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Conclusioni
Nell'attuale panorama della politica carceraria, l'esistenza di uno strumento di controllo differenziato e più rigoroso finalizzato ad interrompere, per quanto possibile, i legami operativi o comunque carismatici tra i detenuti appartenenti a sodalizi mafiosi e gli affiliati ancora in libertà, non risulta essere oggetto di ripensamenti da parte della maggioranza della classe politica, tranne poche eccezioni.
È da considerare, tuttavia, come l'efficacia di tale apparato e il rispetto delle posizioni giuridiche soggettive - valore altrettanto importante in un moderno stato di diritto - risentano entrambi dell'astrattezza e dell'incompiutezza del percorso normativo fin qui attuato.
Infatti, se per dieci anni il ricorso a questo strumento avveniva in un contesto di eccezionalità, la stabilizzazione intervenuta nel 2002 ha messo in evidenza aspetti contraddittori dell'istituto, che afferiscono non solo alla compatibilità dello stesso con i principi espressi dall'ordinamento penitenziario e dalla Costituzione, ma anche alla sua reale ed effettiva capacità di perseguire l'obbiettivo per il quale era stato pensato.
Le innovazioni contenute nella novella del 2002 hanno portato sicuramente ad avvicinare l'istituto ai parametri costituzionali vigenti in materia di restrizione della libertà personale, tuttavia il soggetto non risulta ancora posto nelle condizioni di difendersi adeguatamente. La scelta effettuata dal legislatore di mantenere la competenza ministeriale nell'applicazione della misura sospensiva, così come la scelta di utilizzare una volta di più la formula probatoria negativa circa il mantenimento dei contatti con l'associazione di appartenenza, non sembrano aver posto definitivamente a riparo la materia da possibili distorsioni applicative.
Se da un lato il procedimento per reclamo è stato definitivamente giurisdizionalizzato, dall'altro è stato negato il diritto di esercitare il contraddittorio in condizioni di parità effettive, poiché il soggetto dovrebbe vedersi riconosciuta la possibilità di accedere alle informative poste a base del provvedimento ministeriale. Invece, sotto questo profilo, la novella normativa non ha disposto alcunché.
Con l'entrata in vigore della novella del 2002, inoltre, si è riproposta l'annosa querelle giurisprudenziale in ordine ai limiti del sindacato del tribunale di sorveglianza che vede contrapposte le posizioni interpretative adottate, da un lato, dall'organo preposto all'applicazione del regime differenziato, dall'altro dall'autorità giudiziaria che deve esercitare un controllo pieno ed effettivo sul provvedimento ministeriale.
A nostro avviso è ragionevole dire che il regime speciale previsto dall'art. 41-bis comma 2 o.p. ha sicuramente rappresentato - e continua a rappresentare - uno strumento giuridico di dubbia costituzionalità. Se è stata comprensibile la sua applicazione in un momento di esplosione della violenza mafiosa per fronteggiare l'incapacità dello Stato di porvi freno, alla sua stabilizzazione come istituto di carattere ordinario avrebbe dovuto conseguire una reale riforma dell'istituto, sia per ciò che attiene alla competenza nella emanazione del provvedimento applicativo, che per il suo vaglio, che, ancora, per quanto riguarda la fase applicativa.
La garanzia giurisdizionale successiva all'applicazione, finalizzata soltanto al sindacato sul decreto applicativo, appare infatti priva di collegamento con il percorso che conduce, in via amministrativa, alla emanazione del decreto poi impugnato. In tal modo risultano insoddisfatte, tanto le esigenze di difesa sociale, richiamate per lo più dalle teorie dottrinali fatte proprie dall'amministrazione penitenziaria, quanto le esigenze di tutela dei diritti del detenuto sottoposto al regime speciale.
A due anni dalla riforma dell'istituto effettuata dalla legge n. 279/02, e a tredici anni di distanza dalla sua introduzione le problematiche legate all'esistenza di un regime detentivo speciale la cui applicazione rimane affidata alla discrezionalità amministrativa, rivelano la difficoltà di far funzionare un istituto che pure ha rappresentato per molto tempo un vulnus al nostro apparato di garanzie costituzionali.
Basti ricordare, a tal proposito, la prassi applicativa in vigore nel periodo precedente alla riforma del 2002, la quale veniva spesso a riprodurre un meccanismo perverso di ingresso e permanenza nel circuito di detenzione speciale in relazione al quale, una volta provata all'inizio della detenzione l'attualità del collegamento con l'organizzazione criminale, ed applicato per la prima volta il regime, risultava difficile determinarne la cessazione. Alla scadenza del termine di efficacia del decreto applicativo, infatti, seguiva un nuovo provvedimento dal contenuto identico.
Sotto un altro punto di vista le considerazioni effettuate dalla Commissione antimafia sullo stato di applicazione del regime di 41-bis rivelano le difficoltà di garantire l'impermeabilità comunicativa tra gli esponenti delle organizzazioni mafiose che si trovano sottoposti a tale misura.
Più voci sostengono che l'esigenza di ricorrere al regime di 41-bis nasce dalla presa d'atto che per coloro che rivestono funzioni rilevanti all'interno delle consorterie criminali organizzate, le misure privative della libertà personale possono non essere di per sé sufficienti, nei termini ordinari, ad interrompere la catena di comando delle organizzazioni criminali più agguerrite.
Alla luce di queste considerazioni è da sottolineare, tuttavia, come l'attuale metodica applicativa del regime speciale, se da una parte non è idonea al raggiungimento dello scopo, dall'altra intacca inutilmente (o irragionevolmente) diritti facenti capo all'umanità del detenuto: tutto questo in ragione della ricerca evidente di una posizione di compromesso che, poiché adottata non in linea con un profondo lavoro di bilanciamento dei valori costituzionali in gioco, risulta insoddisfacente sotto ogni profilo.
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