

Di un tratto fu menato sotto le armi borboniche, da soldato di artiglieria a Gaeta. In seguito fu anche promosso caporale. Un giorno un altro caporale che frodava sulle spese alimentari della compagnia, per scusarsi innanzi ai superiori del peso mancante della carne, insinuò che il Crocco fosse il ladro.

Fu per lui schivo di ogni frode, franco e forte, il più grave insulto, la più grave offesa, che lo spinse alla vendetta. Sfidò il compagno e se ne andarono in un bosco vicino. Senza testimoni in un vero duello rusticano, di quelli così frequenti in Sicilia, trassero i coltelli e si azzuffarono: dopo alcuni colpi, il Crocco trapassò il cuore dell'altro che cadde e morì invocando il nome della madre. Era stata però tale l'irruenza della collera, tale il desiderio della vendetta, tale lo esaurimento prodotto dall'istessa agitazione e dall'offeso amor proprio, ovvero tale la soddisfazione di aver compito la vendetta, che il Crocco poco dopo si addormentò nel bosco non lungi dal cadavere ancora caldo del compagno.

Fu un sonno abbastanza lungo (epilettico?) da cui si destò per preoccuparsi della sua condizione. Risolse non presentarsi al Reggimento e disertare. Così fece ed, aiutato da alcuni barcaioli, raggiunse dopo lunga e difficile peregrinazione le sue desiderate campagne. Quivi visse da latitante ma non ancora da vero brigante, sino a che scoppiò la rivoluzione. Egli aiutò i liberali, sperando di ottenere l'impunità dell'omicidio commesso, ma un prefetto, venuto dal Piemonte a Potenza, attaccato alla legge, dopo il 1860 lo fece imprigionare.

Crocco, offeso e vistosi a mal partito, ruppe risoluto ed ardito i cancelli del carcere e scappò.

Di qui comincia veramente la sua vita da brigante e di capo masnada, perché trovava una quantità innumerevole di soldati del vecchio e debellato esercito borbonico, e datosi anche, per cercar vendetta contro i liberali, al partito reazionario che lo incoraggiò e di cui doveva divenire un puntello come tanti altri, anche in buona fede armò la sua banda e commise mille delitti: saccheggi di città, incendi, omicidi, su quelli specialmente che lo avevano tradito, ricatti, estorsioni etc.

Andò peregrinando, fiero del suo esercito, ribelle, libero del suo libido, nella più solenne esplicazione della sua vigoria, della sua natura forte e violenta, seminando la paura, il terrore, gli spasimi, per una buona parte del mezzogiorno continentale e degli stati romani: tenne a freno però briganti e sottocapi-banda bestiali, ferini, e trattò a tu per tu coi generali italiani.

Eppure in mezzo a questo apparente deserto di affettività e di sentimenti, in mezzo alle rovine e alle devastazioni che produceva, quanti atti nobili e generosi! Prima che qualcuno si fosse arruolato tra i suoi briganti, ne scrutava la vita, l'animo: lo prendeva se era fermamente deciso e se doveva vendicarsi di qualche ingiustizia, lo mandava via se era un imbelle, non avesse nulla da vendicare o fosse spinto da solo puerile capriccio.

Voleva e imponeva che fossero rispettate le donne oneste, maritate o zitelle; che non si facesse male oltre il necessario e non si eccedesse nella misura della vendetta per compiere la quale era inesorabile: a molte giovani che non avevano come maritarsi regalò denaro; a dei poveri contadini comprò armenti ed utensili di lavoro.

Da giovinetto per una malattia acuta sopraggiuntagli fu colto e curato amorevolmente in casa di una famiglia signorile, cui era andato a portare del formaggio. Serbò forte gratitudine e vera amicizia affettuosa per essa.

Un ragazzo, figlio dei due genitori che l'avevano curato, cadde nelle mani di Ninco-Nanco, sottocapo, arruolato nelle sue bande; egli lo seppe, si recò da lui, gli impose di cederglielo: al rifiuto spianò il fucile per uccidere il restio e l'avrebbe fatto, se i suoi militi non avessero circondato e afferrato Ninco-Nanco e strapparli il ragazzo. Crocco con una scorta dei suoi lo mandò ai genitori che già disperatamente lo piangevano perduto, e fece dire loro che egli aveva colta quell'occasione per mostrare la sua gratitudine.

Una coppia di novelli sposi passava in carrozza circondata da otto guardiani armati, in mezzo alla campagna da lui tenuta: Crocco intimò la resa, i guardiani fecero fuoco senza colpire nessuno, la vergogna e la morte forse anche dei poveri sposi era sicura. Di un tratto la giovane balzo dalla carrozza e chiamò Crocco, questi impavido accorse e allora la coraggiosa donna gli disse: non mi riconosci? Non mi ricordi bambina in casa del padre e della madre mia che erano amici della tua famiglia? Mi ricordo ora, disse Crocco, mi ricordo che mi volevano bene e che debbo rendervi adesso quello che loro mi fecero allora: moltate in carrozza e proseguite il vostro viaggio. La vostra scorta sicura sarà formata da me e dai miei, sino alla nuova vostra destinazione. Questi imbelli guardiani che non conoscono il dover loro vadano via, ma lascino qui le armi di cui non sanno fare uso.

