Il lavoro cinese ritrova un diritto
Da ieri sono in vigore le nuove norme che proteggono i lavoratori in modo molto più articolatoLa controffensiva delle imprese: orde di avvocati per «circoscrivere» le conseguenze pratiche della nuova legge. E riscrittura autoritaria di nuovi contratti per mantenere il più a lungo possibile i «vecchi» vantaggi nei confronti della forza-lavoro
Angela Pascucci
Vigilia di Natale. Centinaia di massaggiatrici non vedenti del Mang Bing Massage Centre di Shenzhen, nella provincia meridionale cinese del Guangdong, si ammassano davanti all'ufficio del lavoro della Zona economica speciale per chiedere giustizia contro il loro padrone. Un mascalzone che, approfittando della loro difficoltà a leggere, ha fatto sottoscrivere a tutte un accordo per mettere fine al vecchio contratto e firmarne uno nuovo. Le donne si sono fidate. Ignoravano che dall'1 gennaio una nuova legge avrebbe loro assicurato migliori condizioni di lavoro e garantito, in alcuni casi, un contratto a tempo indeterminato. Il boss, con tutta evidenza, lo sapeva benissimo ed è corso per tempo ai ripari. Come lui, un esercito di padroni e padroncini; tanto che a metà dicembre le autorità del Guangdong hanno emesso una tardiva ordinanza che imponeva a chi volesse licenziare più di 30 dipendenti o più del 10% della propria forza lavoro di chiedere l'autorizzazione al governo locale. La storia, poco edificante, narra che con l'entrata in vigore della nuova legge sui contratti di lavoro, dal primo gennaio la Cina potrebbe diventare, ancora una volta, un'altra Cina. Potrebbe. Dovrebbe. Sul terreno che si estende tra il condizionale e la realtà è in corso uno scontro cruento, dall'esito non scontato ma dagli effetti planetari, visto che in Cina si trova il 25% della forza lavoro mondiale e che il 60% dell'export cinese è prodotto da multinazionali straniere. I vertici delle compagnie guidano l'attacco. Dopo aver combattuto a lungo contro la nuova legislatura, dalla sua approvazione, il 29 giugno scorso, hanno mobilitato schiere di consulenti legali per aggirare, piegare, reinterpretare le nuove norme che oggi proteggono i lavoratori cinesi con una chiarezza mai tanto codificata prima. E mentre nelle retrovie i legulei scavano, sul palcoscenico è messa in scena la tragedia: è la fine, ce ne andiamo, i costi saranno insostenibili, i tempi sono già grami, la Cina senza manodopera a prezzi stracciati non ci conviene. Intanto fioccano i licenziamenti preventivi. «Potere al popolo», niente di meno, è il titolo di un editoriale pubblicato a novembre sul China International Business. L'autore, Steven M. Dickinson, oltre a tenere il China Law Blog è anche consulente d'impresa e, come biasimarlo, cerca di alzare il prezzo delle proprie prestazioni. E' però innegabile: in Cina dall'anno prossimo i rapporti fra padroni e lavoratori cambieranno in modo sostanziale visto che, almeno sulla carta, sono assicurati ai dipendenti diritti e protezioni che persino nel cosiddetto occidente sviluppato stanno diventando merce rara. I punti più dirompenti, rispetto all'esistente, sono quelli che impongono alle imprese di assumere a tempo indeterminato i lavoratori con più di dieci anni di anzianità e quelli che abbiano già completato due contratti a tempo determinato. Tanto per capire, sotto la precedente legge il numero dei contratti a termine, alla fine dei quali si poteva licenziare senza problemi, era illimitato.Un altro mondo, rispetto alla giungla attuale. I consigli scodellati in tempo reale dagli «esperti» hanno però aiutato le compagnie a riprendersi in parte dallo shock. Due le vie maestre indicate per aggirare la legge, o quanto meno ridurre il danno: la prima è chiudere tutti i vecchi rapporti di lavoro e concordarne di nuovi prima dell'1 gennaio, con i dipendenti prescelti. La seconda è cambiare la natura dei contratti stessi ricorrendo agli appalti esterni. Molto raccomandato l'outsourcing tra due contratti a tempo determinato.Istantanea l'applicazione dei consigli. Il caso più clamoroso, per l'eco avuta in patria e all'estero, è stato quello della compagnia di telecomunicazioni Hua Wei Technologies di Shenzhen, che già a settembre ha chiesto a 7.000 dipendenti con oltre otto anni di anzianità di servizio (incluso l'amministratore delegato, tanto per non destare sospetti) di dimettersi volontariamente per poi firmare nuovi contratti a termine, che avrebbero riportato indietro l'orologio dell'anzianità. Le dimensioni della faccenda ne hanno fatto un caso nazionale, la punta dell'iceberg che ha rivelato come l'applicazione della legge potesse essere elusa o almeno rallentata. All'inizio l'impresa ha cercato di negare tutto poi la riprovazione universale l'ha costretta ad andare a Canossa e a negoziare un accordo col sindacato che l'aveva denunciata di sabotare, con le sue pratiche, la costruzione della «società armoniosa» tanto cara al governo centrale.Nonostante lo scandalo, la Hua Wei si è trovata presto in buona compagnia nel nuovo sport nazionale del «licenzia e riassumi quando ti conviene». Il 17 novembre dal quartier generale della Carrefour Cina è partita una e-mail indirizzata al dipartimento risorse umane di ciascuno dei centri commerciali del paese con la richiesta di far firmare a 40mila dipendenti un nuovo contratto a tempo determinato della durata di due anni con decorrenza dal 28 dicembre 2007. La compagnia si è difesa affermando che voleva solo mettersi in regola con le nuove disposizioni. Ma i lavoratori più