mercoledì 3 ottobre 2007

ferocia dell'antidemocrazia americana

Dossier tortura – Un'analisi di H. Bruce Franklin, University of Rutgers, New Jersey
Le prigioni americane e la normalizzazione della torturadi H. Bruce Franklin
Com’è possibile che l’opinione pubblica americana, che si è ribellata alle violenze di Abu Ghraib, sembri accettare – se non, addirittura, appoggiare entusiasticamente – le centinaia di Abu Ghraib di cui si compone il sistema carcerario americano?
La prigione è ormai un’istituzione centrale nella società americana, sullo stesso piano della politica, dell’economia e della cultura. Tra il 1976 e il 2000, gli Stati Uniti hanno costruito in media una prigione alla settimana e, nello stesso periodo, la quota dei cittadini americani detenuti è decuplicata. Con un’attuale popolazione carceraria di due milioni di persone, l’America è diventata l’indiscusso leader mondiale delle prigioni. La prigione ha reso la minaccia della tortura parte integrante della vita quotidiana di milioni di individui; in particolar modo, per quei 6,9 milioni di americani attualmente in carcere o comunque sotto il controllo del sistema penale. Peggio ancora: l’apparato carcerario ha contribuito a fare della tortura una parte normale, legittima, perfino consueta della cultura americana.Si può dire che anche l’imprigionamento stesso, perfino quando relativamente benefico, è una forma di tortura. Nella nostra società è implicito utilizzare la prigione come la forma più rigorosamente legale di punizione e deterrenza (a eccezione della pena capitale). Inoltre, nella tipica prigione statunitense – progettata e diretta in modo da massimizzare degradazione, brutalità e castigo – la tortura esplicita è all’ordine del giorno. Percosse, shock elettrici, esposizione prolungata al calore, immersione nell’acqua bollente, atti di sodomia per mezzo di bastoni, manganelli, torce elettriche e ramazze, prigionieri incatenati costretti a giacere nei loro escrementi per ore o per giorni interi, periodi di isolamento che durano mesi, stupri e perfino omicidi – perpetrati dalle guardie carcerarie o, dietro loro istruzioni, da altri prigionieri. Tutto questo è routine, nel sistema carcerario Usa.L’uso del sesso e dell’umiliazione sessuale come tortura ad Abu Ghraib e nelle altre prigioni Usa in Iraq è endemico, nelle strutture detentive statunitensi. La tortura sessuale (psicologica e fisica) è aggravata dal fatto che ai prigionieri è negata qualunque possibilità di avere rapporti sessuali consenzienti: e le uniche due attività sessuali fisicamente praticabili - masturbazione e omosessualità - sono considerate spregevoli e meritevoli di punizione. Ogni giorno in molte prigioni vengono effettuate ispezioni corporali, invasive e spesso volutamente dolorose, che comprendono bocca, ano, testicoli e vagina, frequentemente accompagnate da violenze sessuali fisiche o verbali. Un rapporto del 1999 di Amnesty International ha dimostrato come, nelle carceri femminili, lo stupro delle detenute da parte delle guardie sia assai diffuso.Ogni anno, numerosi detenuti sono storpiati, mutilati e perfino uccisi dalle guardie carcerarie. Nelle prigioni americane si potrebbero scattare tutti i giorni fotografie che, nello sconvolgere l’opinione pubblica, farebbero a gara con quelle di Abu Ghraib. Infatti, da qui provengono alcune immagini che mostrano atrocità perfino peggiori di quelle che sono state immortalate in Iraq. Per esempio, nessuna delle fotografie di Abu Ghraib ha ancora pareggiato quelle raffiguranti le decine di prigionieri selvaggiamente e impietosamente torturati dalle guardie e dalle truppe statali, subito dopo la rivolta di Attica del 1971. Immagini ancora più spaventose si possono vedere nel documentario Maximum Security University, dedicato alla prigione statale californiana Corcoran. Per anni, a Corcoran le guardie hanno organizzato combattimenti tra i prigionieri, con relativo giro di scommesse, sparando ai detenuti per convincerli a lottare, ferendone gravemente almeno 43 e uccidendone 8: tutto questo solo nel periodo tra il 1989 e il 1994. La pellicola mostra cinque incidenti diversi in cui le guardie, senza alcuna giustificazione legale, hanno sparato e ucciso prigionieri disarmati. Ci si potrebbe chiedere: ma se le torture sono così comuni nelle carceri americane, allora perché quanto successo ad Abu Ghraib ha provocato un simile scandalo? La risposta a questa fondamentale domanda risiede nella storia del sistema carcerario americano e nella funzione della prigione nella cultura contemporanea.Prima della Rivoluzione Americana, l’imprigionamento era solo di rado usato come punizione, in Gran Bretagna, ed era ancora più raro nelle colonie d’oltreoceano. Secondo il famigerato “Bloody Code” inglese, le pene più comuni erano le esecuzioni e varie forme di tortura fisica - fustigazione, ceppi, gogna, marchio a fuoco, mutilazione, castrazione, eccetera - tutte pensate per essere spettacoli esemplari per la comunità. Il sistema delle prigioni, invece, istituzionalizza l’isolamento e la segretezza. Le mura delle carceri non servono soltanto per tenervi rinchiusi i condannati, ma anche per tener fuori gli altri, impedendo dunque che si venga a sapere che succede all’interno. A tutti inaccessibile, tranne che ai detenuti e alle guardie, la prigione diventa così un luogo dove le torture più indicibili possono essere perpetrate senza impicci. E, in quanto misteriosa, la prigione può anche diventare un luogo primario dell’immaginazione.Il sistema moderno fu concepito dai riformatori americani, convinti che la tortura non fosse accettabile e che, d’altra parte, i criminali avrebbero potuto essere “recuperati” alla società civile tramite carcere, lavoro e “penitenza”. Ma con il sorgere del capitalismo industriale, il lavoro a costo-zero delle prigioni divenne una forte di superprofitti: il trend subì un’accelerazione durante la guerra di secessione, e il “penitenziario” divenne un luogo di schiavitù industriale, diretto a colpi di frusta e altre brutalità. Prima della guerra di secessione, la principale forma di prigionia - la schiavitù degli afro-americani - non era considerata una tortura, come non lo era il penitenziario. La schiavitù non venne mai considerata per quello che era realmente, attraverso la considerazione che gli schiavi venivano giustamente puniti per azioni criminose. Una delle principali linee di difesa culturali della schiavitù sosteneva addirittura che gli schiavi fossero felici. Le cose cambiarono nel 1865; il 13esimo emendamento abolì la vecchia schiavitù e ne iscrisse nella Costituzione una nuova tipologia, per coloro definiti criminali: “Né la schiavitù né la servitù coatta, eccetto come punizione per un crimine per il quale la parte sarà stata debitamente riconosciuta colpevole, potranno esistere all’interno degli Stati Uniti...”.In quel momento, le torture comunemente inflitte agli schiavi, soprattutto fustigazioni, divennero un aspetto tipico della principale istituzione penale: la prison plantation. La piantagione del periodo prebellico stava emergendo, con il “penitenziario”, come fondamenta del moderno sistema carcerario americano. Ironicamente, la deprivazione del sesso non era caratteristica della vecchia piantagione, dove la prolificità degli schiavi era considerata un’ulteriore fonte di profitto [i figli degli schiavi erano proprietà dei padroni, NdT]. Al contrario, nella prigione americana moderna, dove la gente di colore è in larga maggioranza, la vecchia e patologica paura della sessualità del Nero è diventata un fattore decisivo per l’introduzione della tortura sessuale. La vera natura della prigione americana cominciò a essere conosciute tramite l’impressionante boom della “letteratura carceraria”, a cavallo degli anni ’60 e ’70. Il fiume di questo tipo produzione letteraria investì in pieno la cultura popolare, attraverso libri, canzoni, riviste e film, influenzando prepotentemente la vita politica di quell’epoca. La risposta fu una massiccia repressione. La maggior parte degli stati federati approvarono leggi che vietavano ai detenuti-scrittori di ricavare profitti dai loro lavori. Furono tagliati i fondi ai corsi di scrittura creativa nelle prigioni. Quasi tutte le riviste letterarie che solevano pubblicare poesie e racconti scritti dai prigionieri furono annientate. Furono approvati regolamenti federali che stabilivano esplicitamente il “divieto all’accesso ai media” per quei prigionieri le cui opinioni fossero “non convenzionali”. I detenuti furono così del tutto isolati e imbavagliati.Una volta chiusa la bocca ai prigionieri, fu il turno del successivo, allucinante passo. Fu lanciata una campagna frenetica e senza precedenti di costruzione di strutture detentive, presto riempite oltre le loro capacità ricettive grazie all’aiuto di severissime sentenze imperative, leggi tipo three-strikes-and-you’re-out (letteralmente, “tre strike e sei spacciato”: ovvero, la recidiva può costare l’ergastolo) e la cosiddetta “guerra alla droga” - eufemismo dietro al quale si nasconde la repressione ai danni della popolazione povera, tanto subdolo quanto quello odierno della “guerra al terrore”, puro pretesto per invadere Afghanistan e Iraq. Com’è possibile che l’opinione pubblica americana, che si è ribellata alle violenze di Abu Ghraib, sembri accettare – se non, addirittura, appoggiare entusiasticamente – le centinaia di Abu Ghraib di cui si compone il sistema carcerario americano? Intimamente collegato al boom della costruzione di nuove prigioni, si è verificato un boom nell’immaginario della prigione: le segrete mura del carcere rafforzano quel complesso set di fantasie culturali che, in definitiva, fungono da agenti di questa sorta di “negazione collettiva”.Perfino rappresentazioni superficialmente realistiche, come la serie televisiva “Oz”, finiscono per mascherare e normalizzare il vasto complesso della tortura istituzionalizzata. Forse l’immagine dominante, diffusa dai primi sostenitori di quella frenetica prison-building, è quella che raffigura la prigione come una sorta di campeggio estivo per criminali, in cui i detenuti bighellonano placidamente, guardando la TV e facendo ginnastica. Come ricordato, le false rappresentazioni della schiavitù incoraggiarono, negli stati del Sud, la negazione di quella drammatica realtà. Analogamente, le false rappresentazioni delle tante Abu Ghraib americane non solo favoriscono una simile negazione, ma permettono anche la riproposizione di questo modello a Guantanamo, a Baghdad, nel deserto afghano. Di più: ovunque il nostro governo e la nostra cultura decidano di costruire, in futuro, nuove cittadelle della tortura.
H. Bruce Franklin, attivista per i diritti umani, è un'importante storico statunitense. È autore di una ventina di libri e di centinaia di articoli sulle prigioni americane, sulla guerra del Vietnam e su molti altri temi. Attualmente è 'the John Cotton Dana Professor of English and American Studies' all'Università Rutgers, l'ateneo statale dello stato del New Jersey. Il suo sito è http://andromeda.rutgers.edu/~hbf, la sua e-mail hbf@andromeda.rutgers.edu.
Fonte: http://www.historiansagainstwar.org/resources/torture/brucefranklin.htmlTradotto da Paolo Cola per Nuovi Mondi Media

Venerdì, 17 Marzo 2006 - 23:08

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