non c'è niente da festeggiare
pietro
mercoledì 30 aprile 2008
Paura e razzismo
----- Original Message -----
From: pietroancona@tin.it
To: silvano.stoppa@poste.it
Cc: lettere@corriere.it
Sent: Wednesday, April 30, 2008 9:23 AM
Subject: troppo buonismo
Se la sinistra ha perso è perchè ha fatto l'esatto contrario di quello che lei dice. Ferrero, Ministro della Solidarietà, si è recato a Padova a festeggiare la deportazione degli abitanti di Via Anelli e Veltroni ha chiesto ed ottenuto un decreto razziale a tamburo battente subito dopo l'omicidio della signora Reggiani mentre tutti i Sindaci PD hanno fatto a gara con i leghisti a chi la sparava più grossa contro i rom-.
Credo che l'avere ridotto la politica della sinistra ad una mucillagine della ideologia della destra assecondandone la campagna di spargimento a pieni mani della paura
abbia nuociuto alla sinistra che avrebbe dovuto difendere con assai più determinazione e senza cedimenti la civiltà del diritto ed una giusta politica di accoglienza degli stranieri.
Altro che buonismo!
La sinistra avrebbe dovuto proporre una legge di protezione degli immigrati dalle pretese di sfruttamento sessuale e dalla riduzione in vera e propria schiavitù dai datori di lavoro famelici profittatori della condizione di bisogno dei loro sottoposti.
Cari saluti.-
Pietro Ancona
Mercoledi' 30 Aprile 2008
(lettera al Corriere)
Troppo buonismo
Se la sinistra ha perso le elezioni politiche e se Rutelli non sarà sindaco di Roma, è perché i politici di quell'area non hanno capito che la questione principale per la gente comune è la sicurezza delle proprie città, del proprio Paese. Sarebbe veramente utile finirla con questo buonismo o pietismo da quattro soldi. Alcuni rappresentanti politici non hanno ancora capito che gli italiani non ne possono più di vedere campi nomadi sporchi e colmi all'inverosimile di persone che sopravvivono rubando. La sinistra, e non solo, deve finalmente comprendere che se uno straniero rapina una persona, il problema è il derubato e non il povero rumeno o l'extracomunitario che ruba perché è senza lavoro.
Silvano Stoppa, | silvano.stoppa@poste.it
From: pietroancona@tin.it
To: silvano.stoppa@poste.it
Cc: lettere@corriere.it
Sent: Wednesday, April 30, 2008 9:23 AM
Subject: troppo buonismo
Se la sinistra ha perso è perchè ha fatto l'esatto contrario di quello che lei dice. Ferrero, Ministro della Solidarietà, si è recato a Padova a festeggiare la deportazione degli abitanti di Via Anelli e Veltroni ha chiesto ed ottenuto un decreto razziale a tamburo battente subito dopo l'omicidio della signora Reggiani mentre tutti i Sindaci PD hanno fatto a gara con i leghisti a chi la sparava più grossa contro i rom-.
Credo che l'avere ridotto la politica della sinistra ad una mucillagine della ideologia della destra assecondandone la campagna di spargimento a pieni mani della paura
abbia nuociuto alla sinistra che avrebbe dovuto difendere con assai più determinazione e senza cedimenti la civiltà del diritto ed una giusta politica di accoglienza degli stranieri.
Altro che buonismo!
La sinistra avrebbe dovuto proporre una legge di protezione degli immigrati dalle pretese di sfruttamento sessuale e dalla riduzione in vera e propria schiavitù dai datori di lavoro famelici profittatori della condizione di bisogno dei loro sottoposti.
Cari saluti.-
Pietro Ancona
Mercoledi' 30 Aprile 2008
(lettera al Corriere)
Troppo buonismo
Se la sinistra ha perso le elezioni politiche e se Rutelli non sarà sindaco di Roma, è perché i politici di quell'area non hanno capito che la questione principale per la gente comune è la sicurezza delle proprie città, del proprio Paese. Sarebbe veramente utile finirla con questo buonismo o pietismo da quattro soldi. Alcuni rappresentanti politici non hanno ancora capito che gli italiani non ne possono più di vedere campi nomadi sporchi e colmi all'inverosimile di persone che sopravvivono rubando. La sinistra, e non solo, deve finalmente comprendere che se uno straniero rapina una persona, il problema è il derubato e non il povero rumeno o l'extracomunitario che ruba perché è senza lavoro.
Silvano Stoppa, | silvano.stoppa@poste.it
lunedì 28 aprile 2008
dopo il voto di Roma. Lettera a Padellaro
Caro Direttore,
le prime dichiarazioni di Rutelli sono rivolte alle questioni della sicurezza. Insomma continuerà l'inseguimento della destra sui temi xenofobi e fascisti securitari.Continuerà ad abiurare la cultura della civiltà e bramare quella fascista.
La rottura unilaterale con gli alleati di governo criminalizzati ed isolati come lebbrosi
ha indotto molti elettori della sinistra a non andare a votare. Perchè votare per coloro che hanno escluso dal Parlamento la sinistra rifiutando ogni dialogo e caricandola del fallimento del governo Prodi?
Culturalmente siete nell'orbita berlusconiana. Potete anche dargli Ichino e consentire l'abolizione dell'art.18.
E' un suicidio politico e morale. Siete finiti. Il PD esploderà a breve.
Pietro Ancona
le prime dichiarazioni di Rutelli sono rivolte alle questioni della sicurezza. Insomma continuerà l'inseguimento della destra sui temi xenofobi e fascisti securitari.Continuerà ad abiurare la cultura della civiltà e bramare quella fascista.
La rottura unilaterale con gli alleati di governo criminalizzati ed isolati come lebbrosi
ha indotto molti elettori della sinistra a non andare a votare. Perchè votare per coloro che hanno escluso dal Parlamento la sinistra rifiutando ogni dialogo e caricandola del fallimento del governo Prodi?
Culturalmente siete nell'orbita berlusconiana. Potete anche dargli Ichino e consentire l'abolizione dell'art.18.
E' un suicidio politico e morale. Siete finiti. Il PD esploderà a breve.
Pietro Ancona
domenica 27 aprile 2008
due lettere
Caro Direttore TG3,
nel telegiornale delle ore 19 fi ieri riferendo dell'assassinio dei due coniugi di Verona ad opera del giovane rumeno avete accuratamente evitato di parlare delle molestie sessuali del datore di lavoro causa scatenante della furia omicida.
La circostanza delle molestie sessuali è stata constatata dai carabinieri inquirenti. Ma parlarne non conviene quando si vuole creare un atmosfera di odio verso lo straniero.
Non c'è bisogno di vivere in un regime fascista conclamato per non subirne gli effetti più umilianti a cominciare da una distorta informazione.
E pensare che TG3 è stato in passato il telegiornale più ammirato per la sua obiettività e completezza di informazione
Pietro Ancona
----- Original Message -----
From: pietroancona@tin.it
To: ferdinando camon scrittore
Sent: Sunday, April 27, 2008 12:04 PM
Subject: una legge
Caro Camon,
lei che è autorevole e "padano" perchè non propone una legge di tutela degli immigrati dalle varie forme di schiavitù a cominciare di quella sessuale imposte da avidi datori di lavori privi di scrupoli nel seviziare persone indifese ed additate come mostri da una opinione pubblica avvelenata dalla xenofobia?
Il caso del giovane rumeno spinto all'omicidio a Verona dovrebbe aprire uno squarcio nell'inferno della vita di persone che sono prive di diritti ed in balia del sadismo di tanti italiani.
Pietro Ancona
nel telegiornale delle ore 19 fi ieri riferendo dell'assassinio dei due coniugi di Verona ad opera del giovane rumeno avete accuratamente evitato di parlare delle molestie sessuali del datore di lavoro causa scatenante della furia omicida.
La circostanza delle molestie sessuali è stata constatata dai carabinieri inquirenti. Ma parlarne non conviene quando si vuole creare un atmosfera di odio verso lo straniero.
Non c'è bisogno di vivere in un regime fascista conclamato per non subirne gli effetti più umilianti a cominciare da una distorta informazione.
E pensare che TG3 è stato in passato il telegiornale più ammirato per la sua obiettività e completezza di informazione
Pietro Ancona
----- Original Message -----
From: pietroancona@tin.it
To: ferdinando camon scrittore
Sent: Sunday, April 27, 2008 12:04 PM
Subject: una legge
Caro Camon,
lei che è autorevole e "padano" perchè non propone una legge di tutela degli immigrati dalle varie forme di schiavitù a cominciare di quella sessuale imposte da avidi datori di lavori privi di scrupoli nel seviziare persone indifese ed additate come mostri da una opinione pubblica avvelenata dalla xenofobia?
Il caso del giovane rumeno spinto all'omicidio a Verona dovrebbe aprire uno squarcio nell'inferno della vita di persone che sono prive di diritti ed in balia del sadismo di tanti italiani.
Pietro Ancona
il villaggio della paura ___ Barbara Spinelli
Il villaggio della paura
Non è la prima volta nella storia d'Europa che la cronaca nera prende uno spazio abnorme e simbolico: nelle scelte governative, nelle campagne elettorali, nel farsi delle carriere politiche, nelle strategie dei mezzi di comunicazione. Accadde già una volta nella belle époque: tempo smanioso d'impazienza e di risse, che Thomas Mann chiamò epoca della Grande Nervosità. Nel 1907, il giornale La Petite République, fondato dal socialista Jaurès, titolò in prima pagina: «L'insicurezza è alla moda, questo è un fatto». Il clima era assai simile al nostro: analogo fascino del crimine, analoghe illusioni di rese dei conti. Insicurezza e cronaca nera vennero politicizzate, in Francia, sullo sfondo di vaste dispute sulla pena di morte. Facevano paura le bande di giovani nei quartieri difficili, proprio come oggi: Apache era il loro nome. Proprio come oggi s'invocava una rottura. Categoria che Foucault ebbe a definire, in un'intervista a Telos dell'83, deleteria: «Una delle più dannose abitudini del pensiero moderno è di parlare dell'oggi come di un presente di rottura». Buona parte degli Apache scomparve nella carneficina del '14-'18.
Oggi il fantasma riappare, con forza speciale dopo l'11 settembre e lo svanire dell'Urss. È la tesi dello studioso Laurent Mucchielli, che ha pubblicato una raccolta di testi sul ruolo che l'insicurezza ha svolto nell'ascesa di Sarkozy. In realtà la sicurezza s'era fatta invadente da tempo, con l'espandersi delle estreme destre in Europa. Già negli Anni 90 la figura del nemico cambia («Vi faremo, a voi occidentali, la cosa peggiore che si possa fare a un avversario: vi toglieremo il nemico», disse Georgij Arbatov, in Urss).
Divenuto meno visibile il nemico esterno, si scopre l'Islam non solo fuori ma dentro casa, si escogitano nuovi reati (tra essi la mendicità), e ai cittadini viene offerto il nemico interno, il capro espiatorio da abbattere. I disordini nelle periferie son descritti come guerre civili Los Angeles '92, Francia 2005 e 2007 e la controffensiva si militarizza. La paura diventa lievito della politica: in Usa, Francia, e ora Italia. Il libro di Mucchielli s'intitola: La Frenesia della Sicurezza (La Découverte).
La frenesia risponde a bisogni concreti, soprattutto in zone di non-diritto, dove l'urbanistica ha fatto scempi: zone grigie, le chiamano i consulenti privati cui si rivolgono i governi, di «guerriglia degenerata».
La società Pellegrini, cui spesso ricorre Sarkozy, parla di guerra civile. È quest'esagerazione che desta dubbi, negli esperti di banlieue. Nelle teorie del nemico interno l'insicurezza non è un male da sanare, riformando giustizia, prevenzione, controllo. L'età nervosa trasforma l'insicurezza da problema, che era, in soluzione, in occasione sfruttabile. Anche la paura cessa d'esser problema e diventa soluzione, investimento politico. I giornali fanno la loro parte, un po' per vendere un po' per conformismo. Quasi non sembrano accorgersi della manipolazione che subiscono, dei profitti che politici e imprese private traggono dalla paura.
L'emozione che prende il posto della comunicazione, l'ossessione delle cifre, il linguaggio bellico, le «lunghe scie di sangue»: la stampa imita il politico, perde autonomia, invece di registrare e interpretare escogita titoli-arpioni. È quello che i politici vogliono: «Il silenzio mediatico è un errore», disse il ministro dell'Interno Sarkozy in un discorso ai prefetti del 2003. Così da noi: i telegiornali aprono su un delitto, per poi allacciarsi senza soluzione di continuità a duelli elettorali. E lo spettatore è trascinato nel vortice, diventa attore teleguidato di quella che David Garland, in un libro del 2002, chiama società penale: con il suo voto e la sua rabbia s'immagina demiurgo di nuovi ordini (La Cultura del Controllo, Saggiatore 2004).
La frenesia è passione disperata e panica, non fiduciosa nel progresso sociale ma dominata dal catastrofismo, dall'idea che il criminale sia un individuo predeterminato geneticamente, immutabile. Sono le convinzioni di Sarkozy: non ha più senso la polizia di prossimità, che provava a integrare i giovani in banlieue. «La migliore prevenzione è la sanzione». Decenni di lavoro sulle radici della violenza vengono liquidati, giudicati buonisti, sociologici. Quando paura e insicurezza diventano la Soluzione, il problema svanisce. Il populismo penale straripa, imponendo non riforme di lungo respiro ma pletoriche leggi ad hoc, e politiche dichiarative, simboliche, dettate da permanente indignazione.
In Francia, che per l'Italia è oggi paese laboratorio, il vocabolario bellico adattato all'ordine pubblico è preso in prestito dall'epoca coloniale. Lo spiega Mathieu Rigouste, studioso di scienze sociali: i consulenti più apprezzati dai politici, sulle banlieue, combinano dottrine della contro-insurrezione elaborate nella battaglia d'Algeri con l'odierna lotta al terrore. Così vien cancellato il confine tra sfera civile e militare, tempo di pace e di guerra, interno e esterno. Certo è presto per valutare conclusivamente i risultati di queste politiche, ma un primo bilancio è possibile. L'ossessione delle cifre, della rapidità, della cronica drammatizzazione non ha dato per ora veri risultati.
