sabato 5 giugno 2010

IL NAZIONALISMO DELLA SINISTRA ITALIANA

Salvatore Lo Leggio

La sinistra e la nazione. Che fare? In dialogo con Pietro Ancona

Non ho la gioia di conoscere di persona il compagno Pietro Ancona, so che come me proviene dall’Agrigentino e apprezzo molte delle cose che scrive nel blog che cura e che ha titolato con doloroso acume “Medioevo sociale”. Mi scuserà pertanto se in questo intervento manifesterò anche nei suoi confronti taluna delle mie pignolerie da insegnante in pensione. E’ un difetto che di quando in quando mia figlia mi fa notare (“ma perché fai sempre il prof?”), ma che forse è incorreggibile.

Entro subito nel merito: un recente intervento di Ancona, dal titolo Nazionalismo della "sinistra" italiana, mi pare dettato più dal rancore (giustificatissimo ma sterile) che dal rigore; la linea di meridionalismo che ne risulta è, di fronte all’aggressività del leghismo, sbagliata e perdente.
Ancona comincia con: “La sinistra italiana è sempre stata patriottica e nazionalista”. Quel “sempre”, a mio parere, non ha fondamento.
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La nascita delle nazioni
Partiamo da lontano, dagli uomini della sinistra risorgimentale. Non potevano non essere patriottici, erano loro i padri della patria e, per di più, la loro retorica nazionale si edificava su una storia fantasticata più che studiata. Basta leggere con senso critico l’inno di Mameli per accorgersene: mette indiscriminatamente insieme l’elmo di Scipione e Ferruccio Ferrucci, Legnano, Balilla e i Vespri siciliani. E’ un tipico procedimento esaminato dagli antropologi quello di fondare il futuro su un passato favoleggiato (il siciliano Cocchiara ne fornisce molti esempi quando, nel fondamentale Il mondo alla rovescia, studia i miti millenaristici). Gli storici più acuti (per tutti si veda Nazioni e nazionalismo di Hobsbawm) lo vedono all’opera anche nell’invenzione delle nazioni, che hanno sempre bisogno di “miti”, di un passato di gloria e di potenza da vivificare. Non è un caso che, perfino in quelle terre d’Africa ove prima del colonialismo non c’era nulla che ricordasse l’organizzazione statuale, la nascita delle nazioni in chiave anticoloniale favorisca la diffusione di leggende su antichi, favolosi regni. Nel Vecchio mondo, pertanto, quasi mai si parla di nascita della nazione, semmai di “rinascita”, “resurrezione”, “risorgimento” e simili. Nazioni nuove possono nascere solo nel Nuovo Mondo. C’è un film di Griffith che s’intitola Nascita di una nazione e parla degli Stati Uniti d’America: in verità vi si racconta con toni elegiaci la sconfitta del Sud. Ma c’è nella grande nazione un altro, più potente, mito di fondazione, quello della frontiera, e pertanto i suoi cineasti, veri e propri aedi, non senza un barlume di pietà per i vinti (Toro Seduto come Ettore), preferiscono cantare in centinaia di film l’epopea del West.
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Ma Garibaldi era nazionalista?
Ma, i padri della “patria”, gl’inventori della “nazione italiana” erano nazionalisti? In senso proprio e stretto non direi.
Mazzini, per esempio, fin da principio, affianca alla “Giovane Italia” la “Giovane Europa” e spera che, insieme alla nuova Italia democratica, si costituiscano in repubblica altre nazioni in tutto il continente.
Garibaldi, poi, è dichiaratamente internazionalista e dichiara di esserlo stato assai prima che l’Internazionale venisse fondata (“Io appartenevo all’Internazionale quando servivo la Repubblica del Rio grande e di Montevideo, cioè molto prima che venisse costituita in Europa tale società”). La sua adesione all’Internazionale non si basa sul rifiuto della proprietà o dell’eredità che considera “massime inaccettabili”, ma sui quattro punti che espone all’inglese Arnold: “ 1. Il suo titolo non deve fare punto differenza tra l’Africano e l’Americano, fra l’Europeo e l’Asiatico, e perciò proclama la fratellanza degli uomini, a qualunque nazione appartengano; 2. l’Internazionale non vuole preti né, per conseguenza, menzogna; 3. non vuole eserciti permanenti a perpetuare la guerra, ma una milizia cittadina a mantenere l’ordine; 4. Vuole il governo amministrativo della Comune…”.
Si può ragionevolmente dubitare delle qualità politiche di Garibaldi, imputargli errori e cedimenti che assegnarono alla parte monarchica e moderata l’egemonia nel processo unitario; ma è esagerato definire nazionalista uno che guida un esercito volontario internazionale, che porta italiani e slavi a difendere la repubblica nella Francia del 1871 e che a Lincoln che gli chiede di guidare l’esercito unionista risponde sì, ma a condizione che il presidente Usa dichiari che la guerra è per l’abolizione della schiavitù e non solo per la sottomissione degli stati del Sud secessionisti”.
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I confini scellerati
Andiamo avanti nel tempo. Era nazionalista il movimento operaio socialista? Credo proprio di no. Credo anzi che nella sua parte preponderante si muovesse sulla linea dell’internazionalismo marxiano, per il quale “gli operai non hanno patria”. Mi riferisco non tanto ai massimalisti, ma soprattutto agli esecrati riformisti, che erano in genere internazionalisti senza sbavature. L’Inno di Turati, quello che continuiamo a cantare il primo maggio, in una delle sue strofe fa così:“I confini scellerati / cancelliam dagli emisferi; / i nemici, gli stranieri / non son lungi ma son qui”.
E’ vero peraltro che anche il Partito socialista passò attraverso la “nazionalizzazione del movimento operaio” iniziata dalla socialdemocrazia tedesca e che taluni suoi esponenti di spicco (più della sinistra che della destra interna) si convertirono in tempi diversi al colonialismo e al nazionalismo (uno di loro divenne addirittura “duce del fascismo”); ma è altrettanto vero che nel “radioso maggio” del 1915 i socialisti italiani manifestavano per la pace e che dopo, pur non scegliendo la linea del sabotaggio attivo, i deputati socialisti non votarono i crediti di guerra, a differenza di quanto avevano fatto il partito francese o quello tedesco per affermare il loro carattere “nazionale”. In Germania addirittura i socialisti si divisero in maniera paradossale: i più con l’“ortodosso” Kautsky favorevole alla guerra, in minoranza i pacifisti, con il “revisionista” Bernstein accanto alla rivoluzionaria Rosa Luxemburg.
Si comprende perché nel dopoguerra italiano i fascisti e i nazionalisti (quelli veri, cioè di destra) si scaglino con virulenza contro i socialisti e i neonati comunisti, nemici della guerra e della patria, mutilatori della vittoria.
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La via nazionale del Pci
Per vedere in Italia una sinistra che riabiliti il principio nazionale bisognerà attendere la Resistenza, quando il Pci (assai meno il Psi) recupera il patriottismo risorgimentale in funzione antitedesca. Addirittura i comunisti chiamano “Garibaldi” le brigate partigiane combattenti organizzate sulle montagne e fanno cantare l’antico inno delle camicie rosse:“Va fuori d’Italia…”.