E così fu. I due sposi, indisturbati, compirono il loro viaggio di nozze e furono grati a Crocco della vita.

Furono questi alcuni degli atti nobili compiuti da Crocco, che lo resero tra gli umili ed i poveri popolare e beneamato, che gli crearono un'aureola come a quasi tutti i grandi briganti - e sono questi atti tutti che ce lo rivelano nella sua vera natura di delinquente primitivo, capace in verità di grandi reati, ma anche di generosità, di sentimenti nobili, di belle azioni.

La sua carriera criminale fu una fatalità del caso e, più che della volontà di lui, la conseguenza della scrupolosa e severa applicazione della legge fatta dal prefetto di Potenza di allora, nonché della reazione clericale-borbonica; altrimenti con la sua franchezza, col suo coraggio impavido e la suggestione che esercitava sulle masse, egli, par poco che lo si fosse lusingato nel suo amor proprio, sarebbe potuto riuscire benissimo un utile fattore della rivoluzione.

Dopo questi esempi non voglio aggiungerne altri pur avendone ancora moltissimi. Solo riferirò un ultimo, perché esso chiaramente mostra che se alle volte la pazzia degli ascendenti può essere il lievito che fa fermentare le latenti tendenze, della famiglia o dello strato sociale val altra, invece, quando appare nell'individuo stesso, esercita un'azione più immediata, diretta e risolutiva da rendere, per es. sommamente efficaci ed attive sino a reati atrocissimi le superstizioni volgari e primitive, che diversamente sarebbero rimaste inoffensive.



Dott. Pasquale Penta

Napoli, 1901.

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Il brigante traditore
Massimo Lunardelli - Martedì, 04 Novembre 2008 16:16:03
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di Costantino Conte

A giudizio di Nitti le masse meridionali nella seconda metà dell'Ottocento hanno avuto due sole possibilità per sfuggire alla "miseria crudele" che la opprimeva: prima il brigantaggio e poi l'emigrazione.
Che quest'assunto fosse fondato lo dimostrano anche i dati relativi alla partecipazione dei contadini atellani a quei due complessi fenomeni.
Il brigantaggio ha interessato per quasi tutto il decennio post-unitario Atella.
Basti pensare che un centinaio furono gli atellani convolti nelle "reazioni" della primavera 1861, che fino all'estate del 1863 quattro briganti atellani erano morti in carcere e dodici erano stati fucilati; che trentotto furono le vittime del brigantaggio nel territorio comunale tra la primavera del 1861 e quella del 1863.


Di Atella era Giuseppe Caruso che, dopo essere stato brigante, si consegnò alle autorità nel 1863 e diede un contributo notevole alla repressione del brigantaggio nel melfese.
Per capire il fenomeno del brigantaggio post-unitario val la pena di tener presente che, nonostante la "insurrezione lucana" dell'agosto 1860, alla quale parteciparono anche alcuni atellani, il trapasso dal regime borbonico a quello unitario venne mal digerito da una parte della borghesia cittadina, che ebbe paura di perdere i privilegi dei quali godeva.
Per questo ai primi di ottobre del 1860, ancorché nel Plebiscito l'elettorato atellano si espremesse unanimemente per l'annessione al Regno d'Italia, si verificarono ad Atella " serii disturbi " sottovalutati dalle autorità. Esse sottovalutarono anche l'arresto ai primi di febbraio del 1861 di tre individui che nelle vicinanze della cittadina assoldavano uomini per conto di Crocco.
Ciò fece sì che gli esponenti filoborbonici potessero operare indisturbati in paese e potessero fare del convento di S. Maria degli Angeli la "centrale operativa" del movimento legittimista del melfese. Proprio qui, infatti il 4 aprile 1861 Crocco incontrò un "francese", un "capitano napolitano ed un tenente siciliano" con i quali preparò il piano delle "reazioni" scoppiate il 7 aprile.
Ad esse parteciparono molti contadini atellani nella speranza di sfuggire alle misere condizioni di vita cui erano costretti. Secondo le testimonianze, infatti, il loro apporto divenne ancor più consistente dopo che l'8 aprile alcuni atellani "ritornarono da Ripacandida … con molto oro, e diversi oggetti, che mostrarono al pubblìco".


