Il villaggio della paura
Non è la prima volta nella storia d'Europa che la cronaca nera prende uno spazio abnorme e simbolico: nelle scelte governative, nelle campagne elettorali, nel farsi delle carriere politiche, nelle strategie dei mezzi di comunicazione. Accadde già una volta nella belle époque: tempo smanioso d'impazienza e di risse, che Thomas Mann chiamò epoca della Grande Nervosità. Nel 1907, il giornale La Petite République, fondato dal socialista Jaurès, titolò in prima pagina: «L'insicurezza è alla moda, questo è un fatto». Il clima era assai simile al nostro: analogo fascino del crimine, analoghe illusioni di rese dei conti. Insicurezza e cronaca nera vennero politicizzate, in Francia, sullo sfondo di vaste dispute sulla pena di morte. Facevano paura le bande di giovani nei quartieri difficili, proprio come oggi: Apache era il loro nome. Proprio come oggi s'invocava una rottura. Categoria che Foucault ebbe a definire, in un'intervista a Telos dell'83, deleteria: «Una delle più dannose abitudini del pensiero moderno è di parlare dell'oggi come di un presente di rottura». Buona parte degli Apache scomparve nella carneficina del '14-'18.
Oggi il fantasma riappare, con forza speciale dopo l'11 settembre e lo svanire dell'Urss. È la tesi dello studioso Laurent Mucchielli, che ha pubblicato una raccolta di testi sul ruolo che l'insicurezza ha svolto nell'ascesa di Sarkozy. In realtà la sicurezza s'era fatta invadente da tempo, con l'espandersi delle estreme destre in Europa. Già negli Anni 90 la figura del nemico cambia («Vi faremo, a voi occidentali, la cosa peggiore che si possa fare a un avversario: vi toglieremo il nemico», disse Georgij Arbatov, in Urss).
Divenuto meno visibile il nemico esterno, si scopre l'Islam non solo fuori ma dentro casa, si escogitano nuovi reati (tra essi la mendicità), e ai cittadini viene offerto il nemico interno, il capro espiatorio da abbattere. I disordini nelle periferie son descritti come guerre civili Los Angeles '92, Francia 2005 e 2007 e la controffensiva si militarizza. La paura diventa lievito della politica: in Usa, Francia, e ora Italia. Il libro di Mucchielli s'intitola: La Frenesia della Sicurezza (La Découverte).
La frenesia risponde a bisogni concreti, soprattutto in zone di non-diritto, dove l'urbanistica ha fatto scempi: zone grigie, le chiamano i consulenti privati cui si rivolgono i governi, di «guerriglia degenerata».
La società Pellegrini, cui spesso ricorre Sarkozy, parla di guerra civile. È quest'esagerazione che desta dubbi, negli esperti di banlieue. Nelle teorie del nemico interno l'insicurezza non è un male da sanare, riformando giustizia, prevenzione, controllo. L'età nervosa trasforma l'insicurezza da problema, che era, in soluzione, in occasione sfruttabile. Anche la paura cessa d'esser problema e diventa soluzione, investimento politico. I giornali fanno la loro parte, un po' per vendere un po' per conformismo. Quasi non sembrano accorgersi della manipolazione che subiscono, dei profitti che politici e imprese private traggono dalla paura.
L'emozione che prende il posto della comunicazione, l'ossessione delle cifre, il linguaggio bellico, le «lunghe scie di sangue»: la stampa imita il politico, perde autonomia, invece di registrare e interpretare escogita titoli-arpioni. È quello che i politici vogliono: «Il silenzio mediatico è un errore», disse il ministro dell'Interno Sarkozy in un discorso ai prefetti del 2003. Così da noi: i telegiornali aprono su un delitto, per poi allacciarsi senza soluzione di continuità a duelli elettorali. E lo spettatore è trascinato nel vortice, diventa attore teleguidato di quella che David Garland, in un libro del 2002, chiama società penale: con il suo voto e la sua rabbia s'immagina demiurgo di nuovi ordini (La Cultura del Controllo, Saggiatore 2004).