A dare una sistemazione teorica alla cosa è Togliatti, con la svolta di Salerno. Applica “creativamente” la linea di Stalin, che aveva promosso lo scioglimento dell’Internazionale ed indicato ai comunisti e alla classe operaia il compito di “sollevare le bandiere buttate nel fango dalla borghesia”, le bandiere della libertà e dell’indipendenza nazionale. Il “nazionalismo” di Togliatti, di Berti e di molti capi del Pci (l’unica eccezione importante è Terracini) di patrie ne prevedeva due, quella italiana e quella sovietica, ed al dilemma mussoliniano “O Roma o Mosca” sostituiva l’accoppiata “Mosca e Roma”. Nei loro canti i comunisti buttavano loro nel fango la bandiera nera (simbolo della galera), la bandiera bianca (simbolo dell’ignoranza) e, a volte, perfino quella rosa (simbolo di chi riposa), ma nel contrassegno elettorale la falce e martello campeggiava su “due bandiere sovrapposte”, la rossa quasi identica a quella della patria sovietica e la tricolore, di cui si scorgeva un lembo. La “via italiana al socialismo” dell’VIII Congresso (1956) supera la “doppiezza” tra via parlamentare e via insurrezionale, ma sul carattere nazionale del partito non presenta particolari novità.
Su questo punto il compagno Ancona ha pienamente ragione. L’impostazione del Pci negli anni 50 restringe l’orizzonte internazionalista del marxismo: alla classe operaia non si assegna più il ruolo di “classe generale” che “liberando sé stessa libera l’umanità”, ma una più modesta “funzione nazionale”. In questa logica essa si sarebbe dovuta opporre agli egoismi della borghesia industriale monopolistica del nord e del latifondo meridionale e, in generale, delle classi privilegiate, indicando una prospettiva di salvezza e di sviluppo per tutte le categorie produttive. La via nazionale, insomma, è un altro nome della “politica delle alleanze”.
Non so se sia “nazionalismo” la parola giusta per indicare questo atteggiamento. Di solito il lemma indica un ruolo speciale assegnato alla propria nazione nel mondo, un ruolo che giustifica progetti imperiali o quanto meno egemonici. Nella sinistra italiana di tutto ciò non c’è traccia, mentre comincia invece ad esserci quello che chiamerei il “feticcio dell’unità nazionale”.
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Sicilianismo e milazzismo
In Sicilia talora l’italianità si stempera e l’autonomismo si sposa con qualche nostalgia per un’altra nazione, quella siciliana appunto: al Blocco del Popolo prima e poi al Pci del resto aveva aderito Nino Varvaro, uno dei leader della sinistra separatista siciliana.
Sul finire dei 50 Macaluso parla di “unità delle forze autonomiste” contro i monopoli continentali per giustificare il sostegno al governo Milazzo e in molti comunisti dell’isola si risentono toni “sicilianisti”. A sostenere la svolta ci sono Mimì La Cavera, artefice di una scissione in Confindustria (Sicindustria) e l’avvocato Guarrasi, da molti indicato come “la testa del serpente”. Sul tema del sicilianismo io la penso esattamente come Mario Mineo (vedi il documento costitutivo del Centro d’Iniziativa Comunista sul finire del 1970): “… alla borghesia siciliana (come, a suo tempo, ai baroni) il sicilianismo è servito per rivendicare la propria “autonomia” – il proprio diritto cioè di esercitare nei modi tradizionali il potere locale, nei rapporti con il potere centrale, e nei rapporti con le masse soggette, per mantenere il proprio prestigio, scaricando sul potere centrale le responsabilità del malgoverno ed atteggiandosi a protettrice degli interessi e delle tradizioni isolane. In questo senso, si può dire che il sicilianismo è, in ultima analisi l’ideologia della mafia, se per mafia si intende, come deve intendersi , la forma specifica, la genesi e il modo di essere specifico della borghesia siciliana”.
A questo ragionamento non deve essere rimasto insensibile Achille Occhetto, il segretario regionale che, a partire dal 1972, rinverdì “l’unità autonomistica”: ci tenne a spiegare che l’autonomia è cosa diversa dal “sicilianismo” perché si rivolge anche contro i “nemici interni” e non solo contro i “nemici esterni”.
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Unità e solidarietà nazionale
Gli anni settanta sono quelli in cui “l’unità nazionale” e la connessa “solidarietà nazionale” entrano massicciamente nel linguaggio e nella prospettiva politica del Pci. Ancona ricorda i comizi di Berti degli anni cinquanta, io ne ricordo negli anni settanta un paio di Amendola (a Gela e a Palermo) e qualcuno di Napoleone Colajanni, che a volte lo imitava nelle perorazioni finali. La conclusione era spesso un riferimento alla doppia bandiera, soprattutto al tricolore, sugellato dalla frase “viva l’Italia”, con l’aggiunta di “democratica e antifascista”, onde evitare confusioni con Almirante e i neofascisti.
La solidarietà nazionale di cui allora il Pci parlava riguardava le classi sociali (di cui tutti, perfino la Dc interclassista, riconoscevano l’esistenza e la fungibilità politica) e non il territorio della Repubblica, la cui unità nessuno metteva in discussione. Il Pci non si preoccupava pertanto di secessioni che non erano affatto all’orizzonte, ma piuttosto proponeva di sospendere la lotta di classe e la conflittualità sociale di fronte a pericoli che, a sentire i suoi dirigenti, minacciavano l’intera nazione: essi mettevano sul piatto la loro “responsabilità nazionale” e i “sacrifici” dei lavoratori per combattere il golpismo stragista, il terrorismo e la crisi economica. In questo modo si offrivano come forza di governo. E’ noto che l’uccisione di Moro mise termine a quella politica e che il Pci non riuscì a “portare la classe operaia alla guida del Paese”. Il leader del Pci, Enrico Berlinguer, approdò alle posizioni prima respinte come gruppettare o radicali, quelle dell’alternativa alla Dc.
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Anni settanta
Gli anni settanta comportarono dunque un fallimento della sinistra o quanto meno di quella sinistra? Sul piano strettamente politico sì, ma sul piano di cui Ancona parla, quello di un “welfare che garantiva a tutti diritti e spesso benessere e sicurezza”, furono quelli i “migliori anni della nostra vita”: fu allora che quel welfare arrivò davvero, prima non c’era.
Riprendo dal libretto di Giovanni Moro (Anni settanta), per me assai lucido, una lista di riforme conquistate negli anni che vanno dall’autunno caldo del 69 alla marcia dei quarantamila dell’ottobre dell’80, che segnò la dura sconfitta dell’avanguardia operaia di quel tempo, i lavoratori della Fiat di Torino: “Si tratta di riforme con uno spettro molto ampio delle quali, peraltro, non è facile trovare un elenco completo. Erano relative al sistema del welfare (sanità, psichiatria, interruzione della gravidanza, istituzione dei consultori familiari, equo canone per le case in affitto), ai diritti dei lavoratori (statuto dei lavoratori, gabbie salariali, regole della contrattazione collettiva, costituzionalità dello sciopero politico, corsi di formazione delle 150 ore); ai diritti di proprietà (fondi rustici); ai diritti civili (obiezione di coscienza al servizio di leva e istituzione del servizio civile, divorzio, diritto di famiglia, sistema carcerario); ai diritti politici (referendum abrogativi, finanziamento pubblico dei partiti, organi collegiali nelle scuole e nelle università, voto ai diciottenni); all’assetto dello stato (istituzione delle regioni, creazione del ministero dei beni culturali e ambientali, creazione delle istituzioni del decentramento amministrativo, riforma dei servizi segreti e delle forze armate, riforma della televisione di Stato); all’ambiente e al territorio (sentenze sull’inquinamento, norme sull’edificabilità dei suoli, sull’aria, sulla difesa del suolo, sull’acqua)”. Moro peraltro omette quella che non fu una riforma, ma un accordo sindacale, e che è per me, veteroclassista e salarialista come il Foa o il Garavini di quegli anni, la cosa più importante: il punto unico di scala mobile. Queste riforme furono anche conseguenza di un amplissimo movimento di base che percorreva fabbriche, scuole, uffici e caserme, Nord, Sud e Isole.