Il poliziotto-giustiziere appare ancora più illegittimo, nelle banlieue. Le carceri si riempiono, aprendo la via a indulti precipitosi. Soprattutto non funziona la panacea tecnologico-militare (videosorveglianza, biometria): il terrorista non teme la morte né l'occhio altrui. La rapidità è proficua solo in parte: impedisce analisi accurate, corre al risultato-show. È in Inghilterra, dove Blair ha inasprito la repressione, che la percentuale dei minorenni delinquenti è la più forte (20 per cento sulla criminalità globale). In Norvegia, dove perdura il modello «sociologico-protezionista», la percentuale è inferiore al 5 per cento. Mucchielli cita poi una distorsione che conosciamo bene: lo slogan Tolleranza Zero vale per tutti i crimini, «tranne per quelli economici e finanziari: contrariamente ad altri tipi di delinquenza, il governo (francese) cerca, in nome della “modernizzazione” del diritto degli affari, di depenalizzare i comportamenti delinquenti». È la società duale descritta da Garland: da un lato chi s'avvantaggia della deregolamentazione liberista, dall'altra una società disciplinata da regole morali più tradizionali e inasprite.
La politica della paura si concilia male con il pragmatismo che Sarkozy incarna agli occhi di molti. Pragmatismo sempre più incensato, e sempre più equivoco: perché una politica sia efficace, non basta dire che essa «non è di destra né di sinistra». Non c'è nulla di pragmatico nell'ossessione delle cifre, nel disprezzo dei poliziotti di prossimità, nel correre affrettato verso il risultato spettacolare, qualunque esso sia. Non sono pragmatiche le pene minime ai recidivi, che riducono l'autonomia dei giudici. O la carcerazione preventiva che tocca a chi ha già purgato la pena ma viene giudicato tuttora potenzialmente pericoloso (da una commissione di esperti, come voluto dal presidente Sarkozy).
Le ronde proposte dalla Lega possono aver senso: alcuni cittadini partecipano al controllo del territorio, «armati solo di telefonini». Ma non deve significare che Stato e polizia abbassano le braccia. Che la società non solo si autocontrolla ma reprime (salvaguardando ampie zone d'impunità economica, come s'è visto). È per evitare il linciaggio che abbiamo giudici e polizia separati dalla società. Quando ciascuno spia, denuncia, reprime il diverso, il mondo rischia di farsi villaggio, letteralmente: non ordine cosmopolita, ma borgo natio dove il controllo sociale protegge senza freni, e il cittadino perde l'anonimato garantito dalla metropoli, non sfugge agli sguardi, e impara a vivere nel sospetto, senza più lasciar vivere.
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Non è la prima volta nella storia d'Europa che la cronaca nera prende uno spazio abnorme e simbolico: nelle scelte governative, nelle campagne elettorali, nel farsi delle carriere politiche, nelle strategie dei mezzi di comunicazione. Accadde già una volta nella belle époque: tempo smanioso d'impazienza e di risse, che Thomas Mann chiamò epoca della Grande Nervosità. Nel 1907, il giornale La Petite République, fondato dal socialista Jaurès, titolò in prima pagina: «L'insicurezza è alla moda, questo è un fatto». Il clima era assai simile al nostro: analogo fascino del crimine, analoghe illusioni di rese dei conti. Insicurezza e cronaca nera vennero politicizzate, in Francia, sullo sfondo di vaste dispute sulla pena di morte. Facevano paura le bande di giovani nei quartieri difficili, proprio come oggi: Apache era il loro nome. Proprio come oggi s'invocava una rottura. Categoria che Foucault ebbe a definire, in un'intervista a Telos dell'83, deleteria: «Una delle più dannose abitudini del pensiero moderno è di parlare dell'oggi come di un presente di rottura». Buona parte degli Apache scomparve nella carneficina del '14-'18.
Oggi il fantasma riappare, con forza speciale dopo l'11 settembre e lo svanire dell'Urss. È la tesi dello studioso Laurent Mucchielli, che ha pubblicato una raccolta di testi sul ruolo che l'insicurezza ha svolto nell'ascesa di Sarkozy. In realtà la sicurezza s'era fatta invadente da tempo, con l'espandersi delle estreme destre in Europa. Già negli Anni 90 la figura del nemico cambia («Vi faremo, a voi occidentali, la cosa peggiore che si possa fare a un avversario: vi toglieremo il nemico», disse Georgij Arbatov, in Urss).
Divenuto meno visibile il nemico esterno, si scopre l'Islam non solo fuori ma dentro casa, si escogitano nuovi reati (tra essi la mendicità), e ai cittadini viene offerto il nemico interno, il capro espiatorio da abbattere. I disordini nelle periferie son descritti come guerre civili Los Angeles '92, Francia 2005 e 2007 e la controffensiva si militarizza. La paura diventa lievito della politica: in Usa, Francia, e ora Italia. Il libro di Mucchielli s'intitola: La Frenesia della Sicurezza (La Découverte).
La frenesia risponde a bisogni concreti, soprattutto in zone di non-diritto, dove l'urbanistica ha fatto scempi: zone grigie, le chiamano i consulenti privati cui si rivolgono i governi, di «guerriglia degenerata».
La società Pellegrini, cui spesso ricorre Sarkozy, parla di guerra civile. È quest'esagerazione che desta dubbi, negli esperti di banlieue. Nelle teorie del nemico interno l'insicurezza non è un male da sanare, riformando giustizia, prevenzione, controllo. L'età nervosa trasforma l'insicurezza da problema, che era, in soluzione, in occasione sfruttabile. Anche la paura cessa d'esser problema e diventa soluzione, investimento politico. I giornali fanno la loro parte, un po' per vendere un po' per conformismo. Quasi non sembrano accorgersi della manipolazione che subiscono, dei profitti che politici e imprese private traggono dalla paura.
L'emozione che prende il posto della comunicazione, l'ossessione delle cifre, il linguaggio bellico, le «lunghe scie di sangue»: la stampa imita il politico, perde autonomia, invece di registrare e interpretare escogita titoli-arpioni. È quello che i politici vogliono: «Il silenzio mediatico è un errore», disse il ministro dell'Interno Sarkozy in un discorso ai prefetti del 2003. Così da noi: i telegiornali aprono su un delitto, per poi allacciarsi senza soluzione di continuità a duelli elettorali. E lo spettatore è trascinato nel vortice, diventa attore teleguidato di quella che David Garland, in un libro del 2002, chiama società penale: con il suo voto e la sua rabbia s'immagina demiurgo di nuovi ordini (La Cultura del Controllo, Saggiatore 2004).
La frenesia è passione disperata e panica, non fiduciosa nel progresso sociale ma dominata dal catastrofismo, dall'idea che il criminale sia un individuo predeterminato geneticamente, immutabile. Sono le convinzioni di Sarkozy: non ha più senso la polizia di prossimità, che provava a integrare i giovani in banlieue. «La migliore prevenzione è la sanzione». Decenni di lavoro sulle radici della violenza vengono liquidati, giudicati buonisti, sociologici. Quando paura e insicurezza diventano la Soluzione, il problema svanisce. Il populismo penale straripa, imponendo non riforme di lungo respiro ma pletoriche leggi ad hoc, e politiche dichiarative, simboliche, dettate da permanente indignazione.
In Francia, che per l'Italia è oggi paese laboratorio, il vocabolario bellico adattato all'ordine pubblico è preso in prestito dall'epoca coloniale. Lo spiega Mathieu Rigouste, studioso di scienze sociali: i consulenti più apprezzati dai politici, sulle banlieue, combinano dottrine della contro-insurrezione elaborate nella battaglia d'Algeri con l'odierna lotta al terrore. Così vien cancellato il confine tra sfera civile e militare, tempo di pace e di guerra, interno e esterno. Certo è presto per valutare conclusivamente i risultati di queste politiche, ma un primo bilancio è possibile. L'ossessione delle cifre, della rapidità, della cronica drammatizzazione non ha dato per ora veri risultati.
Il poliziotto-giustiziere appare ancora più illegittimo, nelle banlieue. Le carceri si riempiono, aprendo la via a indulti precipitosi. Soprattutto non funziona la panacea tecnologico-militare (videosorveglianza, biometria): il terrorista non teme la morte né l'occhio altrui. La rapidità è proficua solo in parte: impedisce analisi accurate, corre al risultato-show. È in Inghilterra, dove Blair ha inasprito la repressione, che la percentuale dei minorenni delinquenti è la più forte (20 per cento sulla criminalità globale). In Norvegia, dove perdura il modello «sociologico-protezionista», la percentuale è inferiore al 5 per cento. Mucchielli cita poi una distorsione che conosciamo bene: lo slogan Tolleranza Zero vale per tutti i crimini, «tranne per quelli economici e finanziari: contrariamente ad altri tipi di delinquenza, il governo (francese) cerca, in nome della “modernizzazione” del diritto degli affari, di depenalizzare i comportamenti delinquenti». È la società duale descritta da Garland: da un lato chi s'avvantaggia della deregolamentazione liberista, dall'altra una società disciplinata da regole morali più tradizionali e inasprite.
La politica della paura si concilia male con il pragmatismo che Sarkozy incarna agli occhi di molti. Pragmatismo sempre più incensato, e sempre più equivoco: perché una politica sia efficace, non basta dire che essa «non è di destra né di sinistra». Non c'è nulla di pragmatico nell'ossessione delle cifre, nel disprezzo dei poliziotti di prossimità, nel correre affrettato verso il risultato spettacolare, qualunque esso sia. Non sono pragmatiche le pene minime ai recidivi, che riducono l'autonomia dei giudici. O la carcerazione preventiva che tocca a chi ha già purgato la pena ma viene giudicato tuttora potenzialmente pericoloso (da una commissione di esperti, come voluto dal presidente Sarkozy).
Le ronde proposte dalla Lega possono aver senso: alcuni cittadini partecipano al controllo del territorio, «armati solo di telefonini». Ma non deve significare che Stato e polizia abbassano le braccia. Che la società non solo si autocontrolla ma reprime (salvaguardando ampie zone d'impunità economica, come s'è visto). È per evitare il linciaggio che abbiamo giudici e polizia separati dalla società. Quando ciascuno spia, denuncia, reprime il diverso, il mondo rischia di farsi villaggio, letteralmente: non ordine cosmopolita, ma borgo natio dove il controllo sociale protegge senza freni, e il cittadino perde l'anonimato garantito dalla metropoli, non sfugge agli sguardi, e impara a vivere nel sospetto, senza più lasciar vivere.
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giovedì 24 aprile 2008
25 aprile
« Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un Italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra costituzione. »
(Piero Calamandrei, Discorso ai giovani sulla Costituzione nata dalla Resistenza. Milano, 26 gennaio 1955)
(Piero Calamandrei, Discorso ai giovani sulla Costituzione nata dalla Resistenza. Milano, 26 gennaio 1955)
lunedì 21 aprile 2008
paraguay, continua la rivoluzione dolce in sud america
ESTERI InviaStampaL'esponente della teologia della liberazione ha ottenuto il 40,8% dei consensi
malgrado la violenta campagna "sporca" condotta dai suoi avversari
Paraguay, Lugo è nuovo presidente
L'ex vescovo batte partito Colorado
dal nostro inviato OMERO CIAI
Lugo, a sinistra, festeggia con i suoi sostenitori
CARACAS - E' stata l'ultima spallata alle oligarchie continentali quella che nella notte di domenica ha portato al potere in Paraguay l'Alianza Patriotica por el cambio, una coalizione di sinistra guidata da un "vescovo rosso": Fernando Lugo.
Oggi - esclusa la Colombia di Uribe - tutta l'America Latina è governata da leader di sinistra radicale (Venezuela, Bolivia, Ecuador, Argentina) o di centro-sinistra (Cile, Brasile, Uruguay, Perù).
Fernando Lugo, vescovo di San Pedro, 57 anni, sospeso a divinis dal Vaticano, esponente della Teologia della Liberazione dell'ex sacerdote brasiliano Leonardo Boff (cacciato da Papa Ratzinger), è riuscito a metter fine a 61 anni di dominio del partito Colorado che dopo la fine della dittatura del generale Stroessner (1989), anche lui un Colorado, ha continuato a governare anche in democrazia.
Lugo ha vinto largamente, ottenendo il 40,8% dei voti, davanti ad una donna, Blanca Ovelar, candidata del partito al potere, staccata di dieci punti (30,8%) e all'ex generale golpista (di destra) Lino Oviedo (22%), un uomo legato alla Cia e alla destra neo-con americana.
Nelle strade di Asuncion la festa per la caduta dei Colorado, un partito ormai confuso completamente con lo Stato (agli impiegati pubblici il versamento per l'iscrizione al partito viene stornato direttamente dallo stipendio), è durata per tutta la notte.
"Il risultato di questa notte dimostra che anche i piccoli possono vincere", ha detto il vescovo nella sua prima dichiarazione da presidente e dopo aver temuto seriamente, almeno negli ultimi giorni, che una frode organizzata dai Colorado potesse negargli la vittoria.
La violentissima campagna "sporca" contro di lui sembra aver prodotto l'effetto contrario a quello sperato. Invece di spaventare gli elettori, li ha convinti a votare per Lugo che alla fine ha raccolto molti più voti di quelli previsti dai sondaggi.
Accusato di essere un amico delle Farc, la guerriglia colombiana, e un pupazzo di Chavez, il presidente venezuelano, il vescovo ha preso le distanze dall'una e dall'altro insistendo sul suo programma di ridistribuzione della ricchezza e delle terre che promette di mettere in atto quando assumerà ufficialmente il potere, a partire dal prossimo 15 agosto.
