Arbeit macht frei - riconosciuta ai profughi eritrei in Libia la libertà di lavorare come schiavi.
Chi garantirà il diritto d’asilo e chi salverà i feriti e le vittime di tortura?
Un"Accordo di liberazione e residenza in cambio di lavoro", secondo il ministro della Pubblica Sicurezza Libico, il generale Younis Al Obeidi, dovrebbe consentire ai 250 rifugiati eritrei rinchiusi nel carcere libico di Brak, nei pressi di Sebha, in Libia la libertà: la libertà di essere schiavi a tempo indeterminato in un campo di lavoro libico senza alcun riconoscimento del loro diritto di asilo e senza alcuna garanzia che gli abusi che hanno già subito non continuino.
Il"lavoro socialmente utile in diverse shabie (comuni) della Libia", loro promesso, che una parte soltanto dei detenuti di Sebha ha accettato, non permetterà loro alcuna libertà di circolazione, come spetterebbe a qualunque titolare del diritto di asilo, e li consegnerà ad una rigida catena gerarchica che esigerà da loro un vero e proprio lavoro forzato.
Che fine faranno poi coloro che non accetteranno l’imposizione di questa ulteriore deportazione? Quali mezzi di persuasione verranno impiegati?
Il lavoro promesso in cambio della libertà appare solo come un tentativo di disperdere il gruppo di profughi eritrei, da giorni vittima di torture e violenze da parte della polizia libica, e rendere più difficili le inchieste internazionali sulle responsabilità di questa ennesima deportazione violenta subita da persone che avrebbero dovuto essere accolte come rifugiati.
Se questo è anche il risultato dell’intervento del governo italiano non ci si può certo stupire per tanta “umanità”, nelle stesse ore nelle quali a Roma la polizia di Maroni ha caricato a freddo, con una violenza che purtroppo sta diventando consuetudine in ogni manifestazione di protesta, migliaia di cittadini aquilani che protestavano per l’abbandono nel quale il governo ha lasciato il loro territorio dopo i mesi di propaganda elettorale.
I rifugiati eritrei, che si trovano nel centro di detenzione di Braq da 8 giorni, durante i quali sono stati maltrattati e torturati, nel silenzio di tutte le autorità italiane che si sono dovute accorgere del caso soltanto dopo che alcune associazioni umanitarie, RaiTre e l’Unità avevano avviato una mobilitazione che ogni giorno va crescendo, avevano fatto appello all’Italia e all’Europa per essere inseriti in un programma di ritrasferimento in Europa verso paesi che avrebbero riconosciuto effettivamente il loro diritto di asilo.
Maroni non può affermare che "Il governo italiano non ha alcuna responsabilità nella vicenda dei profughi eritrei trattenuti in Libia", per il ministro “resta indimostrato che gli eritrei abbiano fatto parte degli 850 respingimenti”. Le sue dichiarazioni sono smentite da diverse testimonianze, una delle quali, raccolta da un giornalista del Manifesto, conferma che tra i reclusi di Brak vi sono diversi migranti respinti lo scorso anno in Libia dai mezzi militari italiani. E su queste vicende, presto, la Corte Europea dei diritti dell’Uomo potrebbe emettere una sentenza di condanna per i respingimenti collettivi verso la Libia, vietati da tutte le convenzioni internazionali, effettuati dal nostro paese a partire dal 7 maggio dello scorso anno.
Maroni afferma oggi che "se si chiederà al nostro governo di fare una missione umanitaria in Libia, il ministro degli esteri ne vaglierà l’opportunità, ma. Dall’Europa non è venuto nessun interessamento, cosa davvero singolare e incredibile perchè dovrebbero essere proprio le istituzioni europee ad intervenire e non a chiedere ad altri di farlo". Quella missione è doverosa perchè la impone un ordine del giorno già approvato lo scorso anno quasi all’unanimità dal Parlamento ( ordine del giorno Marcenaro), e l’Europa non è tenuta a risolvere i guai che combina la collaborazione del governo italiano con il regime di Gheddafi.