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Il sacrificio del Sud
Lo stato sociale, dunque, arriva in Italia assai tardi e porta assai visibile il segno del movimento operaio: le pensioni ai contadini e alle casalinghe sono affidate all’Inps e pagate in primo luogo con le contribuzioni che vengono dal lavoro operaio. Queste precisazioni sui tempi danno ancora un volta ragione al compagno Ancona, forse più di quanto lui stesso non creda. Per gran parte degli anni sessanta del Novecento il welfare e la coesione sociale di cui lui scrive non c’erano; c’era invece la massiccia emigrazione che spopolava il Sud delle energie più vive. Il Meridione e le Isole erano usati come riserva di manodopera e mercato di sbocco, neanche fossero colonie. Insomma voglio dire che i meridionali sono in credito con lo Stato nazionale non solo per ciò che accadde nell’Ottocento monarchico, ma anche per quanto è accaduto nell’Italia repubblicana e democristiana.
In questa luce è giusto recuperare la lettura gramsciana del Risorgimento come conquista regia e come rivoluzione agraria mancata e riaprire anche le pagine del decennio 1860-1870, ma senza smarrire il senso della distinzione. Nel Meridione d’Italia quello che fu chiamato brigantaggio fu una guerra e una guerriglia di resistenza da parte delle popolazioni; quello che fu chiamato repressione del brigantaggio fu guerra di conquista. L’esercito piemontese compì nel Sud d’Italia deportazioni e massacri simili a quelli degli israeliani contro i palestinesi e rappresaglie paragonabili alla strage di Marzabotto; ma è innegabile, d’altra parte, che ad egemonizzare la resistenza del Sud fossero sanfedisti e legittimisti. Non voglio qui sminuire la lotta dei vinti né giustificare la barbarie dei vincitori, solo dire che quei capi contadini chiamati briganti, quei preti che li appoggiavano, quei cafoni che li seguivano non erano portatori di un progetto di liberazione e di progresso, ma piuttosto gli eredi delle armate cardinale Ruffo che impiccarono “donna Lionora” nella piazza del mercato, quando nel 1799 cadde la Repubblica giacobina e borghese.
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La specificità siciliana
In Sicilia le cose non andarono allo stesso modo, anche per la diversa situazione storica. Il Borbone per i cafoni della bassa Italia era il Re, per i villani siciliani era il Re di Napoli. Anche per questo i “picciotti” che ingrossarono la spedizione dei Mille non venivano solo dalla borghesia o dall’aristocrazia liberaleggiante, ma anche e soprattutto dal mondo contadino. Nell’episodio di Bronte, anche nell’analisi della trasfigurazione letteraria che ne fece Verga, si è molto spesso sottolineata la violenza della rivolta o la durezza della repressione; la cosa più importante è invece la speranza che l’arrivo di Garibaldi suscita e il significato che acquista per i contadini la parola “libertà”, inscindibile dalla parola “terra”, come nel film di Ken Loach. Poi arriva Bixio e i garibaldini scelgono l’ordine dei ceti proprietari invece della libertà dei villani.
Ciò nonostante l’unica rivolta che in Sicilia si svolge nel decennio 1860-1870, quella del Sette e Mezzo nel 1866, non ha i caratteri sanfedisti del cosiddetto “brigantaggio” meridionale, ma conserva connotazioni garibaldine, “di sinistra”. A spogliare la Sicilia, impadronendosi di usi civici, terre demaniali e beni ecclesiastici, del resto non sono i piemontesi, ma la “borghesia mafiosa”, i Sedara del Gattopardo, una borghesia violenta e famelica che perpetua il peggio del latifondismo baronale e succhia il sangue ai contadini mentre sventola il tricolore. Ma, ancora nel movimento dei Fasci dei primi anni Novanta del diciannovesimo secolo, non mancherà chi si richiamerà all’esperienza garibaldina.
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I socialisti e la questione meridionale
In ogni caso è vero che tra le stesse classi subalterne del Nord e del Sud si determina un distacco cui neppure il socialismo del primo Novecento si sottrae. Un meridionalista democratico che aveva simpatizzato per il partito socialista, come Gaetano Salvemini, se ne allontana quando nel dialogo tra Giolitti e Turati intravede un “blocco corporativo” tra gli operai e gl’industriali del “triangolo” Milano-Torino-Genova, in funzione anticontadina e antimeridionale.
La svolta nell’approccio del movimento operaio alla questione meridionale si ha solo con il Gramsci dell’“Ordine nuovo”. Essa culmina con l’analisi delle classi nella società italiana, appena abbozzata ma sostanzialmente corretta, che sostanzia le tesi di Lione del PcdI nel 1926.
L’impostazione gramsciana rompe con l’impostazione sostanzialmente razzista che era circolata anche all’interno del socialismo riformista. Rileggiamone un passo, ché fa sempre bene: “E’ noto quale ideologia sia stata diffusa in forma capillare dai propagandisti della borghesia nelle massse del Settentrione: il Mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile d’Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato la colpa non è del sistema capitalistico o di qualche altra causa storica, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari, temperando questa sorte matrigna con la esplosione puramente individuale di grandi geni, che sono come le solitarie palme in un arido e sterile deserto. Il partito socialista fu in gran parte il veicolo di questa ideologia borghese nel proletariato settentrionale”.
Per Gramsci il modello di sviluppo dualistico che caratterizza l’Italia ha altre ragioni: non l’azione cieca delle leggi del mercato, ma l’azione politica delle classi dominanti nello Stato unitario e peculiarmente l’alleanza suggellata dal patto protezionistico del 1887, quello che sancisce il blocco storico tra industriali del Nord e agrari del Sud e delle Isole, l’asse che determina la composizione e l’orientamento dei gruppi dirigenti fino a tutto il periodo fascista.
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Leggende contrapposte
Forse è qui il caso di fare il punto su una questione storiografica che continua ad essere sullo sfondo di molte polemiche attuali. Essa è rappresentata da un paio di domande. Qual era la condizione economica del Sud rispetto al resto d’Italia al momento dell’unità? Dall’unità il Sud guadagnò o perse?
Credo che la leggenda di un Mezzogiorno caratterizzato da un “ritardo storico”, indiscriminatamente e assolutamente feudale, propagandata dai “nordisti”, sia altrettanto falsa di quella di un Sud d’Italia industrialmente avanzato raccontato dalla pamphlettistica filoborbonica o di una ricca Sicilia navale, vinicola, granaria e zolfifera inventata dal sicilianismo mafioso.
Gli studiosi più avvertiti della più aggiornata storiografia economica ci dicono che nel 1861 l’Italia è arretrata al Sud come al Nord, che piccoli e rari poli di sviluppo capitalistico si trovano sia al Sud che al Nord, nell’agricoltura come nell’industria, e che se proprio si dovesse assegnare la palma del sottosviluppo essa andrebbe al Centro, all’immobilità clericale e feudale dei domini del Papa.
La stessa storiografia ci dice peraltro che le condizioni economiche del Sud, di tutto il Sud, peggiorarono con l’unità, perché ad esso fu sottratta, soprattutto attraverso la politica fiscale, una grande quantità di capitali che finanziarono l’infrastrutturazione e lo sviluppo capitalistico del Nord.
Ma dall’arretratezza del Sud non guadagnano solo i capitalisti del Nordovest (il Veneto è altra cosa), ma anche gli agrari e i ceti parassitari del Mezzogiorno che fondano il proprio potere economico proprio sull’arretratezza. Tutto ciò sembra confermare l’approccio classista di Gramsci contro l’interclassismo del vecchio meridionalismo: non c’è un Settentrione sfruttatore e un Mazzogiorno sfruttato, ma ci sono sfruttatori e sfruttati sia al Nord che al Sud e il dualismo economico è funzionale al blocco storico dominante.