Il Paraguay è un paese geopoliticamente strategico in America Latina almeno per tre motivi. Confina con la Bolivia all'altezza degli immensi giacimenti di gas naturale, è un grande produttore di energia idroelettrica e nelle sue viscere c'è una delle più grandi riserve di acqua dolce di tutto il pianeta, "l'acquifero guaranì", dove secondo gli esperti c'è acqua potabile "per 360 milioni di persone nei prossimi cent'anni". Decisivo anche come "via della coca" verso l'Europa, il Paraguay è, insieme alla Bolivia, con la quale condivide l'handicap di non avere un accesso al mare, uno dei paesi più arretrati del sub-continente.
(21 aprile 2008)
malgrado la violenta campagna "sporca" condotta dai suoi avversari
Paraguay, Lugo è nuovo presidente
L'ex vescovo batte partito Colorado
dal nostro inviato OMERO CIAI
Lugo, a sinistra, festeggia con i suoi sostenitori
CARACAS - E' stata l'ultima spallata alle oligarchie continentali quella che nella notte di domenica ha portato al potere in Paraguay l'Alianza Patriotica por el cambio, una coalizione di sinistra guidata da un "vescovo rosso": Fernando Lugo.
Oggi - esclusa la Colombia di Uribe - tutta l'America Latina è governata da leader di sinistra radicale (Venezuela, Bolivia, Ecuador, Argentina) o di centro-sinistra (Cile, Brasile, Uruguay, Perù).
Fernando Lugo, vescovo di San Pedro, 57 anni, sospeso a divinis dal Vaticano, esponente della Teologia della Liberazione dell'ex sacerdote brasiliano Leonardo Boff (cacciato da Papa Ratzinger), è riuscito a metter fine a 61 anni di dominio del partito Colorado che dopo la fine della dittatura del generale Stroessner (1989), anche lui un Colorado, ha continuato a governare anche in democrazia.
Lugo ha vinto largamente, ottenendo il 40,8% dei voti, davanti ad una donna, Blanca Ovelar, candidata del partito al potere, staccata di dieci punti (30,8%) e all'ex generale golpista (di destra) Lino Oviedo (22%), un uomo legato alla Cia e alla destra neo-con americana.
Nelle strade di Asuncion la festa per la caduta dei Colorado, un partito ormai confuso completamente con lo Stato (agli impiegati pubblici il versamento per l'iscrizione al partito viene stornato direttamente dallo stipendio), è durata per tutta la notte.
"Il risultato di questa notte dimostra che anche i piccoli possono vincere", ha detto il vescovo nella sua prima dichiarazione da presidente e dopo aver temuto seriamente, almeno negli ultimi giorni, che una frode organizzata dai Colorado potesse negargli la vittoria.
La violentissima campagna "sporca" contro di lui sembra aver prodotto l'effetto contrario a quello sperato. Invece di spaventare gli elettori, li ha convinti a votare per Lugo che alla fine ha raccolto molti più voti di quelli previsti dai sondaggi.
Accusato di essere un amico delle Farc, la guerriglia colombiana, e un pupazzo di Chavez, il presidente venezuelano, il vescovo ha preso le distanze dall'una e dall'altro insistendo sul suo programma di ridistribuzione della ricchezza e delle terre che promette di mettere in atto quando assumerà ufficialmente il potere, a partire dal prossimo 15 agosto.
Il Paraguay è un paese geopoliticamente strategico in America Latina almeno per tre motivi. Confina con la Bolivia all'altezza degli immensi giacimenti di gas naturale, è un grande produttore di energia idroelettrica e nelle sue viscere c'è una delle più grandi riserve di acqua dolce di tutto il pianeta, "l'acquifero guaranì", dove secondo gli esperti c'è acqua potabile "per 360 milioni di persone nei prossimi cent'anni". Decisivo anche come "via della coca" verso l'Europa, il Paraguay è, insieme alla Bolivia, con la quale condivide l'handicap di non avere un accesso al mare, uno dei paesi più arretrati del sub-continente.
(21 aprile 2008)
la panna montata della Lega
La lega che tutti i massmedia danno come vincitrice di questa tornata elettorale in effetti ha preso assai meno voto del 1994: l'8,3% rispetto l'8,4% di allora. Con una differenza che la percentuale di oggi è ritagliata da una massa di votanti minori. Insomma è come se avesse perso almeno un decimo del suo elettorato.
Questo dopo 14 anni di cui 7 di governo.
Naturalmente tutti i pennivendoli d'Italia oggi indicano nella lega, nel leghismo, nel radicamento territoriale e addirittura nelle politiche xenofobe ed antimeridionalistiche il segreto di un successo che non esiste!!
Pietro Ancona
www.spazioamico.it
http://pietro-ancona.blogspot.com/
Questo dopo 14 anni di cui 7 di governo.
Naturalmente tutti i pennivendoli d'Italia oggi indicano nella lega, nel leghismo, nel radicamento territoriale e addirittura nelle politiche xenofobe ed antimeridionalistiche il segreto di un successo che non esiste!!
Pietro Ancona
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domenica 20 aprile 2008
brutte notizie
Comitato politico del PRC ha regolato i conti all'indomani dell'annientamento elettorale. Due gruppi di potere dell'oligarchia rifondarola si fronteggiavano per accaparrarsi il controllo del Partito capeggiati dall'ex Ministro Ferrero e dal Presidente della Regione Puglia noto per il sostegno ai termovalorizzatori. Ha vinto Ferrero!! Di questo personaggio, simulatore di sentimenti di sinistra, ricordo soltanto la sua partecipazione alla festa per la deportazione degli abitanti di Via Anelli a Padova.
Dall'oligarchia dei partiti annientati il 13 e 14 aprile non possiamo aspettarci niente di buono. Nessuna speranza. Non riescono a pensare ad altro che alla loro sopravvivenza popolare.!! Quanto è accaduto oggi per Rifondazione, succederà per tutti gli altri, per il Psi, PDCI, Sinistra Democratica, Verdi. Non c'è niente da fare ricominciando dalle burocrazie interne!!
Pietro Ancona
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Dall'oligarchia dei partiti annientati il 13 e 14 aprile non possiamo aspettarci niente di buono. Nessuna speranza. Non riescono a pensare ad altro che alla loro sopravvivenza popolare.!! Quanto è accaduto oggi per Rifondazione, succederà per tutti gli altri, per il Psi, PDCI, Sinistra Democratica, Verdi. Non c'è niente da fare ricominciando dalle burocrazie interne!!
Pietro Ancona
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barbara spinelli. Da sinistra a destra
Ma perdere le battaglie non significa aver torto, e i numeri delle urne non ti danno automaticamente ragione: cosa spesso trascurata da commentatori improvvisamente dimentichi di quel che il prosindaco leghista di Treviso Gentilini dice a proposito del ventennio fascista («il ricordo di una maschia gioventù che lavorava, faceva il suo dovere, ubbidiva alle leggi») o delle parole proferite dall'onorevole leghista Salvini («i topi sono più facili da debellare degli zingari. Perché sono più piccoli»). Quel che vince è piuttosto un malinteso, sui valori come sulla povertà
20/4/2008 La Stampa
L'esodo dei poveri
da sinistra a destra di Barbara Spinelli
Il passaggio da sinistra a destra di numerosi elettori popolari ha prodotto in Italia stupore triste o divina sorpresa, ma è un fenomeno non nuovo nelle democrazie e come spesso succede è in America che s'è manifestato negli ultimi decenni, estendendosi poi all'Europa. In realtà è fenomeno antico la Germania prehitleriana conobbe analoghe saldature tra sinistre e destre estreme e se oggi si ripropone con forza è perché alcune componenti riappaiono. Tra esse c'è il risentimento, questa passione che dà immenso ardimento all'individuo che si sente abbandonato e solo nella società, e che il massimo della potenza la raggiunge quando diventa risentimento territoriale, tribale, di classe. Nietzsche dà a tale passione il nome di morale dello schiavo, perché l'uomo del risentimento ha l'impressione quasi fiera di non poter mai raggiungere il benessere o il potere cui aspira. «Il No spiega nella Genealogia della Morale è la sua azione creatrice». Il no è opposto a tutto quello che è «fuori», «altro», che è «non io».
Una prima risposta all'esodo dei poveri verso destra è venuta in queste settimane da Barack Obama. È accaduto il 6 aprile a San Francisco, quando il candidato democratico alle primarie presidenziali ha spiegato alcuni tratti di tale esodo. Nelle piccole città colpite dalla crisi, ha detto, l'amarezza è tale che la persona si sente perduta, ed è a quel punto che s'aggrappa non a reali soluzioni del disagio economico, ma a valori e stili di vita sostitutivi, culturalmente consolatori: l'uso delle armi o della religione, la ripugnanza del diverso, dello straniero.
Amarezza e frustrazione sono varianti del risentimento descritto da Nietzsche, e negarne la realtà vuol dire fuggirla. Sono decenni che le cosiddette questioni culturali sono invocate in America per occultare difficoltà e misfatti economici. Obama è stato giudicato ingenuo, imprudente: avrebbe offeso gli operai, guardandoli dall'alto e comportandosi come uno snob, un elitario (in Italia si dice anche: antipatico). Non è detto che siano critiche errate, ed è vero che Obama rischia molto, sin dalle primarie di martedì in Pennsylvania.
Ma perdere le battaglie non significa aver torto, e i numeri delle urne non ti danno automaticamente ragione: cosa spesso trascurata da commentatori improvvisamente dimentichi di quel che il prosindaco leghista di Treviso Gentilini dice a proposito del ventennio fascista («il ricordo di una maschia gioventù che lavorava, faceva il suo dovere, ubbidiva alle leggi») o delle parole proferite dall'onorevole leghista Salvini («i topi sono più facili da debellare degli zingari. Perché sono più piccoli»). Quel che vince è piuttosto un malinteso, sui valori come sulla povertà: lo stesso malinteso che affligge oggi Obama. L'amarezza di cui ha parlato il candidato è cosa tangibile, dopo le tante promesse non mantenute di Bush, ma d'un tratto è lui ad aver offeso i poveri, la gente comune non beneficata da regali fiscali, il lavoratore autentico che fatica a sbarcare il lunario.
Da parecchi decenni la destra americana si è fatta paladina dei poveri e delle classi medie declassate, e con Bush junior la vocazione s'è ancor più sdoppiata: impoverire i deboli, e scaricare su altri la responsabilità dell'impoverimento. Nel 2004 hanno votato per lui numerose regioni immiserite. Il risentimento che generalmente appartiene alle sinistre è passato a destra, e proprio questo ha voluto dire Obama parlando di quei valori divisivi (le cosiddette wedge questions con cui i repubblicani svuotano l'elettorato democratico: religione politicizzata, aborto, matrimoni gay, controllo delle armi). In Francia sono valori divisivi il nazionalismo, e il rancore contro una sinistra sospettata di transigere su immigrati, sicurezza, ed erede di quel terribile Sessantotto ripetutamente denunciato in America, Francia e Italia.
Il malinteso su valori e povertà è acutamente analizzato da Thomas Frank, in un libro pubblicato in concomitanza con la seconda vittoria di Bush (What's the Matter With Kansas? How conservatives won the heart of America, 2004). Obama ha forse sbagliato a usarne gli argomenti, ma le cose narrate nel libro restano importanti e valgono anche in Europa. Il risentimento ha infatti bisogno, per continuare a infiammare, di un'indignazione che non scema e anzi si dilata, indipendentemente dai risultati elettorali. L'uomo del risentimento rinasce contemplando se stesso, e il se stesso che contempla è non solo insoddisfatto ma eternamente marginale, minoritario, vittima di un'élite dominante che lo tiranneggia e l'imbavaglia. Dell'élite fanno parte i liberal americani (le sinistre europee) e il loro potere è considerato enorme, soffocante, invincibile. Essi agiscono attraverso i giudici, gli universitari, i giornalisti, gli intellettuali, anche quando questi ultimi si spostano a destra.
Qui è la menzogna, che occulta la realtà per istinto e strategia. La conquista dei ceti popolari avviene fingendo che la maggioranza conservatrice, anche quando ha tutti i poteri come in America (parlamento, Corte suprema), anche quando regna su affari ed economia, sia una maggioranza perseguitata. Gli uomini di sinistra, ai suoi occhi, sono al potere comunque, poco importa se eletti o no: il progressismo liberal domina anche se i Repubblicani hanno vinto sei elezioni presidenziali su nove dal 1968; anche quando i Repubblicani controllavano tutti i poteri dello Stato. «Al di là della politica, il liberalismo è un tiranno che domina la nostra esistenza nei modi più svariati e rovesciarlo è praticamente impossibile». L'oppressore e il prepotente quasi sempre s'atteggiano a vittima.
L'ideologia del ressentiment è questo: ritenersi in ogni caso e sempre un outsider, un emarginato, anche quando si hanno le leve del potere. È un dispositivo centrale dei successi di Bush, Sarkozy, Berlusconi: per vincere, occorre che l'indignazione non si raffreddi mai, dunque che la realtà sia a intervalli regolari falsata. Se un giornalista come Marco Travaglio scrive che in Italia permangono conflitti d'interessi e corruzione è considerato subito non un outsider, come irrefutabilmente è, ma un nemico straordinariamente forte e minaccioso. Basta un solo dissidente, basta un giornale minoritario come l'Unità, e gli outsider vincitori si sentono assediati da orde vastissime. Nelle dittature basta l'1 per cento di dissenso ed è panico.
Frank racconta come questo risentimento populista abbia fatto presa nell'800 sulla sinistra in Texas ad esempio e sia stato poi disinvoltamente catturato dalla destra. Perché ciò avvenisse sono cambiate le antiche linee divisorie: la lotta di classe contrapponeva operai e padroni, poveri e ricchi, sopra e sotto, mentre oggi ci si divide tra assistiti o parassiti e salariati, tra bianchi e neri, tra chi è fuori e chi dentro, tra chi si sveglia all'alba dice Sarkozy e chi dopo. Ma soprattutto ci si divide culturalmente: tra snob e autentici, tra antipatrioti come Obama (non porta la spilla con la bandiera Usa sulla giacca) e nazionalisti, tra relativisti e devoti, magari calcolatori ma pur sempre devoti.