Da parte sua l’Europa, meglio, il Parlamento Europeo lo scorso 17 giugno hanno ricordato a tutti, e dunque anche al governo italiano, che in Libia vengono violati i diritti fondamentali dei migranti e dunque dovrebbero cessare quelle forme di collaborazione, come i respingimenti, che rendono possibili le più terribili violazioni dei diritti fondamentali della persona. Quelle violazioni che qualcuno forse in Italia ritiene accettabili, come effetti collaterali del “successo storico” consistente nel blocco degli arrivi, in gran parte di potenziali richiedenti asilo come appunto erano e sono gli eritrei incarcerati a Brak. Domandiamo agli italiani se si sentano più sicuri dopo questo scempio di umanità.
Maroni non può eludere le responsabilità che anche a livello internazionale vengono attribuite all’Italia ed al suo governo. E’ vero che esistono accordi bilaterali con almeno 30 Paesi ma non si può concordare con il ministro dell’interno quando afferma che “questo non vuol dire che dobbiamo occuparci di quello che accade in ciascuno di essi. Certo, la Libia ci è vicina, non avrei obiezioni personalmente a un’azione di tipo diplomatico, ma più e meglio di noi dovrebbe fare l’Unione europea". Secondo il ministro, da parte dell’Europa c’è stato "un atteggiamento di disinteresse incredibile e singolare’’.
La verità che il governo italiano non vuole ammettere è che gli altri accordi bilaterali sono solo accordi di riammissione, ma non prevedono il respingimento collettivo in acque internazionali, come nel caso degli accordi con la Libia, in particolare per effetto dei protocolli aggiuntivi stipulati dallo stesso Maroni con il ministro dell’interno libico nel corso di una missione lampo nei primi giorni di febbraio dello scorso anno. Lo stesso accordo tra Spagna e Marocco, troppo spesso richiamato a sproposito, ha consentito il respingimento di natanti fermati in acque marocchine, e non i acque internazionali, ed in ogni caso il Marocco, a differenza della Libia, aderisce alla Convenzione di Ginevra e consente, sia pure con gravi limiti le attività dell’UNHCR ( Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati).
Il ministro Maroni dovrebbe ricordare bene la differenza degli accordi con la Libia rispetto agli altri accordi di riammissione che l’Italia ha stipulato con altri paesi dal 1998 in poi, perché è stato proprio lui l’artefice delle nuove regole operative che nel febbraio 2009 ( quando restò chiuso all’interno di un ascensore guasto in un ministero libico, tanto per ricordare) hanno integrato i protocolli firmati da Amato nel dicembre del 2007, poi recepiti ed espressamente richiamati nel Trattato di amicizia italo-libico sottoscritto da Berlusconi nell’agosto del 2008. Contro tutte le ipocrisie e le manovre strumentali coperte da una disinformazione sistematica che il governo impone o suggerisce alla maggior parte degli organi di stampa, con la coraggiosa resistenza di Rai Tre, dell’Unità e di qualche altro giornale, continuiamo a chiedere la liberazione immediata e incondizionata di tutti i profughi eritrei detenuti a Brak, l’accesso per tutti coloro che lo chiedano alla procedura di asilo e ad un ritrasferimento in un paese firmatario della Convenzione di Ginevra. Chiediamo anche che la Libia, con la copertura politica e finanziaria del governo italiano, cessi le deportazioni di potenziali richiedenti asilo e di soggetti vulnerabili come donne e minori verso paesi dittatoriali nei quali potrebbero subire torture o trattamenti inumani o degradanti. Nei giorni scorsi centinaia di nigerini presenti in Libia sono stati deportati in Niger, come riferisce la stessa agenzia di stampa ufficiale Jana, senza che a nessuno di essi fosse consentito chiedere asilo in Libia o far valere la protezione internazionale.
Chiediamo ancora una volta ai parlamentari italiani di impegnarsi per la sospensione del Trattato di amicizia con la Libia, in base al quale l’Italia dovrà pagare a Gheddafi diversi miliardi di euro nei prossimi anni per continuare a garantirsi il blocco degli sbarchi, e lucrosi affari per alcune nostre imprese. Un blocco che produce esattamente quella tragedia umanitaria e quei corpi violati, nel carcere di Brak come in altre parti della Libia, che nessuna velina ministeriale potrà mai occultare. Il lavoro forzato non rende liberi, “Arbeit macht frei” stava scritto sulla porta del lager di Auschwitz.
Fulvio Vassallo Paleologo
Università di Palermo
[ mercoledì 7 luglio 2010 ]
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