La mamma: Vittorio aveva deciso
di spendere così la sua vita
16 aprile 2011
Egidia Beretta, mamma di Vittorio Arrigoni (Foto by CARDINI)Gaza, l'assassinio di Vittorio Confessano i due arrestati
BULCIAGO E' buia la stanzetta dove Vittorio Arrigoni è stato ragazzo, dove ha maturato gli ideali che l'hanno portato a morire in una terra lontana, per una terra lontana.
Fuori c'è il mondo della comunicazione che si sta ammassando al cancello della villetta. La mamma Egidia Beretta, sindaco del paese, ci fa strada dentro casa e spalanca la persiana: proprio su quel letto a una piazza e mezza del figliolo adolescente si siede e lo ricorda. «Inizialmente Vittorio si dedicava a campi di volontariato internazionali in ogni parte del mondo: trascorreva così le ferie, tre settimane all'anno». Dopo l'Estonia, nel 2002, giunse in Palestina per la prima volta: «Rimase folgorato, letteralmente, sulla via di Damasco - ricorda - Gli scrissi, allora: Vittorio, stai camminando sulle strade di Gesù; conservo ancora la sua profetica risposta: “Mamma, Gesù non cammina più sulle strade di Gerusalemme”. Per lui è diventata quella l'unica causa: viveva da palestinese più degli stessi palestinesi».
Vittorio definiva Gaza «il più grande campo di concentramento del mondo, un immenso carcere a cielo aperto», e a Gaza City abitava in un bilocale vista porto: dal gennaio del 2010 era tornato a stare là e non aveva più fatto rientro; prevedeva di fare una capatina a maggio, anche per vedere il papà, che ultimamente ha qualche problema di salute. La mamma indica un enorme scatolone, al di là della panca da palestra per rassodare gli addominali, eredità di un'adolescenza come tante: «Gli avevo comprato gli anfibi nuovi, per dare il cambio a quelli usurati che portava sempre – il pensiero scivola lontano, a una quotidianità travolta dagli eventi - Mi sono sempre chiesta come facesse a stare dietro a se stesso, a lavarsi le cose per esempio. Ovviamente, noi non abbiamo mai potuto andare a trovarlo: Gaza è irraggiungibile; lo era prima e lo è adesso».
Lo sguardo si sposta, quasi a cercare Vittorio per la stanza ancora tappezzata di poster: ecco la gigantografia di papà Ettore giovanissimo, che bacia la terra di Cuba sotto lo sguardo fiero del Che Guevara; poi un'infinità di Kurt Cobain, il vate del male di vivere, dell'inutilità di un'esistenza alienante, il profeta dell'attacco diretto al potere.
Il ritratto di Vittorio, andato a morire per Gaza emerge vivido, straziante, dalle parole semplici della madre: «Non credo alla versione ufficiale, del braccio di armato di Hamas che avrebbe fatto irruzione nel covo nel tentativo di liberare Vittorio, né del blitz fallito. Dalle immagini che ho potuto vedere, penso sia stato ammazzato di botte; avrà sicuramente reagito al sequestro: pacifista finché vogliamo, sono certa che abbia opposto resistenza sin dal momento in cui è stato prelevato dalla sua abitazione». I genitori attenderanno in paese il rimpatrio della salma, tuttora peraltro incerto: «Per noi non c'è modo di raggiungere Gaza City, perciò attenderemo qui, serenamente, il momento in cui potremo vedere la bara di Vittorio».
Donna tenace, di una tempra rara ed esemplare, Egidia Beretta non cela le emozioni: ha sempre realmente condiviso con convinzione profonda gli ideali del figlio; aggiunge: «Vittorio diceva che tutte le vite sono spendibili, ma alcune più di altre: tra queste, includeva la propria. Si era messo a disposizione totalmente per la difesa dei civili palestinesi: per la vita e per la morte; metteva in conto che potesse succedere. Tutti noi, e Vittorio per primo, sapevamo quali erano i rischi: cecchini israeliani, granate contro i pescherecci, arresti, torture; era tutto uno scenario possibile, attraverso il quale anzi Vittorio già era passato. C'era la consapevolezza che in una delle sue azioni a difesa dei civili potesse andare incontro a estreme conseguenze; un sequestro, però, no; l'estremismo religioso non era previsto».
I minuti sono trascorsi lenti nella casa paterna di via Giovanni XXIII, nella notte in cui la vita di Vittorio spirava in un ultimo soffio: è stato ritrovato impiccato in una casa abbandonata; mentre la prima versione ufficiale parlava di un raid, altre fonti hanno accreditato la tesi del ritrovamento da parte della polizia in seguito a una segnalazione anonima. «L'altra notte contavo gli istanti – dice la mamma – I sequestratori avevano lanciato l'ultimatum, le 30 ore sarebbero scadute venerdì alle 16; se nessuno telefona prima, mi ripetevo, significa che va ancora bene; il tempo passava e tutto era silenzio. Mi sono anche detta: certo che ci vuole un bel fegato se fanno girare in Internet un altro filmato». Il terrore, agghiacciante, era quello di una possibile esecuzione in diretta. La notizia di una morte annunciata, ma senza testimoni è giunta invece confusamente alla famiglia dapprima con una telefonata attorno alle 3 e mezzo, in inglese: «E' una vergogna per noi palestinesi ciò che è stato fatto a Vittorio», ha detto un amico fraterno del 36enne bulciaghese, che tuttavia invitava ancora a sperare; di lì a poco, invece, la chiamata di due compagne del movimento nel quale il giovane militava: hanno annunciato il ritrovamento del cadavere, con tutti i dettagli. «Il corpo era stato ritrovato e già trasferito allo Shifa Hospital a Gaza City, noi abbiamo solo chiesto chi avesse eseguito il riconoscimento». L'ultimo, flebile anelito di speranza è stato smorzato in un istante: «Erano state le compagne stesse a identificarlo – aggiunge la mamma – Vittorio era già morto da tanto, a quanto mi hanno riferito le ragazze e dalle immagini che abbiamo potuto vedere. Per quanto abbiamo visto, potrebbe essere morto per le percosse». Prima ancora dello scadere dell'ultimatum ad Hamas del gruppo salafita che lo aveva prelevato da casa nella notte tra mercoledì e giovedì: trenta ore ad Hamas per scarcerare i suoi leader in cambio del rilascio. Tutto tragicamente inutile.
Patrizia Zucchi
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