La sinistra ha molto da fare, se vuol arrestare la parte menzognera dell'esodo e convincere i fuggitivi che ha perduto per propria insipienza, per propria incapacità di dar risposte razionali alle nuove povertà, ai nuovi bisogni popolari. Si tratta di ricominciare a parlare di economia, di malaffare, di legalità, obbedendo inflessibilmente al principio di realtà. Si tratta di denunciare il potere dove realmente si esercita. Si tratta di rivalutare la sicurezza, senza criminalizzare i giudici ma rendendoli più rapidi e presenti in un settore l'immigrazione che sarà sanato dalla legge uguale per tutti oltre che dall'ordine. Si tratta di dire le cose come stanno: è la più appassionante delle avventure, se solo si designa l'avversario senza aver paura della falsa paura che si incute
20/4/2008 La Stampa
L'esodo dei poveri
da sinistra a destra di Barbara Spinelli
Il passaggio da sinistra a destra di numerosi elettori popolari ha prodotto in Italia stupore triste o divina sorpresa, ma è un fenomeno non nuovo nelle democrazie e come spesso succede è in America che s'è manifestato negli ultimi decenni, estendendosi poi all'Europa. In realtà è fenomeno antico la Germania prehitleriana conobbe analoghe saldature tra sinistre e destre estreme e se oggi si ripropone con forza è perché alcune componenti riappaiono. Tra esse c'è il risentimento, questa passione che dà immenso ardimento all'individuo che si sente abbandonato e solo nella società, e che il massimo della potenza la raggiunge quando diventa risentimento territoriale, tribale, di classe. Nietzsche dà a tale passione il nome di morale dello schiavo, perché l'uomo del risentimento ha l'impressione quasi fiera di non poter mai raggiungere il benessere o il potere cui aspira. «Il No spiega nella Genealogia della Morale è la sua azione creatrice». Il no è opposto a tutto quello che è «fuori», «altro», che è «non io».
Una prima risposta all'esodo dei poveri verso destra è venuta in queste settimane da Barack Obama. È accaduto il 6 aprile a San Francisco, quando il candidato democratico alle primarie presidenziali ha spiegato alcuni tratti di tale esodo. Nelle piccole città colpite dalla crisi, ha detto, l'amarezza è tale che la persona si sente perduta, ed è a quel punto che s'aggrappa non a reali soluzioni del disagio economico, ma a valori e stili di vita sostitutivi, culturalmente consolatori: l'uso delle armi o della religione, la ripugnanza del diverso, dello straniero.
Amarezza e frustrazione sono varianti del risentimento descritto da Nietzsche, e negarne la realtà vuol dire fuggirla. Sono decenni che le cosiddette questioni culturali sono invocate in America per occultare difficoltà e misfatti economici. Obama è stato giudicato ingenuo, imprudente: avrebbe offeso gli operai, guardandoli dall'alto e comportandosi come uno snob, un elitario (in Italia si dice anche: antipatico). Non è detto che siano critiche errate, ed è vero che Obama rischia molto, sin dalle primarie di martedì in Pennsylvania.
Ma perdere le battaglie non significa aver torto, e i numeri delle urne non ti danno automaticamente ragione: cosa spesso trascurata da commentatori improvvisamente dimentichi di quel che il prosindaco leghista di Treviso Gentilini dice a proposito del ventennio fascista («il ricordo di una maschia gioventù che lavorava, faceva il suo dovere, ubbidiva alle leggi») o delle parole proferite dall'onorevole leghista Salvini («i topi sono più facili da debellare degli zingari. Perché sono più piccoli»). Quel che vince è piuttosto un malinteso, sui valori come sulla povertà: lo stesso malinteso che affligge oggi Obama. L'amarezza di cui ha parlato il candidato è cosa tangibile, dopo le tante promesse non mantenute di Bush, ma d'un tratto è lui ad aver offeso i poveri, la gente comune non beneficata da regali fiscali, il lavoratore autentico che fatica a sbarcare il lunario.
Da parecchi decenni la destra americana si è fatta paladina dei poveri e delle classi medie declassate, e con Bush junior la vocazione s'è ancor più sdoppiata: impoverire i deboli, e scaricare su altri la responsabilità dell'impoverimento. Nel 2004 hanno votato per lui numerose regioni immiserite. Il risentimento che generalmente appartiene alle sinistre è passato a destra, e proprio questo ha voluto dire Obama parlando di quei valori divisivi (le cosiddette wedge questions con cui i repubblicani svuotano l'elettorato democratico: religione politicizzata, aborto, matrimoni gay, controllo delle armi). In Francia sono valori divisivi il nazionalismo, e il rancore contro una sinistra sospettata di transigere su immigrati, sicurezza, ed erede di quel terribile Sessantotto ripetutamente denunciato in America, Francia e Italia.
Il malinteso su valori e povertà è acutamente analizzato da Thomas Frank, in un libro pubblicato in concomitanza con la seconda vittoria di Bush (What's the Matter With Kansas? How conservatives won the heart of America, 2004). Obama ha forse sbagliato a usarne gli argomenti, ma le cose narrate nel libro restano importanti e valgono anche in Europa. Il risentimento ha infatti bisogno, per continuare a infiammare, di un'indignazione che non scema e anzi si dilata, indipendentemente dai risultati elettorali. L'uomo del risentimento rinasce contemplando se stesso, e il se stesso che contempla è non solo insoddisfatto ma eternamente marginale, minoritario, vittima di un'élite dominante che lo tiranneggia e l'imbavaglia. Dell'élite fanno parte i liberal americani (le sinistre europee) e il loro potere è considerato enorme, soffocante, invincibile. Essi agiscono attraverso i giudici, gli universitari, i giornalisti, gli intellettuali, anche quando questi ultimi si spostano a destra.
Qui è la menzogna, che occulta la realtà per istinto e strategia. La conquista dei ceti popolari avviene fingendo che la maggioranza conservatrice, anche quando ha tutti i poteri come in America (parlamento, Corte suprema), anche quando regna su affari ed economia, sia una maggioranza perseguitata. Gli uomini di sinistra, ai suoi occhi, sono al potere comunque, poco importa se eletti o no: il progressismo liberal domina anche se i Repubblicani hanno vinto sei elezioni presidenziali su nove dal 1968; anche quando i Repubblicani controllavano tutti i poteri dello Stato. «Al di là della politica, il liberalismo è un tiranno che domina la nostra esistenza nei modi più svariati e rovesciarlo è praticamente impossibile». L'oppressore e il prepotente quasi sempre s'atteggiano a vittima.
L'ideologia del ressentiment è questo: ritenersi in ogni caso e sempre un outsider, un emarginato, anche quando si hanno le leve del potere. È un dispositivo centrale dei successi di Bush, Sarkozy, Berlusconi: per vincere, occorre che l'indignazione non si raffreddi mai, dunque che la realtà sia a intervalli regolari falsata. Se un giornalista come Marco Travaglio scrive che in Italia permangono conflitti d'interessi e corruzione è considerato subito non un outsider, come irrefutabilmente è, ma un nemico straordinariamente forte e minaccioso. Basta un solo dissidente, basta un giornale minoritario come l'Unità, e gli outsider vincitori si sentono assediati da orde vastissime. Nelle dittature basta l'1 per cento di dissenso ed è panico.
Frank racconta come questo risentimento populista abbia fatto presa nell'800 sulla sinistra in Texas ad esempio e sia stato poi disinvoltamente catturato dalla destra. Perché ciò avvenisse sono cambiate le antiche linee divisorie: la lotta di classe contrapponeva operai e padroni, poveri e ricchi, sopra e sotto, mentre oggi ci si divide tra assistiti o parassiti e salariati, tra bianchi e neri, tra chi è fuori e chi dentro, tra chi si sveglia all'alba dice Sarkozy e chi dopo. Ma soprattutto ci si divide culturalmente: tra snob e autentici, tra antipatrioti come Obama (non porta la spilla con la bandiera Usa sulla giacca) e nazionalisti, tra relativisti e devoti, magari calcolatori ma pur sempre devoti.
La sinistra ha molto da fare, se vuol arrestare la parte menzognera dell'esodo e convincere i fuggitivi che ha perduto per propria insipienza, per propria incapacità di dar risposte razionali alle nuove povertà, ai nuovi bisogni popolari. Si tratta di ricominciare a parlare di economia, di malaffare, di legalità, obbedendo inflessibilmente al principio di realtà. Si tratta di denunciare il potere dove realmente si esercita. Si tratta di rivalutare la sicurezza, senza criminalizzare i giudici ma rendendoli più rapidi e presenti in un settore l'immigrazione che sarà sanato dalla legge uguale per tutti oltre che dall'ordine. Si tratta di dire le cose come stanno: è la più appassionante delle avventure, se solo si designa l'avversario senza aver paura della falsa paura che si incute
giovedì 17 aprile 2008
fondare un nuovo soggetto politico
Soltanto i gruppi oligarchici dei partiti azzerati dall'elettorato di sinistra hanno interesse ad una gestione burocratica, centralistica e sostanzialmente restauratrice di questa fase successiva al loro fallimento politico e storico. Anche l'analisi più impietosa ed autocritica dei comportamenti recenti ma che comunque affondano in un tempo assai più lungo di abbandono dei lavoratori e delle radici popolari non è sufficiente a consentire un restauro previo maquillage di quanto è stato ridotto in rovine. Un periodo si è chiuso per sempre.
Dobbiamo dire no a qualsiasi tentativo di organizzare Congressi che non siano di scioglimento del PSI, di Rifondazione Comunista, dei Comunisti Italiani, dei Verdi.
Organizzare una vera Convenzione Nazionale che stabilisca il progetto di un grande Partito Socialdemocratico inserito nella tradizione italiana ed europea ma in grado di decifrare la realtà della globalizzazione ed i nuovi compiti della sinistra di classe.
il 15 aprile è finita la lunga epoca storica cominciata con la Costituente.
La Convenzione dovrebbe essere aperta a quanti non si riconoscono nell'Italia delle destre uscite vincitrici dalle urne. Il PD bisogna considerarlo fuoriuscito definitivamente dalla storia del movimento operaio e socialista italiano.
Pietro Ancona
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Dobbiamo dire no a qualsiasi tentativo di organizzare Congressi che non siano di scioglimento del PSI, di Rifondazione Comunista, dei Comunisti Italiani, dei Verdi.
Organizzare una vera Convenzione Nazionale che stabilisca il progetto di un grande Partito Socialdemocratico inserito nella tradizione italiana ed europea ma in grado di decifrare la realtà della globalizzazione ed i nuovi compiti della sinistra di classe.
il 15 aprile è finita la lunga epoca storica cominciata con la Costituente.
La Convenzione dovrebbe essere aperta a quanti non si riconoscono nell'Italia delle destre uscite vincitrici dalle urne. Il PD bisogna considerarlo fuoriuscito definitivamente dalla storia del movimento operaio e socialista italiano.
Pietro Ancona
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lunedì 14 aprile 2008
la Catastrofe. La sinistra diventa extraparlamentare
L'Italia oggi si sveglia di destra. Le elezioni politiche di ieri hanno azzerato la sinistra italiana. Non ritornerà nessuno dei 102 deputati e dei 46 senatori che costituivano la rappresentanza dei socialisti, dei comunisti e dei verdi. Isolati dal PD epigone del PCI e della DC ma con un programma clonato da quello di Berlusconi dichiaratamente di ispirazione liberista e confindustriale i partiti della sinistra e dei verdi non tornano in Parlamento dove erano stati ininterrottamente presenti sin dalla Costituente. I rappresentanti dei socialisti erano stati forza parlamentare fin dall'inizio del secolo scorso e soltanto durante la dittatura fascista ne furono espulsi.
Il PD che aveva basato le sue speranze di successo nella omologazione alla cultura moderata italiana, la peggiore e la più estremista d'Europa, esce deluso dalle urne con meno del 34% Alcuni dei suoi esponenti sono stati scelti tra i rappresentanti istituzionali della Confindustria e dei sostenitori della linea di spoliazione dei diritti dei lavoratori. Nonostante la presenza dei radicali sarà scarsamente laico e filovaticano. Berlusconi ha dichiarato che,se vincitore, avrebbe abolito lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori cosa che probabilmente sarà fatta alla svelta con l'aiuto di un Parlamento americanizzato ma all'italiana con una forte presenza della Lega xenofoba e separatista. Lo Stato sarà svuotato del suo patrimonio e delle sue prerogative. I suoi beni saranno venduti ai privati e molte delle sue funzioni affidate ad aziende private.
La seconda marcia su Roma è compiuta. Il golpe bianco "veltrusconiano" che avevamo temuto si è realizzato. Dai sindacati non dobbiamo aspettarci una vera difesa dei lavoratori. Abbiamo visto gli accordi fatti con Prodi. Cederanno subito il contratto collettivo nazionale di lavoro.
Pietro Ancona
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Il PD che aveva basato le sue speranze di successo nella omologazione alla cultura moderata italiana, la peggiore e la più estremista d'Europa, esce deluso dalle urne con meno del 34% Alcuni dei suoi esponenti sono stati scelti tra i rappresentanti istituzionali della Confindustria e dei sostenitori della linea di spoliazione dei diritti dei lavoratori. Nonostante la presenza dei radicali sarà scarsamente laico e filovaticano. Berlusconi ha dichiarato che,se vincitore, avrebbe abolito lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori cosa che probabilmente sarà fatta alla svelta con l'aiuto di un Parlamento americanizzato ma all'italiana con una forte presenza della Lega xenofoba e separatista. Lo Stato sarà svuotato del suo patrimonio e delle sue prerogative. I suoi beni saranno venduti ai privati e molte delle sue funzioni affidate ad aziende private.
La seconda marcia su Roma è compiuta. Il golpe bianco "veltrusconiano" che avevamo temuto si è realizzato. Dai sindacati non dobbiamo aspettarci una vera difesa dei lavoratori. Abbiamo visto gli accordi fatti con Prodi. Cederanno subito il contratto collettivo nazionale di lavoro.