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Il Pci, la nazione, il welfare
Il secondo dopoguerra vedrà, almeno in parte, colmata la distanza tra sfruttati del Nord e del Sud. Merito di comunisti e socialisti che riescono ad organizzare la parte più combattiva delle masse sfruttate in tutto il paese: i contadini delle campagne del Sud che lottano per la terra contro il latifondo, i muratori e gli operai delle città meridionali che cercano lavoro, i mezzadri del centro Italia che respingono gli antichi patti agrari di stampo feudale, gli operai del triangolo i cui salari e diritti sono, al tempo della ricostruzione postbellica, fortemente compressi.
E tuttavia il dualismo economico permane nell’Italia repubblicana ed è ancora il Sud a pagare, come ho già detto, il prezzo del boom degli anni cinquanta e sessanta. Ha ragione Ancona: è lo stato sociale a garantire la tenuta unitaria, anche territoriale, della Repubblica. E lo stato sociale, in Italia, costruito come si è visto soprattutto negli anni Settanta, è prodotto da diverse spinte: le lotte operaie, sindacali e sociali; il Pci, partito nazionale, non tanto per il richiamo al Risorgimento, ma per la formazione politico-culturale dei suoi quadri di ogni latitudine; l’altro partito nazione, la Dc, che nel welfare introduce una peculiare impronta familistica e clientelare.
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Dopo l’89
Il passaggio dell’89 vede il crollo del progetto comunista del XX secolo così profondamente segnato dallo stalinismo. In Italia crolla il sistema politico della cosiddetta Prima repubblica e tre fenomeni politici sembrano accompagnare i nuovi assetti.
Primo: la “pancia” del paese, rappresentata dai gruppi privilegiati di ogni tipo (dalle corporazioni professionali ai costruttori, dai manager agli alti burocrati, da proprietari e rentiers di ogni tipo) si libera delle remore democristiane e sceglie una nuova destra, liberista, populista e autoritaria, erede storica del fascismo che si incarna in Berlusconi, trova veicolo nelle sue tv e trascina demagogicamente pezzi importanti di “popolo basso”.
Secondo: il grosso del ceto politico del Pci si produce in una grande operazione trasformistica, abbandonando ogni profilo classista, coniugando liberismo temperato e buonismo valoriale e mischiandosi con i postdemocristiani nella ricerca di consensi in quello che è spregiudicatamente chiamato “mercato politico”. Sul piano elettorale la sua base prevalente è il pubblico impiego.
Terzo: al Nord si afferma un movimento che ha il suo nerbo nella piccola borghesia dei padroncini e dei piccoli professionisti falliti (commercialisti, geometri, ragionieri, avvocati, dentisti). Esso gioca sulle paure connesse alla globalizzazione liberistica e, su basi razzistiche, propaganda un egoismo territoriale che alla fine si incontra con l’egoismo sociale della nuova destra. Come i nazisti nella Germania degli anni trenta, i Leghisti del Nord Italia usano come bersaglio l’opportunismo carrieristico e il vuoto di politica presente nella sinistra, anche estrema, per penetrare tra gli operai e conquistarne l’adesione in nome di una inventatissima “Padania”.
Il risultato di tutto ciò è l’aumento di tutte le disuguaglianze, tra ricchi e poveri, tra padroni e operai, tra redditieri e nullatenenti, tra dirigenti e diretti nel lavoro pubblico, tra Nord e Sud. Il lavoro è stato deregolato e i lavoratori sono stati messi sotto in nome del liberismo; lo stato sociale è in via di smantellamento, l’obiettivo dichiarato del federalismo sono livelli diversi di protezione sociale nelle diverse aree del paese.
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Uno stato del Sud?
Torniamo ad Ancona. Anche lui è “modernista” e rifiuta il concetto di classe o almeno non ne percepisce la fungibilità politica attuale. E sussume la “classe operaia” in un generico “lavoratori”, mentre per la classe dominante parla di ceti. E’ innegabile che la classe operaia è ormai “un volgo disperso che nome non ha” e che ormai, senza autonomia politica e organizzativa, esiste tutt’al più come “classe in sé” e non come “classe per sé”. Ma si può cambiare la situazione senza avviare un processo di ricostruzione?
Entro nel merito. Dire oggi che la Lega e il suo egoismo territoriale oscillante tra secessione e federalismo rappresenti l’eredità delle forze che asservirono il Sud dell’Italia è una lettura un po’ grossolana. Bossi e Calderoli eredi della Destra Storica, il gruppo dirigente più colto e meno corrotto che l’Italia unita abbia avuto? Non ci crederei neanche di fronte a un dettagliatissimo albero genealogico. Il successo della Lega ha altre radici. E’ giusto battersi per un lettura della storia meno pacificata e più veritiera del rapporto Nord-Sud, sia per l’Ottocento che per il Novecento, ma questa battaglia culturale, pur necessaria, non dà di per sé una strategia, una prospettiva credibile. Ancona individua un pilastro da abbattere, il liberismo, ed anche dei nemici da sconfiggere (i ceti privilegiati tradizionale cui giustamente aggiunge una famelica Oligarchia, cioè il ceto politico allargato). Ma non nomina neppure le forze motrici della lotta che propone. Parla di sinistra, ma non s’intende a chi si riferisca. E in ogni modo la sinistra politicamente e sindacalmente attiva, anche usando i criteri più larghi, è oggi poca cosa.
Credo tuttavia di indovinare il non esplicitato: il racconto veridico del Risorgimento dovrebbe, potrebbe mobilitare il popolo meridionale.
Mah! Se raccontiamo che l’Unità d’Italia fu una conquista, che il Sud fu sacrificato e sfruttato, che ci furono carneficine a Forte Fenestrelle e a Pontelandolfo e altrove, può darsi che persino i leghisti e i preti ci diano ragione e dicano che è tutta colpa dei frammassoni senza religione, di Vittorio Emanuele, di Camillo Benso e di Garibaldi che sottomisero il Sud e tradirono il Nord. Ma non cacceranno un euro. E corriamo un rischio anche più grave di trovare a darci ragione Lombardo. O Cuffaro. O anche tutti e due.
Se poi la parola d’ordine diventasse “non siete voi a cacciarci, siamo noi che ce ne andiamo”, potremmo anche vincere, con l’aiuto dei nostri nemici. Ma, una volta indipendenti, che facciamo? Cerchiamo un Borbone in qualche parte del mondo che ci faccia da re? O, con i rapporti sociali oggi vigenti, facciamo del Sud un’Albania, un Montenegro o un altro stato franco delle mafie? Sarebbe una cura peggiore del male. Sul risentimento non si costruisce niente di buono.
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Una sinistra di classe
C’è, per finire, un’altra cosa che non digerisco: dare per persi a una politica di progresso gli operai del Nord, che peraltro stanno soffrendo fortemente la crisi. E’ accaduto loro come agli operai tedeschi negli anni trenta: si sono lasciati sedurre dalle sirene del razzismo e dell’identità, dalla persuasione di essere più protetti nelle mani di Bossi e dei suoi caporali. E’ normale: perdono da vent’anni salario e diritti, oggi stanno perdendo il lavoro. La Lega e la destra offrono sicurezza e vicinanza contro la concorrenza dell’intruso meridionale, non importa di quale meridione, gli altri neppure quello. Ma il tempo della verità potrebbe arrivare presto. Ce la facciamo ad avere per quel momento una buona sinistra? Io, se fossi in buona salute, comincerei dal sindacato. Poi dal “manifesto”. Poi da Vendola. In mancanza comincio da qui. E soprattutto da “micropolis”.
