giovedì 29 novembre 2007

uso truffaldino della Biagi (è nata per questo)

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La menzogna del lavoro “flessibile”Sei atipici su dieci per pagare meno
Solo il 39 per cento dei contratti a termine è legato a reali esigenze dovute al ciclo economico o al tipo di produzione. Prevale nelle imprese invece l’intenzione di ridurre il costo del lavoro e la valutazione del costo-opportunità legato alla possibilità di licenziare. Per l’83 per cento dei lavoratori con “scadenza” non è una scelta volontaria. L’anticipazione dell’indagine Plus dell’Isfol su 40 mila persone
di FEDERICO PACE
Non ci sono i cicli economici a giustificare la gran parte dei contratti a tempo che gli italiani sono costretti ad accettare come pegno per accedere al primo girone del mercato del lavoro. Non ci sono i picchi di produzione e le commesse che arrivano e poi scompaiono a spiegare il perché i giovani, le donne e gli over 50 sono costretti a non rifiutare un’offerta di lavoro a tempo pur di salire su quel primo gradino che sta distante dalla cittadella, sempre più piccola e disabitata, del lavoro a tempo indeterminato. Sì, perché le esigenze di flessibilità produttive e organizzative spiegano solo una parte minoritaria del ricorso delle imprese ai contratti atipici.
I risultati sono contenuti nell’anticipazione del rapporto Plus dell’Isfol presentata oggi e che nella sua completezza verrà pubblicata ai primi dell’anno prossimo e realizzata su un campione di 40 mila individui. Ma vediamoli i motivi che giustificano i contratti atipici. Solo il 17 per cento dei contratti temporanei è legato a lavoro stagionale o a picchi di produttività. C’è poi un altro 12 per cento collegato a un progetto a commessa e infine un altro 10 per cento legato alla sostituzione di personale temporaneamente assente.
E allora, perché tutto questo ricorso ai contratti atipici? E allora, perché utilizzare nuovi contratti di lavoro se non ci sono esigenze di flessibilità produttiva? Per la gran parte dei casi, dicono gli autori del rapporto, “la scelta di fare assunzioni temporanee” sembra “sia dovuta alla tendenza di ridurre il costo del lavoro e il costo-opportunità legato alla possibilità di licenziare”.
Il fenomeno, si sa, non è relegato a piccoli numeri. Riguarda infatti il 24 per cento dei giovani, il 12 per cento di chi risiede nel Mezzogiorno e il 13 per cento delle donne con un impiego. E quasi la metà dei contratti atipici è stata già rinnovata almeno una volta “avvalorando – spiegano gli autori dell’indagine – per queste posizioni il ricorso sistematico ad un fattore lavoro flessibile”. L’indagine ribadisce che la gran parte degli occupati a termine (l’83 per cento) vive non volontariamente “la condizione di non stabilità derivante dal contratto”.
Nell’indagine di approfondimento del lavoro atipico ci sono però anche elementi che introducono qualche speranza. La metà delle persone intervistate reputa infatti possibile “migrare” verso un contratto a tempo indeterminato. Ma sono soprattutto gli elementi di non volontarietà a colpire. Anche il lavoro interinale è una scelta obbligata per la gran parte delle persone. Il 76 per cento degli intervistati lo ha accettato come ripiego e solo una parte minoritaria (il 18 per cento) lo sceglie per accadere in seguito ad una condizione di impiego a tempo indeterminato. Anche per loro si registra l’iterazione del contratto (nel 58,4 per cento dei casi). Per gli “interinali” la speranza di passare a una condizione più stabile è molto bassa: solo un quarto lo ritiene possibile.
Anche per i collaboratori sembra permanere un uso distorto delle tipologie contrattuali. Anche quest’anno infatti molti di loro sono soggetti a vincoli tipici dei dipendenti: il 78,5 per cento lavora per un solo committente, il 64,32 per cento deve garantire la presenza regolare presso la sede dell’impresa, il 60,3 per cento ha un orario giornaliero, l’85,3 per cento usa mezzi, strumenti e strutture del datore e il 61,7 per cento ha rinnovato la collaborazione almeno una volta.
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