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sconfitta dei socialisti e della sinistra
Sconfitta della sinistra. L'Italia esce politicamente dall'Europa
==================
Si profila dai primi dati una dura sconfitta dei socialisti e della sinistra ridotta a meno della Lega Nord.
La sinistra raccoglie i frutti amarissimi della sua pecorina collaborazione nel centro sinistra e nel faraonico governo Prodi. Due anni di governo nel corso dei quali l'identità e la stessa ragion d'essere della sinistra sono state annichilite dall'adesione pura e semplice alle scelte dello sviluppo della linea treu-maroni-sacconi, alle leggi razziali verso gli emigranti, alle ragioni dell'atlantismo più cieco sia nella colonizzazione ulteriore dell'Italia da basi militari usa sia in "missioni" all'estero ai danni dei popoli invasi dell'afghanistan, dell'Irak, del Libano, della Palestina...
Il successo della Lega è stato sostenuto dalle scelte di xenofobia delle amministrazioni di centro-sinistra tutte in gara contro i rom, i lavavetri, i poveri e dalla politica di "riduzione del danno" del ministro della solidarietà sociale che si è spinto fino a festeggiare la deportazione degli abitanti di Via Anelli di Padova ed i muri segregazionisti.
L'Italia esce dalle urne con una grande maggioranza di destra, di centro destra. Una sinistra che era arrivata a sfiorare quasi la maggioranza è ridotta a poco più del cinque per cento. A differenza di tutta Europa, la socialdemocrazia non esiste è viene testimoniata soltanto dal Partito Socialista a meno del due per cento. Un Partito Socialista che non ha fatto fino in fondo i conti con l'eredita del craxismo con personaggi di spicco che in Sicilia hanno sostenuto il movimento quasi separatista di Lombardo.
Il Partito Democratico ed il Partito del Popolo della Libertà si possono qualificare come partiti di centro-destra estremista e centro-destra moderato.
La sconfitta della sinistra è dovuta alle scelte sciagurate contro i lavoratori del governo Prodi che hanno traumatizzato e deluso per la loro gravità e distrutto ogni speranza di cambiamento e di vita migliore
.Pietro Ancona
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Si profila dai primi dati una dura sconfitta dei socialisti e della sinistra ridotta a meno della Lega Nord.
La sinistra raccoglie i frutti amarissimi della sua pecorina collaborazione nel centro sinistra e nel faraonico governo Prodi. Due anni di governo nel corso dei quali l'identità e la stessa ragion d'essere della sinistra sono state annichilite dall'adesione pura e semplice alle scelte dello sviluppo della linea treu-maroni-sacconi, alle leggi razziali verso gli emigranti, alle ragioni dell'atlantismo più cieco sia nella colonizzazione ulteriore dell'Italia da basi militari usa sia in "missioni" all'estero ai danni dei popoli invasi dell'afghanistan, dell'Irak, del Libano, della Palestina...
Il successo della Lega è stato sostenuto dalle scelte di xenofobia delle amministrazioni di centro-sinistra tutte in gara contro i rom, i lavavetri, i poveri e dalla politica di "riduzione del danno" del ministro della solidarietà sociale che si è spinto fino a festeggiare la deportazione degli abitanti di Via Anelli di Padova ed i muri segregazionisti.
L'Italia esce dalle urne con una grande maggioranza di destra, di centro destra. Una sinistra che era arrivata a sfiorare quasi la maggioranza è ridotta a poco più del cinque per cento. A differenza di tutta Europa, la socialdemocrazia non esiste è viene testimoniata soltanto dal Partito Socialista a meno del due per cento. Un Partito Socialista che non ha fatto fino in fondo i conti con l'eredita del craxismo con personaggi di spicco che in Sicilia hanno sostenuto il movimento quasi separatista di Lombardo.
Il Partito Democratico ed il Partito del Popolo della Libertà si possono qualificare come partiti di centro-destra estremista e centro-destra moderato.
La sconfitta della sinistra è dovuta alle scelte sciagurate contro i lavoratori del governo Prodi che hanno traumatizzato e deluso per la loro gravità e distrutto ogni speranza di cambiamento e di vita migliore
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domenica 13 aprile 2008
paolo virzi tutta la vita davanti
Tutta la vita davanti (2008)
Il grottesco e tragicomico mondo del precariato italiano osservato con
umanità da Paolo Virzì.
Un film di Paolo Virzì con Isabella Ragonese, Sabrina Ferilli, Elio Germano,
Massimo Ghini, Valerio Mastandrea, Micaela Ramazzotti, Valentina Carnelutti.
Genere Commedia durata 117 minuti. Produzione Italia 2008.
Uscita nelle sale: venerdì 28 marzo 2008
Un'analisi in chiave comica del precariato dell'Italia di oggi, delle ansie, delle
aspirazioni, e dei problemi quotidiani dei giovani.
Chiara Renda - www.mymovies.it
Nel bel mezzo di una corale apertura onirica a suon di Beach Boys, la voce
narrante di Laura Morante ci introduce cautamente nella favola 'nera' di Marta,
ventiquattrenne siciliana trapiantata a Roma neolaureata con lode, abbraccio
accademico e pubblicazione della tesi in filosofia teoretica. Umile, curiosa e un
poco ingenua, Marta si vede chiudere in faccia le porte del mondo accademico
ed editoriale, per ritrovarsi a essere "scelta" come baby-sitter dalla figlia della
sbandata e fragile ragazza madre Sonia (interpretata con struggente intensità
da Micaela Ramazzotti). È proprio questa "Marilyn di borgata" a introdurla nel
call center della Multiple, azienda specializzata nella vendita di un apparecchio
di depurazione dell'acqua apparentemente miracoloso.Da qui inizia il viaggio di
Marta in un mondo alieno, quello dei tanti giovani, carini e "precariamente
occupati" italiani: in una periferia romana spaventosamente deserta e
avveniristica, isolata dal resto del mondo come un reality, la Multiple si rivela
pian piano al suo sguardo ingenuo come una sorta di mostro che fagocita i
giovani lavoratori, illudendoli con premi e incoraggiamenti (sms motivazionali
quotidiani della capo-reparto), training da villaggio vacanze (coreografie di
gruppo per "iniziare bene la giornata") per poi punirli con eliminazioni alla
'Grande fratello'. Un mondo plasticamente sorridente e spaventato, in cui vittime
(giovani precari pieni di speranze come il fragile Lucio 2 di Elio Germano) e
carnefici (Ghini e Ferilli, di nuovo insieme diretti da Virzì dopo 'La bella vita')
sono accomunati da una stessa ansia per il futuro che si tramuta in folle
disperazione. Non c'è scampo per nessuno all'interno di queste logiche di
sfruttamento, e a poco servirà il tentativo dell'onesto ma evanescente
sindacalista Giorgio Conforti (Valerio Mastandrea) di cambiare idealisticamente
un mondo che difficilmente può essere cambiato. Prendendo spunto dal libro
della blogger sarda Michela Murgia, "Il mondo deve sapere", Virzì esplora con
gli occhi di Marta, attraverso il viso curioso della fresca Isabella Ragonese (per
adesso solo una piccola parte in 'Nuovomondo'), l'inferno di questo precariato
con 'tutta la vita davanti'; e lo fa con lo spirito comico e amaro che da sempre lo
contraddistingue. Accentuando stavolta i toni tragicomici e grotteschi da
commedia nera, il regista toscano dà vita a un'opera corale, matura e
agghiacciante, che rivisita (attualizzandola) la miglior tradizione della commedia
amara alla Monicelli, costruendo – grazie anche all'apporto del fido
sceneggiatore Francesco Bruni – personaggi complessi e sfaccettati,
teneri e feroci, comici e tragici a un tempo, ma tutti disperatamente umani e
autentici. Con la stessa umiltà e onestà intellettuale di Marta, Virzì si muove tra
le spaventose dinamiche del mondo moderno senza mai cadere nel facile
giudizio, nel pietismo o – vista l'attualità del tema – nella trappola
del film a tesi, mantenendo sempre in primo piano il suo amore per gli ultimi e
una compassione per le sue creature disperate e perfide, figlie di una società
malata, ma forse non ancora in fase terminale. E se Marta può ancora sognare
un mondo migliore per sé e per la bambina cui fa da baby-sitter, un mondo che
balla spensierato ascoltando i Beach Boys e si affeziona a una voce telefonica,
tutto attorno resta un ritratto allarmante dell'Italia di oggi, che Virzì svela
sapientemente sotto una patina di sinistra comicità. Un'Italia dolce e amara
quella di 'Tutta la vita davanti', che commuove e angoscia lasciandoci con un
groppo in gola, come quell''ovosodo' che non andava né su né giù.
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Il grottesco e tragicomico mondo del precariato italiano osservato con
umanità da Paolo Virzì.
Un film di Paolo Virzì con Isabella Ragonese, Sabrina Ferilli, Elio Germano,
Massimo Ghini, Valerio Mastandrea, Micaela Ramazzotti, Valentina Carnelutti.
Genere Commedia durata 117 minuti. Produzione Italia 2008.
Uscita nelle sale: venerdì 28 marzo 2008
Un'analisi in chiave comica del precariato dell'Italia di oggi, delle ansie, delle
aspirazioni, e dei problemi quotidiani dei giovani.
Chiara Renda - www.mymovies.it
Nel bel mezzo di una corale apertura onirica a suon di Beach Boys, la voce
narrante di Laura Morante ci introduce cautamente nella favola 'nera' di Marta,
ventiquattrenne siciliana trapiantata a Roma neolaureata con lode, abbraccio
accademico e pubblicazione della tesi in filosofia teoretica. Umile, curiosa e un
poco ingenua, Marta si vede chiudere in faccia le porte del mondo accademico
ed editoriale, per ritrovarsi a essere "scelta" come baby-sitter dalla figlia della
sbandata e fragile ragazza madre Sonia (interpretata con struggente intensità
da Micaela Ramazzotti). È proprio questa "Marilyn di borgata" a introdurla nel
call center della Multiple, azienda specializzata nella vendita di un apparecchio
di depurazione dell'acqua apparentemente miracoloso.Da qui inizia il viaggio di
Marta in un mondo alieno, quello dei tanti giovani, carini e "precariamente
occupati" italiani: in una periferia romana spaventosamente deserta e
avveniristica, isolata dal resto del mondo come un reality, la Multiple si rivela
pian piano al suo sguardo ingenuo come una sorta di mostro che fagocita i
giovani lavoratori, illudendoli con premi e incoraggiamenti (sms motivazionali
quotidiani della capo-reparto), training da villaggio vacanze (coreografie di
gruppo per "iniziare bene la giornata") per poi punirli con eliminazioni alla
'Grande fratello'. Un mondo plasticamente sorridente e spaventato, in cui vittime
(giovani precari pieni di speranze come il fragile Lucio 2 di Elio Germano) e
carnefici (Ghini e Ferilli, di nuovo insieme diretti da Virzì dopo 'La bella vita')
sono accomunati da una stessa ansia per il futuro che si tramuta in folle
disperazione. Non c'è scampo per nessuno all'interno di queste logiche di
sfruttamento, e a poco servirà il tentativo dell'onesto ma evanescente
sindacalista Giorgio Conforti (Valerio Mastandrea) di cambiare idealisticamente
un mondo che difficilmente può essere cambiato. Prendendo spunto dal libro
della blogger sarda Michela Murgia, "Il mondo deve sapere", Virzì esplora con
gli occhi di Marta, attraverso il viso curioso della fresca Isabella Ragonese (per
adesso solo una piccola parte in 'Nuovomondo'), l'inferno di questo precariato
con 'tutta la vita davanti'; e lo fa con lo spirito comico e amaro che da sempre lo
contraddistingue. Accentuando stavolta i toni tragicomici e grotteschi da
commedia nera, il regista toscano dà vita a un'opera corale, matura e
agghiacciante, che rivisita (attualizzandola) la miglior tradizione della commedia
amara alla Monicelli, costruendo – grazie anche all'apporto del fido
sceneggiatore Francesco Bruni – personaggi complessi e sfaccettati,
teneri e feroci, comici e tragici a un tempo, ma tutti disperatamente umani e
autentici. Con la stessa umiltà e onestà intellettuale di Marta, Virzì si muove tra
le spaventose dinamiche del mondo moderno senza mai cadere nel facile
giudizio, nel pietismo o – vista l'attualità del tema – nella trappola
del film a tesi, mantenendo sempre in primo piano il suo amore per gli ultimi e
una compassione per le sue creature disperate e perfide, figlie di una società
malata, ma forse non ancora in fase terminale. E se Marta può ancora sognare
un mondo migliore per sé e per la bambina cui fa da baby-sitter, un mondo che
balla spensierato ascoltando i Beach Boys e si affeziona a una voce telefonica,
tutto attorno resta un ritratto allarmante dell'Italia di oggi, che Virzì svela
sapientemente sotto una patina di sinistra comicità. Un'Italia dolce e amara
quella di 'Tutta la vita davanti', che commuove e angoscia lasciandoci con un
groppo in gola, come quell''ovosodo' che non andava né su né giù.
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Tali Fahima pacifista israeliana
http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/10-Aprile-2008/art41.html
Tali Fahima pacifista israeliana
Vivere in mezzo «al nemico», l'ultima eresia di Tali Fahima
La pacifista israeliana lascia Tel Aviv e si trasferisce nel villaggio palestinese di Ar'ara. Dopo la sua visita shock alla famiglia di un attentatore era diventata uno dei personaggi più odiati del Paese
Michelangelo Cocco
Inviato ad Ar'ara (Israele)
Il materasso appoggiato sul pavimento, un paio di tavolini e qualche libro, il computer portatile a tenerle compagnia nelle notti insonni: la nuova vita di Tali Fahima inizia da un bilocale ancora da arredare nel villaggio arabo di Ar'ara. «A Tel Aviv non potevo più camminare per strada, subivo continue minacce. Ho fatto in tempo a portare con me il minimo indispensabile», racconta la pacifista israeliana accendendo la prima di una lunga serie di sigarette.