Pubblicato da Salvatore Lo Leggio a 12.26
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Salvatore Lo Leggio
▼ 2010 (426)







Saggi e commenti di politica, letteratura e varia umanità. Ogni domenica un articolo sui fatti della settimana. Ogni lunedì una poesia d'autore. Quasi tutti i giorni pezzi nuovi e pezzi vecchi. Appuntamenti e libri. Borghesi e reazionari, pretonzoli e codini, reggicode e reggisacchi, ruffiani e pecoroni, tremate!
3.6.10
La sinistra e la nazione. Che fare? In dialogo con Pietro Ancona

Non ho la gioia di conoscere di persona il compagno Pietro Ancona, so che come me proviene dall’Agrigentino e apprezzo molte delle cose che scrive nel blog che cura e che ha titolato con doloroso acume “Medioevo sociale”. Mi scuserà pertanto se in questo intervento manifesterò anche nei suoi confronti taluna delle mie pignolerie da insegnante in pensione. E’ un difetto che di quando in quando mia figlia mi fa notare (“ma perché fai sempre il prof?”), ma che forse è incorreggibile.

Entro subito nel merito: un recente intervento di Ancona, dal titolo Nazionalismo della "sinistra" italiana, mi pare dettato più dal rancore (giustificatissimo ma sterile) che dal rigore; la linea di meridionalismo che ne risulta è, di fronte all’aggressività del leghismo, sbagliata e perdente.
D’Ancona comincia con: “La sinistra italiana è sempre stata patriottica e nazionalista”. Quel “sempre”, a mio parere, non ha fondamento.
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La nascita delle nazioni
Partiamo da lontano, dagli uomini della sinistra risorgimentale. Non potevano non essere patriottici, erano loro i padri della patria e, per di più, la loro retorica nazionale si edificava su una storia fantasticata più che studiata. Basta leggere con senso critico l’inno di Mameli per accorgersene: mette indiscriminatamente insieme l’elmo di Scipione e Ferruccio Ferrucci, Legnano, Balilla e i Vespri siciliani. E’ un tipico procedimento esaminato dagli antropologi quello di fondare il futuro su un passato favoleggiato (il siciliano Cocchiara ne fornisce molti esempi quando, nel fondamentale Il mondo alla rovescia, studia i miti millenaristici). Gli storici più acuti (per tutti si veda Nazioni e nazionalismo di Hobsbawm) lo vedono all’opera anche nell’invenzione delle nazioni, che hanno sempre bisogno di “miti”, di un passato di gloria e di potenza da vivificare. Non è un caso che, perfino in quelle terre d’Africa ove prima del colonialismo non c’era nulla che ricordasse l’organizzazione statuale, la nascita delle nazioni in chiave anticoloniale favorisca la diffusione di leggende su antichi, favolosi regni. Nel Vecchio mondo, pertanto, quasi mai si parla di nascita della nazione, semmai di “rinascita”, “resurrezione”, “risorgimento” e simili. Nazioni nuove possono nascere solo nel Nuovo Mondo. C’è un film di Griffith che s’intitola Nascita di una nazione e parla degli Stati Uniti d’America: in verità vi si racconta con toni elegiaci la sconfitta del Sud. Ma c’è nella grande nazione un altro, più potente, mito di fondazione, quello della frontiera, e pertanto i suoi cineasti, veri e propri aedi, non senza un barlume di pietà per i vinti (Toro Seduto come Ettore), preferiscono cantare in centinaia di film l’epopea del West.
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Ma Garibaldi era nazionalista?
Ma, i padri della “patria”, gl’inventori della “nazione italiana” erano nazionalisti? In senso proprio e stretto non direi.
Mazzini, per esempio, fin da principio, affianca alla “Giovane Italia” la “Giovane Europa” e spera che, insieme alla nuova Italia democratica, si costituiscano in repubblica altre nazioni in tutto il continente.
Garibaldi, poi, è dichiaratamente internazionalista e dichiara di esserlo stato assai prima che l’Internazionale venisse fondata (“Io appartenevo all’Internazionale quando servivo la Repubblica del Rio grande e di Montevideo, cioè molto prima che venisse costituita in Europa tale società”). La sua adesione all’Internazionale non si basa sul rifiuto della proprietà o dell’eredità che considera “massime inaccettabili”, ma sui quattro punti che espone all’inglese Arnold: “ 1. Il suo titolo non deve fare punto differenza tra l’Africano e l’Americano, fra l’Europeo e l’Asiatico, e perciò proclama la fratellanza degli uomini, a qualunque nazione appartengano; 2. l’Internazionale non vuole preti né, per conseguenza, menzogna; 3. non vuole eserciti permanenti a perpetuare la guerra, ma una milizia cittadina a mantenere l’ordine; 4. Vuole il governo amministrativo della Comune…”.
Si può ragionevolmente dubitare delle qualità politiche di Garibaldi, imputargli errori e cedimenti che assegnarono alla parte monarchica e moderata l’egemonia nel processo unitario; ma è esagerato definire nazionalista uno che guida un esercito volontario internazionale, che porta italiani e slavi a difendere la repubblica nella Francia del 1871 e che a Lincoln che gli chiede di guidare l’esercito unionista risponde sì, ma a condizione che il presidente Usa dichiari che la guerra è per l’abolizione della schiavitù e non solo per la sottomissione degli stati del Sud secessionisti”.
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I confini scellerati
Andiamo avanti nel tempo. Era nazionalista il movimento operaio socialista? Credo proprio di no. Credo anzi che nella sua parte preponderante si muovesse sulla linea dell’internazionalismo marxiano, per il quale “gli operai non hanno patria”. Mi riferisco non tanto ai massimalisti, ma soprattutto agli esecrati riformisti, che erano in genere internazionalisti senza sbavature. L’Inno di Turati, quello che continuiamo a cantare il primo maggio, in una delle sue strofe fa così:“I confini scellerati / cancelliam dagli emisferi; / i nemici, gli stranieri / non son lungi ma son qui”.
E’ vero peraltro che anche il Partito socialista passò attraverso la “nazionalizzazione del movimento operaio” iniziata dalla socialdemocrazia tedesca e che taluni suoi esponenti di spicco (più della sinistra che della destra interna) si convertirono in tempi diversi al colonialismo e al nazionalismo (uno di loro divenne addirittura “duce del fascismo”); ma è altrettanto vero che nel “radioso maggio” del 1915 i socialisti italiani manifestavano per la pace e che dopo, pur non scegliendo la linea del sabotaggio attivo, i deputati socialisti non votarono i crediti di guerra, a differenza di quanto avevano fatto il partito francese o quello tedesco per affermare il loro carattere “nazionale”. In Germania addirittura i socialisti si divisero in maniera paradossale: i più con l’“ortodosso” Kautsky favorevole alla guerra, in minoranza i pacifisti, con il “revisionista” Bernstein accanto alla rivoluzionaria Rosa Luxemburg.
Si comprende perché nel dopoguerra italiano i fascisti e i nazionalisti (quelli veri, cioè di destra) si scaglino con virulenza contro i socialisti e i neonati comunisti, nemici della guerra e della patria, mutilatori della vittoria.
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La via nazionale del Pci
Per vedere in Italia una sinistra che riabiliti il principio nazionale bisognerà attendere la Resistenza, quando il Pci (assai meno il Psi) recupera il patriottismo risorgimentale in funzione antitedesca. Addirittura i comunisti chiamano “Garibaldi” le brigate partigiane combattenti organizzate sulle montagne e fanno cantare l’antico inno delle camicie rosse:“Va fuori d’Italia…”.