La convergenza tra la paura dei galantuomini nei confronti della possibile introduzione di un nuovo sistema sociale, non più fondato sui principi di tipo parafeudale fino allora invalsi, e la volontà dei contadini di migliorare la propria vita è alla base, quindi, di quel fenomeno che va sotto il nome di brigantaggio.
Il 12 aprile, mentre le bande di Crocco avevano già preso Ripacandida, Ginestra e Venosa; mentre Melfi, Rapolla e Barile erano insorte; mentre a Rionero da un paio di giorni i 600 uomini della Guardia Nazionale di S. Fele, Ruoti, Avigliano, Muro Lucano, Bella ed de1 Battaglione Lucano aspettavano invano istruzioni per contrastare i briganti, ad Atella si diffuse la voce che l'indomani le guardie (o i rioneresi, a seconda delle versioni) avrebbero saccheggiato e disarmato il paese, disonorando le famiglie.
Per tutta la notte in diversi punti della cittadina gruppi di uomini armati vegliarono su consiglio del sindaco Antonio De Martinis, che il giorno successivo risulterà ammalato, pronti ad opporsi alle violenze annunciate.
Quando, poi, la mattina del 13 aprile i vari reparti, di ritorno nei loro paese, attraversarono la cittadina, furono accolti dalle fucilate provenienti dalle case poste lungo il percorso.

Francesco Stia, capitano della Guardia Nazionale di S. Fele, nel rapporto al Governatore scriverà il 4 maggio che "mentre credevamo penetrare in paese amico, vi trovammo dapprima un silenzio di tomba, e poscia il più vigliacco e sfacciato tradimento per lo preconcetto disegno di sacrificare i valorosi accorsi in loro soccorso, e specialmente la mia colonna, la quale appena ebbe messo piede nel paese servì di bersaglio alle fucilate di quei traditori Atellani, che da tutt'i vani delle loro case facevan fuoco sui nazionali sicchè ebbi a deplorare due morti, e sette feriti. Mi fu detto in seguito... che ciò succedeva con maggiore accanimento delle case de' signori Saraceno e Martino".
Si venne a sapere più tardi che le fucilate provenivano dalle case di "Gerardo Contristanto, di Giuseppe Caruso, … "
Nell'agguato rimane ferito tra gli altri Leonardo Del Priore.
In proposito sia Caruso che Basilide Del Zio sostennero, invece, che in quell'occasione Del Priore morì. Caruso, anzi, affermò di essere stato "per odio di nemico nascosto"accusato di quell'omicidio. Proprio per evitare un'accusa infondata (" ho potuto provare - disse - che nel momento dell'eccidio, io mi trovavo presso il mio padrone Signor Mauro Saraceno: cento persone. per bene, facendosi garanti di me, dichiararono che io era incapace di commettere quel reato...") ed i rigori della legge si unì a Crocco, dopo essersi per qualche tempo rifugiato a Bucito.

Ebbene, non soltanto Del Priore morì ai primi di dicembre del 1861; ma, a proposito della scelta brigantesca di Caruso, il Sindaco di Atella del 1865 scrisse che il nostro seguì Crocco perchè costrettovi dalle minacce "mentre faceva da guardiano nel bosco Bucito".

Quanto, poi, all'essere incapace di commettere reati, Caruso [Carusobis] fu feroce quanto, e forse più di altri briganti: Crocco lo riteneva responsabile di ben 124 omicidi e perfino Del Zio, che pure contribuì ad accreditare la tesi dell'accusa ingiusta, lo definì uno dei più sanguinari membri della banda Crocco.

Non solo. Se in passato si credeva che fosse stato il generale Pallavicini il primo a servirsi di Caruso nella persecuzione dei briganti, già nel febbraio dèl 1864 un capitano dei carabinieri De Vivo aveva impiegato Caruso, presentatosi ai soldati da soli 5 mesi, come guida di un reparto che a Bucito sorprese e per poco non catturò Crocco e Tortora.

Il fatto è che Caruso fu e rimase fino in fondo una pedina nel gioco - il brigantaggio appunto - che i notabili della zona, sfruttando le tensioni sociali esistenti, la miseria ed i rapporti di forte soggezione e dipendenza personale esistenti nelle nostre campagne, inscenarono per evitare che le proprie posizioni di privilegio fossero tra.volte dal rimescolamento di carte, più formale che sostanziale, prodotto dell'Unità d'Italia.

In sostanza, Caruso assunse vesti diverse in relazione al calcolo dei suoi padroni/padrini, che furono gli unici a trar profitto da tutto ciò che avvenne in quegli anni.
Per i contadini, che per la prima volta entrarono nella storia da protagonisti - evento di per sé rilevantissimo - senza però potervi incidere in profondità, nulla cambiò né dopo l'Unità né dopo il brigantaggio. Infatti, un numero considerevole di essi fu costretto, soprattutto quando si fecero evidenti i segni della crisi agraria degli anni ottanta, a cercare migliore fortuna nelle Americhe.
Caruso invece, esauritosi il fenomeno brigantaggio e rimosso con un'accurata operazione di maquillage - iniziata a ben vedere sin dall'inizio sol che si pensi alle "cento persone perbene" pronte a testimoniare per lui - il "passato poco onorevole", venne premiato con un lavoro stabile. Dietro raccomandazione del generale Pallavicini venne, infatti, assunto alle dipendenze della società proprietaria del bosco di Monticchio.

1 commento:

Anonimo ha detto...

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