Dopo aver pagato con 26 mesi di carcere (di cui oltre un anno in «detenzione amministrativa», senza accuse formali) la sua amicizia con l'ex capo delle Brigate dei martiri di Al Aqsa, Zakarias Zubeideh, Fahima ha varcato un'altra linea rossa andando a vivere in mezzo ai palestinesi nel «Triangolo» a nordest di Tel Aviv, la zona che Israele ha più volte mostrato di voler cedere al futuro Stato palestinese in cambio dei principali blocchi di colonie nei Territori occupati.
Ad accelerare il trasloco di Fahima, l'evento che le è valso l'odio da parte della società nella quale la 32enne sefardita (madre di origini algerine, padre marocchine) fino a pochi anni fa aveva vissuto tranquillamente, lavorando in uno studio legale e sposando l'ideologia della destra sionista del Likud che vuole l'espulsione degli arabi dallo Stato ebraico: l'11 marzo scorso la ragazza ha reso le condoglianze alla famiglia di Ala Abu Dhaim, l'attentatore palestinese che pochi giorni prima a Gerusalemme aveva ucciso otto giovani seminaristi nel collegio rabbinico Mercaz Harav.
Da quel momento i gruppi della sinistra che avevano sostenuto la campagna per la sua liberazione quando, nel dicembre 2005, era stata condannata a tre anni di carcere per «aver mantenuto contatti con agenti stranieri» le hanno voltato le spalle e persino i suoi genitori l'hanno abbandonata. Nella sua trasmissione radiofonica, i cui bersagli preferiti sono i membri arabi della Knesset e i pacifisti di Peace now, l'ex parlamentare Plato Sharon l'ha accusata di «essere come Hamas». Sul sito internet Facebook in molti si augurano che venga cacciata dal Paese.
«Ho fatto quello che era giusto secondo i miei princìpi ebraici - si difende Fahima -. Anzitutto ho voluto spiegare che il gesto dell'attentatore è secondo me una conseguenza dell'occupazione. Inoltre ho provato a lanciare l'allarme su possibili rappresaglie contro la sua famiglia». Cinque giorni dopo la visita di Fahima, centinaia di estremisti della destra israeliana hanno sfilato per Abu Tur - il quartiere di Gerusalemme est dove risiedeva l'attentatore - gridando «Vendetta, morte agli arabi» e lanciando pietre contro le case palestinesi prima che l'intervento della polizia li disperdesse.
«In passato odiavo gli arabi, pensavo che dovessero essere cacciati da Israele» ricorda la donna il cui volto, incorniciato da una spessa montatura nera e dai capelli raccolti dietro la nuca, è diventato un'immagine inquietante per molti israeliani.
Prima di Fahima pochi altri dissidenti sono andati a vivere «in mezzo al nemico», a quel 20% di cittadini palestinesi che lo Stato chiama arabo-israeliani e che - denunciano le organizzazioni per i diritti umani - tratta come cittadini di serie B. Uri Davis, da anni iscritto ad Al-Fatah, da Saknin ha lanciato una battaglia legale per far ammettere nei kibbutzim e nei moshavim anche i cittadini arabi d'Israele. Susan Nathan dalla sua esperienza nella cittadina di Tamra ha tratto il libro «Shalom fratello arabo». Credono tutti che l'unica soluzione del conflitto possa essere uno stato unico che accolga ebrei e arabi con gli stessi diritti. L'ultima arrivata, in ordine di tempo, non ha dubbi: «Lo Stato ha paura dei suoi dissidenti che andando a vivere tra i palestinesi spezzano la spirale paura-occupazione creata dal sionismo».
La svolta nella vita di Fahima arriva con la cosiddetta «seconda intifada», quando gli attentatori suicidi palestinesi facevano stragi tra i negozi alla moda e nei viali alberati della sua Tel Aviv. «L'occupazione stava sconvolgendo la mia vita, volevo capire perché». Fahima riesce a ottenere il numero di cellulare di Zubeideh da un giornalista, inizia una corrispondenza telefonica quotidiana col guerrigliero e, alla fine, si reca a visitare il campo di Jenin, dove il super ricercato si nasconde.
Come a tutti gli israeliani, i Territori occupati le sono proibiti, ma lei riesce a entrarci: «I posti di blocco dell'esercito, la povertà dei palestinesi, i militari che ammazzano i civili: se non la vedi, questa realtà può risultarti indifferente, lontana, invece è a 20 minuti da qui».
È il 2003 e le ferite della distruzione del campo di Jenin ordinata dall'ex premier Sharon sono ancora aperte. «La molla mi è scattata quando ho visto il campo profughi - continua a raccontare -: come possiamo fare cose simili? ho pensato». Con la seconda visita, inizia un progetto di doposcuola per i bambini del campo.
«Due settimane dopo lo Shabak (il servizio segreto interno, ndr) mi ha posto di fronte a un'alternativa: collaborare per arrestare Zakarias o finire in prigione». Lei opta per fargli da «scudo umano», difendendolo dai raid dell'esercito che vuole catturarlo. Le fanno scontare la prima settimana di carcere, poi un altro arresto, di tre mesi, un anno d'isolamento e così via. Tali Fahima è ormai una «traditrice» oppure «l'amante di Zakarias» o, semplicemente, «una stupida», «come mi gridava la gente per strada».
Arrivata ad Ar'ara alla fine del mese scorso, con Ali, Naim, Eimad e gli altri membri della hamula (famiglia allargata) dei Buerat che le hanno affittato il piano terra di una delle loro case sembra conoscersi da sempre. «È normale, mettono a suo agio chiunque, perché sono palestinesi» dice dopo aver salutato in ebraico il piccolo Amir.
Un ordine dei servizi di sicurezza costringe Fahima, pena l'arresto, a stare lontana da quella Jenin che le ha insegnato ad amare i palestinesi. Il suo amico Zakarias, ex super ricercato, è stato integrato nella nuova polizia palestinese.
Tali Fahima pacifista israeliana
Vivere in mezzo «al nemico», l'ultima eresia di Tali Fahima
La pacifista israeliana lascia Tel Aviv e si trasferisce nel villaggio palestinese di Ar'ara. Dopo la sua visita shock alla famiglia di un attentatore era diventata uno dei personaggi più odiati del Paese
Michelangelo Cocco
Inviato ad Ar'ara (Israele)
Il materasso appoggiato sul pavimento, un paio di tavolini e qualche libro, il computer portatile a tenerle compagnia nelle notti insonni: la nuova vita di Tali Fahima inizia da un bilocale ancora da arredare nel villaggio arabo di Ar'ara. «A Tel Aviv non potevo più camminare per strada, subivo continue minacce. Ho fatto in tempo a portare con me il minimo indispensabile», racconta la pacifista israeliana accendendo la prima di una lunga serie di sigarette.
Dopo aver pagato con 26 mesi di carcere (di cui oltre un anno in «detenzione amministrativa», senza accuse formali) la sua amicizia con l'ex capo delle Brigate dei martiri di Al Aqsa, Zakarias Zubeideh, Fahima ha varcato un'altra linea rossa andando a vivere in mezzo ai palestinesi nel «Triangolo» a nordest di Tel Aviv, la zona che Israele ha più volte mostrato di voler cedere al futuro Stato palestinese in cambio dei principali blocchi di colonie nei Territori occupati.
Ad accelerare il trasloco di Fahima, l'evento che le è valso l'odio da parte della società nella quale la 32enne sefardita (madre di origini algerine, padre marocchine) fino a pochi anni fa aveva vissuto tranquillamente, lavorando in uno studio legale e sposando l'ideologia della destra sionista del Likud che vuole l'espulsione degli arabi dallo Stato ebraico: l'11 marzo scorso la ragazza ha reso le condoglianze alla famiglia di Ala Abu Dhaim, l'attentatore palestinese che pochi giorni prima a Gerusalemme aveva ucciso otto giovani seminaristi nel collegio rabbinico Mercaz Harav.
Da quel momento i gruppi della sinistra che avevano sostenuto la campagna per la sua liberazione quando, nel dicembre 2005, era stata condannata a tre anni di carcere per «aver mantenuto contatti con agenti stranieri» le hanno voltato le spalle e persino i suoi genitori l'hanno abbandonata. Nella sua trasmissione radiofonica, i cui bersagli preferiti sono i membri arabi della Knesset e i pacifisti di Peace now, l'ex parlamentare Plato Sharon l'ha accusata di «essere come Hamas». Sul sito internet Facebook in molti si augurano che venga cacciata dal Paese.
«Ho fatto quello che era giusto secondo i miei princìpi ebraici - si difende Fahima -. Anzitutto ho voluto spiegare che il gesto dell'attentatore è secondo me una conseguenza dell'occupazione. Inoltre ho provato a lanciare l'allarme su possibili rappresaglie contro la sua famiglia». Cinque giorni dopo la visita di Fahima, centinaia di estremisti della destra israeliana hanno sfilato per Abu Tur - il quartiere di Gerusalemme est dove risiedeva l'attentatore - gridando «Vendetta, morte agli arabi» e lanciando pietre contro le case palestinesi prima che l'intervento della polizia li disperdesse.
«In passato odiavo gli arabi, pensavo che dovessero essere cacciati da Israele» ricorda la donna il cui volto, incorniciato da una spessa montatura nera e dai capelli raccolti dietro la nuca, è diventato un'immagine inquietante per molti israeliani.
Prima di Fahima pochi altri dissidenti sono andati a vivere «in mezzo al nemico», a quel 20% di cittadini palestinesi che lo Stato chiama arabo-israeliani e che - denunciano le organizzazioni per i diritti umani - tratta come cittadini di serie B. Uri Davis, da anni iscritto ad Al-Fatah, da Saknin ha lanciato una battaglia legale per far ammettere nei kibbutzim e nei moshavim anche i cittadini arabi d'Israele. Susan Nathan dalla sua esperienza nella cittadina di Tamra ha tratto il libro «Shalom fratello arabo». Credono tutti che l'unica soluzione del conflitto possa essere uno stato unico che accolga ebrei e arabi con gli stessi diritti. L'ultima arrivata, in ordine di tempo, non ha dubbi: «Lo Stato ha paura dei suoi dissidenti che andando a vivere tra i palestinesi spezzano la spirale paura-occupazione creata dal sionismo».
La svolta nella vita di Fahima arriva con la cosiddetta «seconda intifada», quando gli attentatori suicidi palestinesi facevano stragi tra i negozi alla moda e nei viali alberati della sua Tel Aviv. «L'occupazione stava sconvolgendo la mia vita, volevo capire perché». Fahima riesce a ottenere il numero di cellulare di Zubeideh da un giornalista, inizia una corrispondenza telefonica quotidiana col guerrigliero e, alla fine, si reca a visitare il campo di Jenin, dove il super ricercato si nasconde.
Come a tutti gli israeliani, i Territori occupati le sono proibiti, ma lei riesce a entrarci: «I posti di blocco dell'esercito, la povertà dei palestinesi, i militari che ammazzano i civili: se non la vedi, questa realtà può risultarti indifferente, lontana, invece è a 20 minuti da qui».
È il 2003 e le ferite della distruzione del campo di Jenin ordinata dall'ex premier Sharon sono ancora aperte. «La molla mi è scattata quando ho visto il campo profughi - continua a raccontare -: come possiamo fare cose simili? ho pensato». Con la seconda visita, inizia un progetto di doposcuola per i bambini del campo.
«Due settimane dopo lo Shabak (il servizio segreto interno, ndr) mi ha posto di fronte a un'alternativa: collaborare per arrestare Zakarias o finire in prigione». Lei opta per fargli da «scudo umano», difendendolo dai raid dell'esercito che vuole catturarlo. Le fanno scontare la prima settimana di carcere, poi un altro arresto, di tre mesi, un anno d'isolamento e così via. Tali Fahima è ormai una «traditrice» oppure «l'amante di Zakarias» o, semplicemente, «una stupida», «come mi gridava la gente per strada».
Arrivata ad Ar'ara alla fine del mese scorso, con Ali, Naim, Eimad e gli altri membri della hamula (famiglia allargata) dei Buerat che le hanno affittato il piano terra di una delle loro case sembra conoscersi da sempre. «È normale, mettono a suo agio chiunque, perché sono palestinesi» dice dopo aver salutato in ebraico il piccolo Amir.
Un ordine dei servizi di sicurezza costringe Fahima, pena l'arresto, a stare lontana da quella Jenin che le ha insegnato ad amare i palestinesi. Il suo amico Zakarias, ex super ricercato, è stato integrato nella nuova polizia palestinese.
sabato 12 aprile 2008
giacomo brodolini
lettera a Sergio Romano
Caro Professore,
Giacomo Brodolini ricordato ieri nella sua rubrica non solo fu il padre dello Statuto dei Diritti dei Lavoratori ma anche della riforma delle pensioni che passo dal sistema a capitalizzazione a quello ben più favorevole per i lavoratori detto a ripartizione aboli le gabbie salariali (l'Italia era divisa in tredici zone salariali) e modernizzò il collocamento.
I comunisti votarono quasi sempre contro contrariamente a quanto ricorda Bertinotti che, nel governo Prodi, ha dato una mano a disfare quanto rimane all'Italia dell'eredità socialista di Brodolini.
Pietro Ancona
Caro Professore,
Giacomo Brodolini ricordato ieri nella sua rubrica non solo fu il padre dello Statuto dei Diritti dei Lavoratori ma anche della riforma delle pensioni che passo dal sistema a capitalizzazione a quello ben più favorevole per i lavoratori detto a ripartizione aboli le gabbie salariali (l'Italia era divisa in tredici zone salariali) e modernizzò il collocamento.
I comunisti votarono quasi sempre contro contrariamente a quanto ricorda Bertinotti che, nel governo Prodi, ha dato una mano a disfare quanto rimane all'Italia dell'eredità socialista di Brodolini.
Pietro Ancona
venerdì 11 aprile 2008
protesta col manifesto
Cara redazione,
non condivido la vostra posizione sulla questione tibetana. Mi sembra di rivedere tutta la vicenda della pulizia etnica del kossovo quando le cose stavano in modo completamente diverso.
Voi ignorate come questa provocazione occidentale contro la Cina usa cinicamente la questione dei diritti umani per mutilare la Cina come si è mutilata la Serbia.