A dare una sistemazione teorica alla cosa è Togliatti, con la svolta di Salerno. Applica “creativamente” la linea di Stalin, che aveva promosso lo scioglimento dell’Internazionale ed indicato ai comunisti e alla classe operaia il compito di “sollevare le bandiere buttate nel fango dalla borghesia”, le bandiere della libertà e dell’indipendenza nazionale. Il “nazionalismo” di Togliatti, di Berti e di molti capi del Pci (l’unica eccezione importante è Terracini) di patrie ne prevedeva due, quella italiana e quella sovietica, ed al dilemma mussoliniano “O Roma o Mosca” sostituiva l’accoppiata “Mosca e Roma”. Nei loro canti i comunisti buttavano loro nel fango la bandiera nera (simbolo della galera), la bandiera bianca (simbolo dell’ignoranza) e, a volte, perfino quella rosa (simbolo di chi riposa), ma nel contrassegno elettorale la falce e martello campeggiava su “due bandiere sovrapposte”, la rossa quasi identica a quella della patria sovietica e la tricolore, di cui si scorgeva un lembo. La “via italiana al socialismo” dell’VIII Congresso (1956) supera la “doppiezza” tra via parlamentare e via insurrezionale, ma sul carattere nazionale del partito non presenta particolari novità.
Su questo punto il compagno Ancona ha pienamente ragione. L’impostazione del Pci negli anni 50 restringe l’orizzonte internazionalista del marxismo: alla classe operaia non si assegna più il ruolo di “classe generale” che “liberando sé stessa libera l’umanità”, ma una più modesta “funzione nazionale”. In questa logica essa si sarebbe dovuta opporre agli egoismi della borghesia industriale monopolistica del nord e del latifondo meridionale e, in generale, delle classi privilegiate, indicando una prospettiva di salvezza e di sviluppo per tutte le categorie produttive. La via nazionale, insomma, è un altro nome della “politica delle alleanze”.
Non so se sia “nazionalismo” la parola giusta per indicare questo atteggiamento. Di solito il lemma indica un ruolo speciale assegnato alla propria nazione nel mondo, un ruolo che giustifica progetti imperiali o quanto meno egemonici. Nella sinistra italiana di tutto ciò non c’è traccia, mentre comincia invece ad esserci quello che chiamerei il “feticcio dell’unità nazionale”.
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Sicilianismo e milazzismo
In Sicilia talora l’italianità si stempera e l’autonomismo si sposa con qualche nostalgia per un’altra nazione, quella siciliana appunto: al Blocco del Popolo prima e poi al Pci del resto aveva aderito Nino Varvaro, uno dei leader della sinistra separatista siciliana.
Sul finire dei 50 Macaluso parla di “unità delle forze autonomiste” contro i monopoli continentali per giustificare il sostegno al governo Milazzo e in molti comunisti dell’isola si risentono toni “sicilianisti”. A sostenere la svolta ci sono Mimì La Cavera, artefice di una scissione in Confindustria (Sicindustria) e l’avvocato Guarrasi, da molti indicato come “la testa del serpente”. Sul tema del sicilianismo io la penso esattamente come Mario Mineo (vedi il documento costitutivo del Centro d’Iniziativa Comunista sul finire del 1970): “… alla borghesia siciliana (come, a suo tempo, ai baroni) il sicilianismo è servito per rivendicare la propria “autonomia” – il proprio diritto cioè di esercitare nei modi tradizionali il potere locale, nei rapporti con il potere centrale, e nei rapporti con le masse soggette, per mantenere il proprio prestigio, scaricando sul potere centrale le responsabilità del malgoverno ed atteggiandosi a protettrice degli interessi e delle tradizioni isolane. In questo senso, si può dire che il sicilianismo è, in ultima analisi l’ideologia della mafia, se per mafia si intende, come deve intendersi , la forma specifica, la genesi e il modo di essere specifico della borghesia siciliana”.
A questo ragionamento non deve essere rimasto insensibile Achille Occhetto, il segretario regionale che, a partire dal 1972, rinverdì “l’unità autonomistica”: ci tenne a spiegare che l’autonomia è cosa diversa dal “sicilianismo” perché si rivolge anche contro i “nemici interni” e non solo contro i “nemici esterni”.
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Unità e solidarietà nazionale
Gli anni settanta sono quelli in cui “l’unità nazionale” e la connessa “solidarietà nazionale” entrano massicciamente nel linguaggio e nella prospettiva politica del Pci. Ancona ricorda i comizi di Berti degli anni cinquanta, io ne ricordo negli anni settanta un paio di Amendola (a Gela e a Palermo) e qualcuno di Napoleone Colajanni, che a volte lo imitava nelle perorazioni finali. La conclusione era spesso un riferimento alla doppia bandiera, soprattutto al tricolore, sugellato dalla frase “viva l’Italia”, con l’aggiunta di “democratica e antifascista”, onde evitare confusioni con Almirante e i neofascisti.
La solidarietà nazionale di cui allora il Pci parlava riguardava le classi sociali (di cui tutti, perfino la Dc interclassista, riconoscevano l’esistenza e la fungibilità politica) e non il territorio della Repubblica, la cui unità nessuno metteva in discussione. Il Pci non si preoccupava pertanto di secessioni che non erano affatto all’orizzonte, ma piuttosto proponeva di sospendere la lotta di classe e la conflittualità sociale di fronte a pericoli che, a sentire i suoi dirigenti, minacciavano l’intera nazione: essi mettevano sul piatto la loro “responsabilità nazionale” e i “sacrifici” dei lavoratori per combattere il golpismo stragista, il terrorismo e la crisi economica. In questo modo si offrivano come forza di governo. E’ noto che l’uccisione di Moro mise termine a quella politica e che il Pci non riuscì a “portare la classe operaia alla guida del Paese”. Il leader del Pci, Enrico Berlinguer, approdò alle posizioni prima respinte come gruppettare o radicali, quelle dell’alternativa alla Dc.
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Anni settanta
Gli anni settanta comportarono dunque un fallimento della sinistra o quanto meno di quella sinistra? Sul piano strettamente politico sì, ma sul piano di cui Ancona parla, quello di un “welfare che garantiva a tutti diritti e spesso benessere e sicurezza”, furono quelli i “migliori anni della nostra vita”: fu allora che quel welfare arrivò davvero, prima non c’era.
Riprendo dal libretto di Giovanni Moro (Anni settanta), per me assai lucido, una lista di riforme conquistate negli anni che vanno dall’autunno caldo del 69 alla marcia dei quarantamila dell’ottobre dell’80, che segnò la dura sconfitta dell’avanguardia operaia di quel tempo, i lavoratori della Fiat di Torino: “Si tratta di riforme con uno spettro molto ampio delle quali, peraltro, non è facile trovare un elenco completo. Erano relative al sistema del welfare (sanità, psichiatria, interruzione della gravidanza, istituzione dei consultori familiari, equo canone per le case in affitto), ai diritti dei lavoratori (statuto dei lavoratori, gabbie salariali, regole della contrattazione collettiva, costituzionalità dello sciopero politico, corsi di formazione delle 150 ore); ai diritti di proprietà (fondi rustici); ai diritti civili (obiezione di coscienza al servizio di leva e istituzione del servizio civile, divorzio, diritto di famiglia, sistema carcerario); ai diritti politici (referendum abrogativi, finanziamento pubblico dei partiti, organi collegiali nelle scuole e nelle università, voto ai diciottenni); all’assetto dello stato (istituzione delle regioni, creazione del ministero dei beni culturali e ambientali, creazione delle istituzioni del decentramento amministrativo, riforma dei servizi segreti e delle forze armate, riforma della televisione di Stato); all’ambiente e al territorio (sentenze sull’inquinamento, norme sull’edificabilità dei suoli, sull’aria, sulla difesa del suolo, sull’acqua)”. Moro peraltro omette quella che non fu una riforma, ma un accordo sindacale, e che è per me, veteroclassista e salarialista come il Foa o il Garavini di quegli anni, la cosa più importante: il punto unico di scala mobile. Queste riforme furono anche conseguenza di un amplissimo movimento di base che percorreva fabbriche, scuole, uffici e caserme, Nord, Sud e Isole.