anziani rischiano di sicuro, se non la falcidie, l'azzeramento dei diritti pregressi. Né poteva mancare Wal Mart che, alla spicciolata, è riuscita a licenziare 200 dipendenti nei propri magazzini di stoccaggio e distribuzione delle merci. La televisione centrale cinese Cctv, invece, ha messo fuori immediatamente 1.800 interinali. La Kaixing Plastic & Metal Factory, fabbrica di giocattoli di Huizhou, nel Guangdong, più fantasiosa, ha chiesto di firmare il primo contratto della loro vita ai dipendenti più anziani. Gli è stato promesso che il salario non cambierà ma sulla carta firmata l'importo è più basso. Prendere o lasciare. L'applicazione della legge, con tutta evidenza, è vista come una jattura. E' comprensibile: vedersi erodere d'un colpo i profitti del 10-20% e proprio in Cina, per garantire i diritti dei lavoratori, può essere traumatizzante. Non erano queste le regole del gioco, quando ci si è seduti al tavolo. Tanto più che la congiuntura economica cinese si è fatta difficile, tra rivalutazione dello yuan, aumento dei costi dei terreni e delle materie prime, spese in espansione per la riduzione, ormai obbligatoria, dell'inquinamento provocato, crescita dei salari che, a prescindere dalla nuova legge, era una realtà in atto già da tempo nelle zone della costa e in quelle metropolitane (solo nei primi sei mesi del 2007 sono aumentati in media del 17%). La nuova legge, che sconvolge tutti i paradigmi correnti, irrompe con particolare forza nel segmento più basso, quello che comprende il terziario, le costruzioni, la manifattura. E che da sempre prospera, non solo in Cina, su salari miserrimi, evasione dei contributi e flessibilità. Il settore che comunque ha fatto del paese la «fabbrica del mondo».Non è un caso che i lamenti più alti arrivino dalle compagnie che si distinguono per le pratiche di sfruttamento più brutali e per la rozza struttura di impresa (eproprio per questo più a rischio di fallimento). Le previsioni di alcuni consulenti, riportate dall'agenzia Reuters il 18 dicembre scorso, danno già per certa la chiusura di centinaia di piccole e medie imprese taiwanesi nel Guangdong, mentre molte altre trasferiranno le attività nelle zone meno sviluppate dell'entroterra cinese o trasmigreranno in Vietnam. Joint ventures coreane a giapponesi minacciano di chiudere tutto e lasciare lo Shandong. C'è chi accusa la legge di voler far tornare la «ciotola di riso», il lavoro garantito a vita, spazzando via così quella selvaggia competitività del lavoro che ha messo in orbita l'economia cinese e attirato miliardi di investimenti. Paradossalmente, ma poi neanche tanto, le risposte rassicuranti vengono dai sindacati. Guo Jun, direttore del Dipartimento per il Management democratico dell'Actfu di Pechino, ad esempio, ha spiegato al Los Angeles Times che i padroni avranno ancora molta flessibilità grazie al part-time e che in ogni caso i contratti a lungo termine significano più lealtà da parte dei lavoratori. Il ruolo del sindacato nel New Deal pone un altro interrogativo. Ignorata nel settore privato, delegittimata in quello pubblico per il suo ruolo di cane da guardia del management, l'Acftu torna ad avere, grazie alla legge, un ruolo centrale. Come lo svolgerà è tutto da vedere, data la sua particolarissima natura, ben illustrata dalla storia di Liu Zhaoguang che il South China Morning Post ha raccontato il 28 dicembre. Liu, 50 anni, camionista in una compagnia statale, il 15 novembre ha ricevuto la comunicazione che il suo contratto, già scaduto alla fine di ottobre, non sarebbe stato rinnovato per raggiunti limiti di età. Si è rivolto al sindacato, ma si dà il caso che il capo della sua sezione sindacale sia anche il vice direttore della compagnia che lo ha licenziato. Non dappertutto vige questa profana commistione, ma di certo non c'è nessuna regola che la impedisca. C'è poi chi di dice che in Cina c'è già, dal 1995, una buona legge sul lavoro che stabilisce le 40 ore settimanali, il limite e il pagamento degli straordinari, e tutto il resto. Ma non viene fatta rispettare. Perché per la nuova legge dovrebbe essere diverso? Già il fatto che molti lavoratori cinesi ancora ignorino le nuove regole, non depone bene per la riuscita della causa. Raggiungere 200 milioni di migranti, i lavoratori più sfruttati e ricattati, richiederebbe una campagna d'informazione ben più imponente di quella messa in atto. E tuttavia questa legge ha buone probabilità di essere applicata, perché è il momento storico che lo richiede. C'è una leadership assediata da proteste e rivolte che ha fatto del «people first» e della crescita anche qualitativa il suo cavallo di battaglia, consapevole che le contraddizioni alla lunga si esasperano ed esplodono. Inoltre, dopo 30 anni di riforme, il paese sta di nuovo cambiando pelle e trasformando le sue modalità di transizione. C'è chi interpreta l'aumento del costo del lavoro come una strategia deliberata per spingere l'industria manifatturiera verso un modello di produzione più evoluto, dove il profitto non sia solo rapina delle risorse, materiali e umane, ma dia una spinta virtuosa all'intero sistema, aumentando la capacità di acquisto dei consumatori. Un intreccio che l'Occidente, gretto e in smobilitazione politica, ha gettato disinvoltamente nella spazzatura della storia. Sarebbe davvero paradossale se, alla fine, il «modello cinese» ritornasse indietro capovolto, a svolazzare beffardo sulle rovine del welfare europeo.
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