Voi non tenete conto di come tutto sia cominciato da un pogrom dei sanguinari monaci tibetani (leggete Terzani al riguardo) contro inermi cittadini cinesi dati alle fiamme.
Voi fiancheggiate con la vostra ambiguità una campagna di calunnie del neocolonialismo. La repressione cinese nel Tibet è falsa quanto le armi di distruzione di massa di Sadam Hussein.
Informatevi su che cosa era il regime teocratico del Dalai Lama prima della rivoluzione del 59. Lo stesso Sergio Romano del Corriere della Sera è assai più obiettivo di voi.
Pietro Ancona
non condivido la vostra posizione sulla questione tibetana. Mi sembra di rivedere tutta la vicenda della pulizia etnica del kossovo quando le cose stavano in modo completamente diverso.
Voi ignorate come questa provocazione occidentale contro la Cina usa cinicamente la questione dei diritti umani per mutilare la Cina come si è mutilata la Serbia.
Voi non tenete conto di come tutto sia cominciato da un pogrom dei sanguinari monaci tibetani (leggete Terzani al riguardo) contro inermi cittadini cinesi dati alle fiamme.
Voi fiancheggiate con la vostra ambiguità una campagna di calunnie del neocolonialismo. La repressione cinese nel Tibet è falsa quanto le armi di distruzione di massa di Sadam Hussein.
Informatevi su che cosa era il regime teocratico del Dalai Lama prima della rivoluzione del 59. Lo stesso Sergio Romano del Corriere della Sera è assai più obiettivo di voi.
Pietro Ancona
faziosità sul tibet
----- Original Message -----
From: pietroancona@tin.it
To: primapagina@rai.it
Cc: giovanni.sabbatucci@fastwebnet.it
Sent: Friday, April 11, 2008 8:46 AM
Subject: Conduzione
Caro professore Sabbatucci,
siamo al venerdi e lei continua la sua opera di faziosa disinformazione sulle questioni del Tibet. Lei è embedded di una causa certamente non nobile perchè genera tensioni
contro un grande popolo umiliato oggi dalla pagliacciata organizzata dalla Cia in tutte le capitali del mondo.. Lei ha avuto parole inadeguate e faziose per i palestinesi e di disprezzo per i loro diritti. ben sapendo che ventimila palestinesi tra i quali migliaia di donne e bambini sono chiusi da anni senza processo nelle prigioni di Israele e che molte donne bisognose di immediato ricovero ospedaliero sono state fatte morire nei punti di controllo che rendono labirintica e folle la striscia di Gaza e la CisGiordania.
Lei è professore di storia. Ha il dovere di dire la verità e di non essere uno strumento di propaganda delle veline americane. Ma naturalmente non sarebbe opinionista del Messaggero (Caltagirone) se non fosse del tutto allineato. Ha avuto anche il cattivo gusto di leggere le volgarità del "foglio" contro due suoi colleghi professori universitari che hanno avuto il coraggio di non unirsi al suo coro.
Pietro Ancona
From: pietroancona@tin.it
To: primapagina@rai.it
Cc: giovanni.sabbatucci@fastwebnet.it
Sent: Friday, April 11, 2008 8:46 AM
Subject: Conduzione
Caro professore Sabbatucci,
siamo al venerdi e lei continua la sua opera di faziosa disinformazione sulle questioni del Tibet. Lei è embedded di una causa certamente non nobile perchè genera tensioni
contro un grande popolo umiliato oggi dalla pagliacciata organizzata dalla Cia in tutte le capitali del mondo.. Lei ha avuto parole inadeguate e faziose per i palestinesi e di disprezzo per i loro diritti. ben sapendo che ventimila palestinesi tra i quali migliaia di donne e bambini sono chiusi da anni senza processo nelle prigioni di Israele e che molte donne bisognose di immediato ricovero ospedaliero sono state fatte morire nei punti di controllo che rendono labirintica e folle la striscia di Gaza e la CisGiordania.
Lei è professore di storia. Ha il dovere di dire la verità e di non essere uno strumento di propaganda delle veline americane. Ma naturalmente non sarebbe opinionista del Messaggero (Caltagirone) se non fosse del tutto allineato. Ha avuto anche il cattivo gusto di leggere le volgarità del "foglio" contro due suoi colleghi professori universitari che hanno avuto il coraggio di non unirsi al suo coro.
Pietro Ancona
giovedì 10 aprile 2008
vattimo e lo surdo appello contro i monaci
giovedì 10 aprile 2008
>>> CORRIERE DELLA SERA.it
>>> Vattimo, appello contro i monaci tibetani
>>> Cronache
>>>
>>> L'iniziativa dello storico Losurdo e del filosofo torinese
>>> Vattimo, appello contro i monaci tibetani
>>> «Informazione scorretta: non è altro che la versione aggiornata del
>>> piano imperialista inglese contro la Cina»
>>> E se i disordini di Lhasa del 14 marzo non fossero stati altro che «un
>>> pogrom anticinese»? Una «caccia all'uomo finita con donne, bambini e
>>> vecchi dati alle fiamme?» e se la stampa internazionale «quella europea
>>> in particolare» fosse impegnata in «una campagna anti-cinese dai
>>> connotati razzisti», degna continuazione del vecchio «piano imperialista
>>> contro Pechino e della guerra dell'Oppio?». A pensarlo sono due
>>> intellettuali di sinistra: il filosofo torinese del pensiero debole
>>> Gianni Vattimo e lo storico dell'Università di Urbino Domenico Losurdo,
>>> che sulla Cina moderna ha scritto più di un libro. Nel giorno in cui
>>> Gordon Brown annuncia il proprio boicottaggio politico delle cerimonie
>>> olimpiche, Losurdo si è incollato alla sua posta elettronica per
>>> lanciare un appello agli altri intellettuali italiani affinché si riveda
>>> l'interpretazione «troppo squilibrata» a favore dei monaci di quanto sta
>>> succedendo in questi mesi pre-olimpici dentro i confini del Tibet.
>>> Finora l'unico che ha risposto con interesse alla chiamata da Urbino è
>>> stato Gianni Vattimo, che ha dato l'ok alla bozza di Losurdo: «Sì, io
>>> firmo».
>>>
>>> CACCIA ALL'UOMO - A sostegno della loro tesi, finora del tutto
>>> minoritaria, i due professori — Losurdo è considerato vicino all'area
>>> dell'Ernesto, la minoranza di Rifondazione comunista, Vattimo, già
>>> europarlamentare ds, poi passato al partito dei comunisti italiani di
>>> Diliberto è ora approdato al marxismo tout court — portano anche foto,
>>> reportage di giornalisti stranieri, testimonianze di turisti che erano a
>>> Lhasa in quei giorni e «video della tv cinese, censurati in Italia, ma
>>> che — spiega Losurdo — sono facilmente scaricabili da internet»: «La
>>> stampa europea e quella italiana in particolare hanno accettato la
>>> versione dei monaci, e solo qua e là a spizzichi e bocconi si può
>>> leggere qualche informazione corretta sulla selvaggia caccia all'uomo di
>>> quei giorni in cui la polizia cinese fu chiamata ad intervenire troppo
>>> tardi, quando il più era già avvenuto». Riportare dunque all'ordine del
>>> giorno anche la vulgata cinese è la missione che i due intellettuali si
>>> sono proposti e per la quale sono al lavoro, limando il testo
>>> dell'appello da proporre ai loro colleghi, ma anche ai parlamentari e
>>> all'opinione pubblica. Una difesa vera e propria della Cina
>>> «dall'attacco occidentale»: «Prima l'indipendenza mascherata da
>>> autonomia del Tibet — protesta Losurdo — del Grande Tibet, poi della
>>> Mongolia interna e infine della Manciuria: non è altro che la versione
>>> aggiornata del piano imperialista inglese contro la Cina».
>>> Gianna Fregonara
>>> 10 aprile 2008
>>
>
>>> CORRIERE DELLA SERA.it
>>> Vattimo, appello contro i monaci tibetani
>>> Cronache
>>>
>>> L'iniziativa dello storico Losurdo e del filosofo torinese
>>> Vattimo, appello contro i monaci tibetani
>>> «Informazione scorretta: non è altro che la versione aggiornata del
>>> piano imperialista inglese contro la Cina»
>>> E se i disordini di Lhasa del 14 marzo non fossero stati altro che «un
>>> pogrom anticinese»? Una «caccia all'uomo finita con donne, bambini e
>>> vecchi dati alle fiamme?» e se la stampa internazionale «quella europea
>>> in particolare» fosse impegnata in «una campagna anti-cinese dai
>>> connotati razzisti», degna continuazione del vecchio «piano imperialista
>>> contro Pechino e della guerra dell'Oppio?». A pensarlo sono due
>>> intellettuali di sinistra: il filosofo torinese del pensiero debole
>>> Gianni Vattimo e lo storico dell'Università di Urbino Domenico Losurdo,
>>> che sulla Cina moderna ha scritto più di un libro. Nel giorno in cui
>>> Gordon Brown annuncia il proprio boicottaggio politico delle cerimonie
>>> olimpiche, Losurdo si è incollato alla sua posta elettronica per
>>> lanciare un appello agli altri intellettuali italiani affinché si riveda
>>> l'interpretazione «troppo squilibrata» a favore dei monaci di quanto sta
>>> succedendo in questi mesi pre-olimpici dentro i confini del Tibet.
>>> Finora l'unico che ha risposto con interesse alla chiamata da Urbino è
>>> stato Gianni Vattimo, che ha dato l'ok alla bozza di Losurdo: «Sì, io
>>> firmo».
>>>
>>> CACCIA ALL'UOMO - A sostegno della loro tesi, finora del tutto
>>> minoritaria, i due professori — Losurdo è considerato vicino all'area
>>> dell'Ernesto, la minoranza di Rifondazione comunista, Vattimo, già
>>> europarlamentare ds, poi passato al partito dei comunisti italiani di
>>> Diliberto è ora approdato al marxismo tout court — portano anche foto,
>>> reportage di giornalisti stranieri, testimonianze di turisti che erano a
>>> Lhasa in quei giorni e «video della tv cinese, censurati in Italia, ma
>>> che — spiega Losurdo — sono facilmente scaricabili da internet»: «La
>>> stampa europea e quella italiana in particolare hanno accettato la
>>> versione dei monaci, e solo qua e là a spizzichi e bocconi si può
>>> leggere qualche informazione corretta sulla selvaggia caccia all'uomo di
>>> quei giorni in cui la polizia cinese fu chiamata ad intervenire troppo
>>> tardi, quando il più era già avvenuto». Riportare dunque all'ordine del
>>> giorno anche la vulgata cinese è la missione che i due intellettuali si
>>> sono proposti e per la quale sono al lavoro, limando il testo
>>> dell'appello da proporre ai loro colleghi, ma anche ai parlamentari e
>>> all'opinione pubblica. Una difesa vera e propria della Cina
>>> «dall'attacco occidentale»: «Prima l'indipendenza mascherata da
>>> autonomia del Tibet — protesta Losurdo — del Grande Tibet, poi della
>>> Mongolia interna e infine della Manciuria: non è altro che la versione
>>> aggiornata del piano imperialista inglese contro la Cina».
>>> Gianna Fregonara
>>> 10 aprile 2008
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sergio romano sul tibet
sergio romano Lettere al Corriere
La protesta tibetana i monaci e la modernità
Caro Vergili,
La sua lettera coglie un punto a cui l’opinione pubblica occidentale non ha prestato molta attenzione.
È possibile che gli esuli tibetani, cresciuti lontano dalla madrepatria, stiano facendo una battaglia democratica per i diritti umani e civili del loro Paese. Ed è evidente che il Dalai Lama si accontenterebbe di un Tibet autonomo, soggetto all’autorità politica di Pechino e tuttavia libero, al tempo stesso, di coltivare le proprie tradizioni culturali e religiose.
Ma la violenta rivolta dei monaci a Lhasa e in altre province cinesi dove abitano importanti comunità tibetane, è stata una insurrezione conservatrice.
Sappiamo che la Cina ha sempre considerato il Tibet una insopportabile anomalia e ha fatto del suo meglio per alterare la composizione demografica della regione favorendo l’insediamento nel territorio di una nuova popolazione han (così hanno fatto, incidentalmente, molti Paesi europei, fra cui l’Italia, quando si sono impadroniti di terre di confine abitate da minoranze che appartenevano a un diverso ceppo nazionale).
Ma fu subito evidente che la Repubblica popolare non avrebbe mai tollerato, all’interno dei propri confini, una Santa Sede del buddismo himalayano, un regime feudale e religioso come quello sorto molti secoli fa sull’altopiano tibetano.
La situazione si è ulteriormente complicata quando la grande modernizzazione cinese ha finalmente investito il Paese. Quando visitai il Tibet nel 1981, il rapporto fra i tibetani e l’amministrazione cinese era congelato dallo stato di arretratezza economica della provincia. Gli occupanti e i sudditi sembravano avere concluso una tregua che nessuno, in quel momento, aveva interesse a rompere. Ma lo sviluppo economico, da allora, ha creato turismo, commercio, iniziative industriali. Durante una visita organizzata dal governo di Pechino dopo le agitazioni dello scorso marzo, i corrispondenti stranieri hanno fatto due constatazioni interessanti.
In primo luogo si sono accorti che i monaci tibetani, contrariamente alla loro reputazione occidentale, non sono cultori della «non violenza» e ne hanno dato la prova con una furia devastatrice che ha colto di sorpresa le forze di polizia.
In secondo luogo hanno compreso che la loro rivolta non era diretta soltanto contro i cinesi, ma anche contro una classe emergente di tibetani che stanno sfruttando i vantaggi della modernizzazione.
Quello a cui abbiamo assistito, in altre parole, non è, se non in parte, uno scontro fra democrazia e dittatura.
È anche il segno di una frattura sociale che si è aperta all’interno della società tibetana.