La frenesia è passione disperata e panica, non fiduciosa nel progresso sociale ma dominata dal catastrofismo, dall'idea che il criminale sia un individuo predeterminato geneticamente, immutabile. Sono le convinzioni di Sarkozy: non ha più senso la polizia di prossimità, che provava a integrare i giovani in banlieue. «La migliore prevenzione è la sanzione». Decenni di lavoro sulle radici della violenza vengono liquidati, giudicati buonisti, sociologici. Quando paura e insicurezza diventano la Soluzione, il problema svanisce. Il populismo penale straripa, imponendo non riforme di lungo respiro ma pletoriche leggi ad hoc, e politiche dichiarative, simboliche, dettate da permanente indignazione.
In Francia, che per l'Italia è oggi paese laboratorio, il vocabolario bellico adattato all'ordine pubblico è preso in prestito dall'epoca coloniale. Lo spiega Mathieu Rigouste, studioso di scienze sociali: i consulenti più apprezzati dai politici, sulle banlieue, combinano dottrine della contro-insurrezione elaborate nella battaglia d'Algeri con l'odierna lotta al terrore. Così vien cancellato il confine tra sfera civile e militare, tempo di pace e di guerra, interno e esterno. Certo è presto per valutare conclusivamente i risultati di queste politiche, ma un primo bilancio è possibile. L'ossessione delle cifre, della rapidità, della cronica drammatizzazione non ha dato per ora veri risultati.
Il poliziotto-giustiziere appare ancora più illegittimo, nelle banlieue. Le carceri si riempiono, aprendo la via a indulti precipitosi. Soprattutto non funziona la panacea tecnologico-militare (videosorveglianza, biometria): il terrorista non teme la morte né l'occhio altrui. La rapidità è proficua solo in parte: impedisce analisi accurate, corre al risultato-show. È in Inghilterra, dove Blair ha inasprito la repressione, che la percentuale dei minorenni delinquenti è la più forte (20 per cento sulla criminalità globale). In Norvegia, dove perdura il modello «sociologico-protezionista», la percentuale è inferiore al 5 per cento. Mucchielli cita poi una distorsione che conosciamo bene: lo slogan Tolleranza Zero vale per tutti i crimini, «tranne per quelli economici e finanziari: contrariamente ad altri tipi di delinquenza, il governo (francese) cerca, in nome della “modernizzazione” del diritto degli affari, di depenalizzare i comportamenti delinquenti». È la società duale descritta da Garland: da un lato chi s'avvantaggia della deregolamentazione liberista, dall'altra una società disciplinata da regole morali più tradizionali e inasprite.
La politica della paura si concilia male con il pragmatismo che Sarkozy incarna agli occhi di molti. Pragmatismo sempre più incensato, e sempre più equivoco: perché una politica sia efficace, non basta dire che essa «non è di destra né di sinistra». Non c'è nulla di pragmatico nell'ossessione delle cifre, nel disprezzo dei poliziotti di prossimità, nel correre affrettato verso il risultato spettacolare, qualunque esso sia. Non sono pragmatiche le pene minime ai recidivi, che riducono l'autonomia dei giudici. O la carcerazione preventiva che tocca a chi ha già purgato la pena ma viene giudicato tuttora potenzialmente pericoloso (da una commissione di esperti, come voluto dal presidente Sarkozy).
Le ronde proposte dalla Lega possono aver senso: alcuni cittadini partecipano al controllo del territorio, «armati solo di telefonini». Ma non deve significare che Stato e polizia abbassano le braccia. Che la società non solo si autocontrolla ma reprime (salvaguardando ampie zone d'impunità economica, come s'è visto). È per evitare il linciaggio che abbiamo giudici e polizia separati dalla società. Quando ciascuno spia, denuncia, reprime il diverso, il mondo rischia di farsi villaggio, letteralmente: non ordine cosmopolita, ma borgo natio dove il controllo sociale protegge senza freni, e il cittadino perde l'anonimato garantito dalla metropoli, non sfugge agli sguardi, e impara a vivere nel sospetto, senza più lasciar vivere.
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