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Il sacrificio del Sud
Lo stato sociale, dunque, arriva in Italia assai tardi e porta assai visibile il segno del movimento operaio: le pensioni ai contadini e alle casalinghe sono affidate all’Inps e pagate in primo luogo con le contribuzioni che vengono dal lavoro operaio. Queste precisazioni sui tempi danno ancora un volta ragione al compagno Ancona, forse più di quanto lui stesso non creda. Per gran parte degli anni sessanta del Novecento il welfare e la coesione sociale di cui lui scrive non c’erano; c’era invece la massiccia emigrazione che spopolava il Sud delle energie più vive. Il Meridione e le Isole erano usati come riserva di manodopera e mercato di sbocco, neanche fossero colonie. Insomma voglio dire che i meridionali sono in credito con lo Stato nazionale non solo per ciò che accadde nell’Ottocento monarchico, ma anche per quanto è accaduto nell’Italia repubblicana e democristiana.
In questa luce è giusto recuperare la lettura gramsciana del Risorgimento come conquista regia e come rivoluzione agraria mancata e riaprire anche le pagine del decennio 1860-1870, ma senza smarrire il senso della distinzione. Nel Meridione d’Italia quello che fu chiamato brigantaggio fu una guerra e una guerriglia di resistenza da parte delle popolazioni; quello che fu chiamato repressione del brigantaggio fu guerra di conquista. L’esercito piemontese compì nel Sud d’Italia deportazioni e massacri simili a quelli degli israeliani contro i palestinesi e rappresaglie paragonabili alla strage di Marzabotto; ma è innegabile, d’altra parte, che ad egemonizzare la resistenza del Sud fossero sanfedisti e legittimisti. Non voglio qui sminuire la lotta dei vinti né giustificare la barbarie dei vincitori, solo dire che quei capi contadini chiamati briganti, quei preti che li appoggiavano, quei cafoni che li seguivano non erano portatori di un progetto di liberazione e di progresso, ma piuttosto gli eredi delle armate cardinale Ruffo che impiccarono “donna Lionora” nella piazza del mercato, quando nel 1799 cadde la Repubblica giacobina e borghese.
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La specificità siciliana
In Sicilia le cose non andarono allo stesso modo, anche per la diversa situazione storica. Il Borbone per i cafoni della bassa Italia era il Re, per i villani siciliani era il Re di Napoli. Anche per questo i “picciotti” che ingrossarono la spedizione dei Mille non venivano solo dalla borghesia o dall’aristocrazia liberaleggiante, ma anche e soprattutto dal mondo contadino. Nell’episodio di Bronte, anche nell’analisi della trasfigurazione letteraria che ne fece Verga, si è molto spesso sottolineata la violenza della rivolta o la durezza della repressione; la cosa più importante è invece la speranza che l’arrivo di Garibaldi suscita e il significato che acquista per i contadini la parola “libertà”, inscindibile dalla parola “terra”, come nel film di Ken Loach. Poi arriva Bixio e i garibaldini scelgono l’ordine dei ceti proprietari invece della libertà dei villani.
Ciò nonostante l’unica rivolta che in Sicilia si svolge nel decennio 1860-1870, quella del Sette e Mezzo nel 1866, non ha i caratteri sanfedisti del cosiddetto “brigantaggio” meridionale, ma conserva connotazioni garibaldine, “di sinistra”. A spogliare la Sicilia, impadronendosi di usi civici, terre demaniali e beni ecclesiastici, del resto non sono i piemontesi, ma la “borghesia mafiosa”, i Sedara del Gattopardo, una borghesia violenta e famelica che perpetua il peggio del latifondismo baronale e succhia il sangue ai contadini mentre sventola il tricolore. Ma, ancora nel movimento dei Fasci dei primi anni Novanta del diciannovesimo secolo, non mancherà chi si richiamerà all’esperienza garibaldina.
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I socialisti e la questione meridionale
In ogni caso è vero che tra le stesse classi subalterne del Nord e del Sud si determina un distacco cui neppure il socialismo del primo Novecento si sottrae. Un meridionalista democratico che aveva simpatizzato per il partito socialista, come Gaetano Salvemini, se ne allontana quando nel dialogo tra Giolitti e Turati intravede un “blocco corporativo” tra gli operai e gl’industriali del “triangolo” Milano-Torino-Genova, in funzione anticontadina e antimeridionale.
La svolta nell’approccio del movimento operaio alla questione meridionale si ha solo con il Gramsci dell’“Ordine nuovo”. Essa culmina con l’analisi delle classi nella società italiana, appena abbozzata ma sostanzialmente corretta, che sostanzia le tesi di Lione del PcdI nel 1926.
L’impostazione gramsciana rompe con l’impostazione sostanzialmente razzista che era circolata anche all’interno del socialismo riformista. Rileggiamone un passo, ché fa sempre bene: “E’ noto quale ideologia sia stata diffusa in forma capillare dai propagandisti della borghesia nelle massse del Settentrione: il Mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile d’Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato la colpa non è del sistema capitalistico o di qualche altra causa storica, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari, temperando questa sorte matrigna con la esplosione puramente individuale di grandi geni, che sono come le solitarie palme in un arido e sterile deserto. Il partito socialista fu in gran parte il veicolo di questa ideologia borghese nel proletariato settentrionale”.
Per Gramsci il modello di sviluppo dualistico che caratterizza l’Italia ha altre ragioni: non l’azione cieca delle leggi del mercato, ma l’azione politica delle classi dominanti nello Stato unitario e peculiarmente l’alleanza suggellata dal patto protezionistico del 1887, quello che sancisce il blocco storico tra industriali del Nord e agrari del Sud e delle Isole, l’asse che determina la composizione e l’orientamento dei gruppi dirigenti fino a tutto il periodo fascista.
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Leggende contrapposte
Forse è qui il caso di fare il punto su una questione storiografica che continua ad essere sullo sfondo di molte polemiche attuali. Essa è rappresentata da un paio di domande. Qual era la condizione economica del Sud rispetto al resto d’Italia al momento dell’unità? Dall’unità il Sud guadagnò o perse?
Credo che la leggenda di un Mezzogiorno caratterizzato da un “ritardo storico”, indiscriminatamente e assolutamente feudale, propagandata dai “nordisti”, sia altrettanto falsa di quella di un Sud d’Italia industrialmente avanzato raccontato dalla pamphlettistica filoborbonica o di una ricca Sicilia navale, vinicola, granaria e zolfifera inventata dal sicilianismo mafioso.
Gli studiosi più avvertiti della più aggiornata storiografia economica ci dicono che nel 1861 l’Italia è arretrata al Sud come al Nord, che piccoli e rari poli di sviluppo capitalistico si trovano sia al Sud che al Nord, nell’agricoltura come nell’industria, e che se proprio si dovesse assegnare la palma del sottosviluppo essa andrebbe al Centro, all’immobilità clericale e feudale dei domini del Papa.
La stessa storiografia ci dice peraltro che le condizioni economiche del Sud, di tutto il Sud, peggiorarono con l’unità, perché ad esso fu sottratta, soprattutto attraverso la politica fiscale, una grande quantità di capitali che finanziarono l’infrastrutturazione e lo sviluppo capitalistico del Nord.
Ma dall’arretratezza del Sud non guadagnano solo i capitalisti del Nordovest (il Veneto è altra cosa), ma anche gli agrari e i ceti parassitari del Mezzogiorno che fondano il proprio potere economico proprio sull’arretratezza. Tutto ciò sembra confermare l’approccio classista di Gramsci contro l’interclassismo del vecchio meridionalismo: non c’è un Settentrione sfruttatore e un Mazzogiorno sfruttato, ma ci sono sfruttatori e sfruttati sia al Nord che al Sud e il dualismo economico è funzionale al blocco storico dominante.
