sergio romano Lettere al Corriere
La protesta tibetana i monaci e la modernità
Caro Vergili,
La sua lettera coglie un punto a cui l’opinione pubblica occidentale non ha prestato molta attenzione.
È possibile che gli esuli tibetani, cresciuti lontano dalla madrepatria, stiano facendo una battaglia democratica per i diritti umani e civili del loro Paese. Ed è evidente che il Dalai Lama si accontenterebbe di un Tibet autonomo, soggetto all’autorità politica di Pechino e tuttavia libero, al tempo stesso, di coltivare le proprie tradizioni culturali e religiose.
Ma la violenta rivolta dei monaci a Lhasa e in altre province cinesi dove abitano importanti comunità tibetane, è stata una insurrezione conservatrice.
Sappiamo che la Cina ha sempre considerato il Tibet una insopportabile anomalia e ha fatto del suo meglio per alterare la composizione demografica della regione favorendo l’insediamento nel territorio di una nuova popolazione han (così hanno fatto, incidentalmente, molti Paesi europei, fra cui l’Italia, quando si sono impadroniti di terre di confine abitate da minoranze che appartenevano a un diverso ceppo nazionale).
Ma fu subito evidente che la Repubblica popolare non avrebbe mai tollerato, all’interno dei propri confini, una Santa Sede del buddismo himalayano, un regime feudale e religioso come quello sorto molti secoli fa sull’altopiano tibetano.
La situazione si è ulteriormente complicata quando la grande modernizzazione cinese ha finalmente investito il Paese. Quando visitai il Tibet nel 1981, il rapporto fra i tibetani e l’amministrazione cinese era congelato dallo stato di arretratezza economica della provincia. Gli occupanti e i sudditi sembravano avere concluso una tregua che nessuno, in quel momento, aveva interesse a rompere. Ma lo sviluppo economico, da allora, ha creato turismo, commercio, iniziative industriali. Durante una visita organizzata dal governo di Pechino dopo le agitazioni dello scorso marzo, i corrispondenti stranieri hanno fatto due constatazioni interessanti.
In primo luogo si sono accorti che i monaci tibetani, contrariamente alla loro reputazione occidentale, non sono cultori della «non violenza» e ne hanno dato la prova con una furia devastatrice che ha colto di sorpresa le forze di polizia.
In secondo luogo hanno compreso che la loro rivolta non era diretta soltanto contro i cinesi, ma anche contro una classe emergente di tibetani che stanno sfruttando i vantaggi della modernizzazione.
Quello a cui abbiamo assistito, in altre parole, non è, se non in parte, uno scontro fra democrazia e dittatura.
È anche il segno di una frattura sociale che si è aperta all’interno della società tibetana.
Non è necessario essere marxisti o anticlericali per osservare che la Cina recita in questa faccenda, sia pure con i modi intolleranti di un regime autoritario, la parte della modernità e che i monaci, come si sarebbe detto una volta, quella della reazione.
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È giusto invitare le autorità cinesi alla moderazione di fronte alla rivolta dei monaci tibetani, ma non si può pretendere che la Repubblica popolare tolleri che una sua regione sia governata da una teocrazia. La Cina, con l’introduzione del mercato, sta sviluppando a tappe forzate la sua economia (e di conseguenza la società) e la modernizzazione del Tibet è parte integrante del progetto.
Il boicottaggio delle Olimpiadi inasprirebbe i rapporti con quella che fra pochi decenni sarà la maggiore potenza economica mondiale. D’altronde non sono affatto convinto che il mancato boicottaggio rappresenterebbe, come molti sostengono, un tradimento dei nostri valori; trovo anzi singolare pretendere, in nome della cultura occidentale, che società e civiltà arcaiche vengano trattate come reperti archeologici da conservare a ogni costo per la delizia di turisti e antropologi. Del resto, è proprio il rifiuto da parte di Stati e culture di uscire dal medioevo per entrare nella modernità che spesso costituisce l'ostacolo maggiore al dialogo e alla coesistenza.
Giorgio Vergili, giorgio.vergili@fastwebnet.it
http://www.corriere.it/romano/
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