sabato 20 febbraio 2010

Importante riflessione di Luciana Castellina sul Manifesto

20/02/2010
| Luciana Castellina

Sul Welfare, Berlino batte tutti


Ho aspettato alcuni giorni per verificare se qualcuno in Italia aveva preso nota della ultima sentenza ( 9 febbraio) della Corte costituzionale tedesca ma, salvo il manifesto - che ne ha dato ampia notizia - non ho trovato niente. Eppure si tratta di una sentenza di grande importanza, perché obbliga i legislatori a prendere sul serio l'entità del salario di cittadinanza, dando valore ai solitamente disconosciuti diritti sociali pur affermati da quasi tutte le costituzioni dei paesi europei a partire dal nostro.
Il giudizio della Corte tedesca interviene a proposito di un dettaglio dell'applicazione della riforma del welfare - la famosa Hertz IV - che già non pochi grattacapi ha dato alla sinistra della Repubblica federale: fortemente voluta dal cancelliere socialdemocratico Schroeder, contro il parere di una buona fetta del proprio stesso elettorato (che se ne è infatti ricordato alle ultime elezioni ) e quindi assunta da Angela Merkel. Si tratta della trasparenza nel modo - come ha già spiegato Guido Ambrosino su il manifesto del 13 febbraio - in cui è stato calcolato l'importo dell'assegno di disoccupazione per quanto riguarda la quota destinata a coprire le spese per l'educazione dei bambini. In discussione non è tanto qualche decina di euro in più o in meno, una piccolezza, ma le implicazioni politiche e giuridiche che sono invece enormi: perché la sentenza dice nientedimeno che è illegale ogni retribuzione o indennità che non garantisca il «diritto fondamentale a percepire un minimo vitale dignitoso», vale a dire che deve essere devoluta una somma in grado di consentire «un minimo di partecipazione alla vita sociale, politica e culturale». Un'affermazione che ha sollevato le ire del vicecancelliere liberale Wasterwelle, che vorrebbe abolire ogni indennità di disoccupazione, e ha invece reso felice l'Unicef che vi ha visto una strada aperta alla lotta contro la povertà infantile. «Perché - ha commentato il direttore dell'agenzia Onu in Germania, Stachelhaus - il problema non sta nel fatto che un bambino abbia o meno un paio di scarpe nuove, quanto nel posto e quali opportunità avrà nella società».
Tutto questo è accaduto in nome dell' applicazione degli articoli 1 e 20 della Costituzione federale, cui entro il 31 dicembre i legislatori tedeschi dovranno piegarsi, riscrivendo le loro regole.
E in Italia, dove l' articolo 3 della Costituzione parla di «pari dignità sociale» ( fu voluto da Lelio Basso, Parlmiro Togliatti e Aldo Moro ) e dove l'anche più esplicito articolo 36 recita (conviene sempre ricordare queste diciture): «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa», un diritto di cui è stato riconosciuto titolare ogni cittadino? Di Vittorio ne fece la sua bandiera e poi analogo concetto è stato inserito anche in altre Costituzioni europee, buon'ultima quella spagnola dopo la caduta di Franco. Cosa avverrebbe se a impugnare le leggi che disattendono l'art. 36 fossero ora tutti i lavoratori costretti a salire sui tetti delle loro aziende, e con loro tutti i precari che un'azienda non l'hanno neanche più, per rivendicare «dignità» e chiedere che l'Italia prenda sul serio la propria Costituzione, così come sta facendo la Germania?
Il fatto è che questa povera Corte costituzionale tedesca viene sempre bistrattata, è anzi il nemico numero uno dei «santi europeisti» (ma Altiero Spinelli sono sicura che oggi sarebbe fra i diavoli) perché ha più volte (quando doveva essere ratificato il Trattato di Maastricht negli anni '90 e di nuovo il 30 giugno scorso per via di quello di Lisbona) denunciato le pecche dei Trattati Europei. Dichiarando che la Germania non può cedere all'Unione l'intera sua sovranità perché nel suo assetto c'è un evidente deficit democratico e sociale, incompatibile con la legge fondamentale della Repubblica federale tedesca.
Il che è più che vero. Nella Carta di Nizza i diritti sociali, per esempio, sono solo «riconosciuti» e non «garantiti». E poi nel Trattato di Lisbona, per contentare tutti, è stato inserito quel meraviglioso ossimoro il quale dice che l'Unione si fonda su «un'economia sociale di mercato fortemente competitiva». Che è come dire che il «sociale» deve essere sacrificato alle ragioni di Marchionne. E, come se non bastasse, a dare un'interpretazione restrittiva del carattere sociale dell'Europa, ci si è messa da sempre la Corte di giustizia europea, di cui si è giustamente detto che ha un comportamento «creativo». E in questo caso ha deciso, pur non avendo in tal senso alcun mandato, che la libertà economica prevale sui diritti sociali garantiti dalle legislazioni nazionali.
Quanto al deficit democratico sappiamo tutti che è plateale, visto che - come scrive uno dei più importanti costituzionalisti italiani, Giuseppe Guarino - «il sistema dei poteri vigente nell'Unione europea, anche dopo le innovazioni introdotte dal trattato di Lisbona, non rispetta il principio di democraticità vincolante per gli stati membri».
Non è solo questione di come è strutturato il potere decisionale: la Corte tedesca nel '94 aveva indicato una causa anche più profonda di non democraticità quando aveva dichiarato che nell'Unione mancava il demos. Un concetto che non alludeva all'assenza di una etnia pura ed omogenea - come pure i «santi europeisti» si sono affrettati a denunciare, evocando il malefico fantasma di Carl Schmitt - ma, più semplicemente, l'assenza, a livello europeo - come ha scritto all'epoca Dieter Grimm, l'estensore della sentenza - di quelle strutture «indispensabili alla democrazia: associazioni, movimenti, media, partiti, sindacati che consentono una costante interazione fra cittadini e stato, affinchè questo possa assolvere al suo compito che è quello di mediare fra interessi diversi». Già carenti a livello nazionale, essi sono inesistenti a livello europeo, sebbene garantiscano partecipazione e la democrazia senza partecipazione sia nulla - aveva concluso.
Argomenti, come si vede, più che condivisibili, che chiamano in causa la responsabilità anche di buona parte della sinistra, impegnatissima a rivendicare i poteri del parlamento europeo, certo importanti, ma distratta rispetto al compito preminente di costruire una vera società civile di livello comunitario, vale a dire una comune opinione pubblica, non più frammentata come oggi, sicché le istituzioni possono permettersi di non rispondere realmente a nessuno.
«Non condivido - ha ironicamente scritto in merito alla sentenza della Corte tedesca del 30 giugno scorso Gianni Ferrara - il turbamento degli euro-patrioti per i suoi effetti. La passione europeista è più che commendevole. Ma non può sopraffare quella per la democrazia». O quella per i diritti sociali riaffermati dalla nuova sentenza del 9 febbraio - c'è da aggiungere - che sono, o dovrebbero essere, la principale specificità del modello europeo. Se dovesse sparire, non resterebbe che un pezzo di mercato, buona idea nel 1957, un po' obsoleta in epoca di globalizzazione. E allora, invece che accusare i giurati tedeschi di rigurgiti nazionalisti, sarebbe bene prendere sul serio le loro preoccupazioni. Che mi sembrano più europeiste di quelle di molti europeisti ufficiali.

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