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Il Pci, la nazione, il welfare
Il secondo dopoguerra vedrà, almeno in parte, colmata la distanza tra sfruttati del Nord e del Sud. Merito di comunisti e socialisti che riescono ad organizzare la parte più combattiva delle masse sfruttate in tutto il paese: i contadini delle campagne del Sud che lottano per la terra contro il latifondo, i muratori e gli operai delle città meridionali che cercano lavoro, i mezzadri del centro Italia che respingono gli antichi patti agrari di stampo feudale, gli operai del triangolo i cui salari e diritti sono, al tempo della ricostruzione postbellica, fortemente compressi.
E tuttavia il dualismo economico permane nell’Italia repubblicana ed è ancora il Sud a pagare, come ho già detto, il prezzo del boom degli anni cinquanta e sessanta. Ha ragione Ancona: è lo stato sociale a garantire la tenuta unitaria, anche territoriale, della Repubblica. E lo stato sociale, in Italia, costruito come si è visto soprattutto negli anni Settanta, è prodotto da diverse spinte: le lotte operaie, sindacali e sociali; il Pci, partito nazionale, non tanto per il richiamo al Risorgimento, ma per la formazione politico-culturale dei suoi quadri di ogni latitudine; l’altro partito nazione, la Dc, che nel welfare introduce una peculiare impronta familistica e clientelare.
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Dopo l’89
Il passaggio dell’89 vede il crollo del progetto comunista del XX secolo così profondamente segnato dallo stalinismo. In Italia crolla il sistema politico della cosiddetta Prima repubblica e tre fenomeni politici sembrano accompagnare i nuovi assetti.
Primo: la “pancia” del paese, rappresentata dai gruppi privilegiati di ogni tipo (dalle corporazioni professionali ai costruttori, dai manager agli alti burocrati, da proprietari e rentiers di ogni tipo) si libera delle remore democristiane e sceglie una nuova destra, liberista, populista e autoritaria, erede storica del fascismo che si incarna in Berlusconi, trova veicolo nelle sue tv e trascina demagogicamente pezzi importanti di “popolo basso”.
Secondo: il grosso del ceto politico del Pci si produce in una grande operazione trasformistica, abbandonando ogni profilo classista, coniugando liberismo temperato e buonismo valoriale e mischiandosi con i postdemocristiani nella ricerca di consensi in quello che è spregiudicatamente chiamato “mercato politico”. Sul piano elettorale la sua base prevalente è il pubblico impiego.
Terzo: al Nord si afferma un movimento che ha il suo nerbo nella piccola borghesia dei padroncini e dei piccoli professionisti falliti (commercialisti, geometri, ragionieri, avvocati, dentisti). Esso gioca sulle paure connesse alla globalizzazione liberistica e, su basi razzistiche, propaganda un egoismo territoriale che alla fine si incontra con l’egoismo sociale della nuova destra. Come i nazisti nella Germania degli anni trenta, i Leghisti del Nord Italia usano come bersaglio l’opportunismo carrieristico e il vuoto di politica presente nella sinistra, anche estrema, per penetrare tra gli operai e conquistarne l’adesione in nome di una inventatissima “Padania”.
Il risultato di tutto ciò è l’aumento di tutte le disuguaglianze, tra ricchi e poveri, tra padroni e operai, tra redditieri e nullatenenti, tra dirigenti e diretti nel lavoro pubblico, tra Nord e Sud. Il lavoro è stato deregolato e i lavoratori sono stati messi sotto in nome del liberismo; lo stato sociale è in via di smantellamento, l’obiettivo dichiarato del federalismo sono livelli diversi di protezione sociale nelle diverse aree del paese.
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Uno stato del Sud?
Torniamo ad Ancona. Anche lui è “modernista” e rifiuta il concetto di classe o almeno non ne percepisce la fungibilità politica attuale. E sussume la “classe operaia” in un generico “lavoratori”, mentre per la classe dominante parla di ceti. E’ innegabile che la classe operaia è ormai “un volgo disperso che nome non ha” e che ormai, senza autonomia politica e organizzativa, esiste tutt’al più come “classe in sé” e non come “classe per sé”. Ma si può cambiare la situazione senza avviare un processo di ricostruzione?
Entro nel merito. Dire oggi che la Lega e il suo egoismo territoriale oscillante tra secessione e federalismo rappresenti l’eredità delle forze che asservirono il Sud dell’Italia è una lettura un po’ grossolana. Bossi e Calderoli eredi della Destra Storica, il gruppo dirigente più colto e meno corrotto che l’Italia unita abbia avuto? Non ci crederei neanche di fronte a un dettagliatissimo albero genealogico. Il successo della Lega ha altre radici. E’ giusto battersi per un lettura della storia meno pacificata e più veritiera del rapporto Nord-Sud, sia per l’Ottocento che per il Novecento, ma questa battaglia culturale, pur necessaria, non dà di per sé una strategia, una prospettiva credibile. Ancona individua un pilastro da abbattere, il liberismo, ed anche dei nemici da sconfiggere (i ceti privilegiati tradizionale cui giustamente aggiunge una famelica Oligarchia, cioè il ceto politico allargato). Ma non nomina neppure le forze motrici della lotta che propone. Parla di sinistra, ma non s’intende a chi si riferisca. E in ogni modo la sinistra politicamente e sindacalmente attiva, anche usando i criteri più larghi, è oggi poca cosa.
Credo tuttavia di indovinare il non esplicitato: il racconto veridico del Risorgimento dovrebbe, potrebbe mobilitare il popolo meridionale.
Mah! Se raccontiamo che l’Unità d’Italia fu una conquista, che il Sud fu sacrificato e sfruttato, che ci furono carneficine a Forte Fenestrelle e a Pontelandolfo e altrove, può darsi che persino i leghisti e i preti ci diano ragione e dicano che è tutta colpa dei frammassoni senza religione, di Vittorio Emanuele, di Camillo Benso e di Garibaldi che sottomisero il Sud e tradirono il Nord. Ma non cacceranno un euro. E corriamo un rischio anche più grave di trovare a darci ragione Lombardo. O Cuffaro. O anche tutti e due.
Se poi la parola d’ordine diventasse “non siete voi a cacciarci, siamo noi che ce ne andiamo”, potremmo anche vincere, con l’aiuto dei nostri nemici. Ma, una volta indipendenti, che facciamo? Cerchiamo un Borbone in qualche parte del mondo che ci faccia da re? O, con i rapporti sociali oggi vigenti, facciamo del Sud un’Albania, un Montenegro o un altro stato franco delle mafie? Sarebbe una cura peggiore del male. Sul risentimento non si costruisce niente di buono.
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Una sinistra di classe
C’è, per finire, un’altra cosa che non digerisco: dare per persi a una politica di progresso gli operai del Nord, che peraltro stanno soffrendo fortemente la crisi. E’ accaduto loro come agli operai tedeschi negli anni trenta: si sono lasciati sedurre dalle sirene del razzismo e dell’identità, dalla persuasione di essere più protetti nelle mani di Bossi e dei suoi caporali. E’ normale: perdono da vent’anni salario e diritti, oggi stanno perdendo il lavoro. La Lega e la destra offrono sicurezza e vicinanza contro la concorrenza dell’intruso meridionale, non importa di quale meridione, gli altri neppure quello. Ma il tempo della verità potrebbe arrivare presto. Ce la facciamo ad avere per quel momento una buona sinistra? Io, se fossi in buona salute, comincerei dal sindacato. Poi dal “manifesto”. Poi da Vendola. In mancanza comincio da qui. E soprattutto da “micropolis”.
Pubblicato da Salvatore Lo Leggio a 12.26

Salvatore Lo Leggio

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