Non è necessario essere marxisti o anticlericali per osservare che la Cina recita in questa faccenda, sia pure con i modi intolleranti di un regime autoritario, la parte della modernità e che i monaci, come si sarebbe detto una volta, quella della reazione.
__________________---
È giusto invitare le autorità cinesi alla moderazione di fronte alla rivolta dei monaci tibetani, ma non si può pretendere che la Repubblica popolare tolleri che una sua regione sia governata da una teocrazia. La Cina, con l’introduzione del mercato, sta sviluppando a tappe forzate la sua economia (e di conseguenza la società) e la modernizzazione del Tibet è parte integrante del progetto.
Il boicottaggio delle Olimpiadi inasprirebbe i rapporti con quella che fra pochi decenni sarà la maggiore potenza economica mondiale. D’altronde non sono affatto convinto che il mancato boicottaggio rappresenterebbe, come molti sostengono, un tradimento dei nostri valori; trovo anzi singolare pretendere, in nome della cultura occidentale, che società e civiltà arcaiche vengano trattate come reperti archeologici da conservare a ogni costo per la delizia di turisti e antropologi. Del resto, è proprio il rifiuto da parte di Stati e culture di uscire dal medioevo per entrare nella modernità che spesso costituisce l'ostacolo maggiore al dialogo e alla coesistenza.
Giorgio Vergili, giorgio.vergili@fastwebnet.it
http://www.corriere.it/romano/
La protesta tibetana i monaci e la modernità
Caro Vergili,
La sua lettera coglie un punto a cui l’opinione pubblica occidentale non ha prestato molta attenzione.
È possibile che gli esuli tibetani, cresciuti lontano dalla madrepatria, stiano facendo una battaglia democratica per i diritti umani e civili del loro Paese. Ed è evidente che il Dalai Lama si accontenterebbe di un Tibet autonomo, soggetto all’autorità politica di Pechino e tuttavia libero, al tempo stesso, di coltivare le proprie tradizioni culturali e religiose.
Ma la violenta rivolta dei monaci a Lhasa e in altre province cinesi dove abitano importanti comunità tibetane, è stata una insurrezione conservatrice.
Sappiamo che la Cina ha sempre considerato il Tibet una insopportabile anomalia e ha fatto del suo meglio per alterare la composizione demografica della regione favorendo l’insediamento nel territorio di una nuova popolazione han (così hanno fatto, incidentalmente, molti Paesi europei, fra cui l’Italia, quando si sono impadroniti di terre di confine abitate da minoranze che appartenevano a un diverso ceppo nazionale).
Ma fu subito evidente che la Repubblica popolare non avrebbe mai tollerato, all’interno dei propri confini, una Santa Sede del buddismo himalayano, un regime feudale e religioso come quello sorto molti secoli fa sull’altopiano tibetano.
La situazione si è ulteriormente complicata quando la grande modernizzazione cinese ha finalmente investito il Paese. Quando visitai il Tibet nel 1981, il rapporto fra i tibetani e l’amministrazione cinese era congelato dallo stato di arretratezza economica della provincia. Gli occupanti e i sudditi sembravano avere concluso una tregua che nessuno, in quel momento, aveva interesse a rompere. Ma lo sviluppo economico, da allora, ha creato turismo, commercio, iniziative industriali. Durante una visita organizzata dal governo di Pechino dopo le agitazioni dello scorso marzo, i corrispondenti stranieri hanno fatto due constatazioni interessanti.
In primo luogo si sono accorti che i monaci tibetani, contrariamente alla loro reputazione occidentale, non sono cultori della «non violenza» e ne hanno dato la prova con una furia devastatrice che ha colto di sorpresa le forze di polizia.
In secondo luogo hanno compreso che la loro rivolta non era diretta soltanto contro i cinesi, ma anche contro una classe emergente di tibetani che stanno sfruttando i vantaggi della modernizzazione.
Quello a cui abbiamo assistito, in altre parole, non è, se non in parte, uno scontro fra democrazia e dittatura.
È anche il segno di una frattura sociale che si è aperta all’interno della società tibetana.
Non è necessario essere marxisti o anticlericali per osservare che la Cina recita in questa faccenda, sia pure con i modi intolleranti di un regime autoritario, la parte della modernità e che i monaci, come si sarebbe detto una volta, quella della reazione.
__________________---
È giusto invitare le autorità cinesi alla moderazione di fronte alla rivolta dei monaci tibetani, ma non si può pretendere che la Repubblica popolare tolleri che una sua regione sia governata da una teocrazia. La Cina, con l’introduzione del mercato, sta sviluppando a tappe forzate la sua economia (e di conseguenza la società) e la modernizzazione del Tibet è parte integrante del progetto.
Il boicottaggio delle Olimpiadi inasprirebbe i rapporti con quella che fra pochi decenni sarà la maggiore potenza economica mondiale. D’altronde non sono affatto convinto che il mancato boicottaggio rappresenterebbe, come molti sostengono, un tradimento dei nostri valori; trovo anzi singolare pretendere, in nome della cultura occidentale, che società e civiltà arcaiche vengano trattate come reperti archeologici da conservare a ogni costo per la delizia di turisti e antropologi. Del resto, è proprio il rifiuto da parte di Stati e culture di uscire dal medioevo per entrare nella modernità che spesso costituisce l'ostacolo maggiore al dialogo e alla coesistenza.
Giorgio Vergili, giorgio.vergili@fastwebnet.it
http://www.corriere.it/romano/
martedì 8 aprile 2008
8 aprile giornata internazionale di Rom e Sinti
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8 aprile: Giornata internazionale di Rom e Sinti
Le discriminazioni di Sinti e Rom in tutta Europa continuano
Bolzano, 7 aprile 2006
L'8 aprile si celebra in tutto il mondo il Romano Dives, la giornata internazionale della nazione Rom, in ricordo dell'8 aprile 1971 quando a Londra si riunì il primo Congresso internazionale del popolo Rom e si costituì la Romani Union, la prima associazione mondiale dei Rom riconosciuta dall'ONU nel 1979. Le discriminazioni iniziate dal loro arrivo in Europa almeno cinque secoli fa e culminate con il Porrajmos, l'Olocausto zingaro, in cui persero la vita nei campi di sterminio nazisti almeno 500.000 Sinti e Rom, non sono certo in diminuzione. In tutta Europa assistiamo a sempre maggiori fenomeni di intolleranza nei confronti di questa minoranza etnica.
E' il caso dell'Italia con i suoi campi nomadi fortemente lesivi dei più elementari diritti umani viste le ubicazioni di molti campi nei pressi di discariche o condizioni ambientali svantaggiate: una situazione da vero e proprio regime di apartheid come è stato definito in un rapporto dell'ERRC (European Roma Rights Center). Ma anche l'Austria, dove nonostante il riconoscimento costituzionale di minoranza linguistica nazionale, continuano gli atti di intolleranza verso i Rom. L'episodio più grave si verificò il 4 febbraio 1995 quando quattro cittadini del Burgenland in Austria vennero assassinati perché erano Rom. Erwin Horvath, Karl Horvath, Peter Sarközi e Josef Simon vennero uccisi per motivi di odio razziale. Da allora ci sono stati alcuni miglioramenti nella situazione dei Rom, la discriminazione nei loro confronti però non è mai cessata.
E la stessa situazione di intolleranza da parte della popolazione di maggioranza si verifica nella Repubblica Ceca, in Polonia, in Ungheria, in Slovacchia, in Romania. La situazione risulta particolarmente grave in Kosovo dove le stesse istituzioni europee non garantiscono l'assistenza minima ai profughi Rom, lasciandoli alla mercé di estremisti albanesi. Nel giugno 1999, poco dopo l'arrivo delle truppe NATO, la maggioranza della popolazione Rom e Ashkali fu cacciata dalle proprie case da estremisti albanesi e le loro case bruciate. Omicidi, stupri, rapimenti, torture e persecuzioni razziste hanno costretto 130.000 su 150.000 Rom e Ashkali a lasciare il paese. Mentre venivano ricostruite decine di migliaia di case di Albanesi, le truppe della NATO e della KFOR restavano a guardare impassibili come 14.000 su 19.000 case e 75 quartieri e villaggi delle minoranze Rom e Ashkali venivano distrutti. La Comunità Internazionale finora ha ricostruito solo 200 di queste case.
Questo è un quadro desolante della situazione della minoranza rom e sinta in Europa: con la giornata internazionale a loro dedicata l'augurio dell'Associazione per i popoli minacciati è che si apra una riflessione profonda sui crimini del passato e su quelli del presente, per favorire un'integrazione rispettosa della diversità culturale.
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8 aprile: Giornata internazionale di Rom e Sinti
Le discriminazioni di Sinti e Rom in tutta Europa continuano
Bolzano, 7 aprile 2006
L'8 aprile si celebra in tutto il mondo il Romano Dives, la giornata internazionale della nazione Rom, in ricordo dell'8 aprile 1971 quando a Londra si riunì il primo Congresso internazionale del popolo Rom e si costituì la Romani Union, la prima associazione mondiale dei Rom riconosciuta dall'ONU nel 1979. Le discriminazioni iniziate dal loro arrivo in Europa almeno cinque secoli fa e culminate con il Porrajmos, l'Olocausto zingaro, in cui persero la vita nei campi di sterminio nazisti almeno 500.000 Sinti e Rom, non sono certo in diminuzione. In tutta Europa assistiamo a sempre maggiori fenomeni di intolleranza nei confronti di questa minoranza etnica.
E' il caso dell'Italia con i suoi campi nomadi fortemente lesivi dei più elementari diritti umani viste le ubicazioni di molti campi nei pressi di discariche o condizioni ambientali svantaggiate: una situazione da vero e proprio regime di apartheid come è stato definito in un rapporto dell'ERRC (European Roma Rights Center). Ma anche l'Austria, dove nonostante il riconoscimento costituzionale di minoranza linguistica nazionale, continuano gli atti di intolleranza verso i Rom. L'episodio più grave si verificò il 4 febbraio 1995 quando quattro cittadini del Burgenland in Austria vennero assassinati perché erano Rom. Erwin Horvath, Karl Horvath, Peter Sarközi e Josef Simon vennero uccisi per motivi di odio razziale. Da allora ci sono stati alcuni miglioramenti nella situazione dei Rom, la discriminazione nei loro confronti però non è mai cessata.
E la stessa situazione di intolleranza da parte della popolazione di maggioranza si verifica nella Repubblica Ceca, in Polonia, in Ungheria, in Slovacchia, in Romania. La situazione risulta particolarmente grave in Kosovo dove le stesse istituzioni europee non garantiscono l'assistenza minima ai profughi Rom, lasciandoli alla mercé di estremisti albanesi. Nel giugno 1999, poco dopo l'arrivo delle truppe NATO, la maggioranza della popolazione Rom e Ashkali fu cacciata dalle proprie case da estremisti albanesi e le loro case bruciate. Omicidi, stupri, rapimenti, torture e persecuzioni razziste hanno costretto 130.000 su 150.000 Rom e Ashkali a lasciare il paese. Mentre venivano ricostruite decine di migliaia di case di Albanesi, le truppe della NATO e della KFOR restavano a guardare impassibili come 14.000 su 19.000 case e 75 quartieri e villaggi delle minoranze Rom e Ashkali venivano distrutti. La Comunità Internazionale finora ha ricostruito solo 200 di queste case.
Questo è un quadro desolante della situazione della minoranza rom e sinta in Europa: con la giornata internazionale a loro dedicata l'augurio dell'Associazione per i popoli minacciati è che si apra una riflessione profonda sui crimini del passato e su quelli del presente, per favorire un'integrazione rispettosa della diversità culturale.
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il vero obiettivo
Il vero obiettivo: riconoscimento cinese dell'autorità del Dalai Lama sul Tibet
La campagna propagandistica scatenatasi nel mondo per la difesa dei diritti umani nel Tibet non ha davvero precedenti. E' impressionante e può avere una sequenza temporale prolungata legata alle stazioni di sosta nella torcia olimpica. Ieri Londra, poi Parigi, prossima tappa SanFrancisco.
Si fa l'elogio dei "sabotatori" della marcia (Teodori) e le migliori penne della stampa occidentale stanno spremendo tutto il loro possibile repertorio di trovate per argomentare contro il regime cinese.
Si parla di repressioni in Tibet ma nessuno riferisce di che cosa si tratta. Si parla di protesta per i diritti umani ma seppur soltanto attraverso qualche notizia sfuggita al controllo censorio si è capito come tutto sia iniziato da un pogrom con morti organizzato dai monaci contro la popolazione civile cinesi di Lhasa.
Si sta infliggendo alla Cina una umiliazione insistita per costringere il suo governo a ricevere il Dalai Lama identificando in tale atto l'unica possibilità di spegnere le proteste in corso nel mondo.
In verità all'Occidente dei diritti civili dei tibetani non interessa assolutamente niente come non ha mai avuto interesse per i quindicimila prigionieri palestinesi detenuti illegalmente nelle carceri di israele (tra questi centinaia di bambini) o per le sofferenze della popolazione bombardata da anni in Irak ed Afghanistan.
Si vuole che il Governo cinese riceva il Dalai Lama e si assegna a questo incontro uno straordinario valore salvifico per la stessa Cina.
Interessa che la Cina riconosca sul Tibet l'autorità del Dalai Lama
eletto dall'occidente quale unico e legittimo rappresentante del popolo tibetano. Un primo importante passo verso il distacco.
L'obiettivo è creare le condizioni politiche per la proclamazione dell'indipendenza del Tibet, per mutilare la Cina di questa sua regione grande quanto metà Europa, e renderla disponibile a concedere agli americani l'installazione di basi militari come è avvenuto in Kosovo
e nelle repubbliche nate dalla dissoluzione dell'Unione Sovietica.
I diritti umani sono soltanto un pretesto di mobilitazione per alimentare una campagna che ha scopi di strategia militare e che prepara un assedio assai ravvicinato alle grandi nazioni che si sottraggono il controllo imperiale USA e che magari stanno economicamente progredendo come appunto la Cina e la Russia.
Una lotta per i diritti umani che prepara una grande guerra che potrà coinvolgere l'intero pianeta.
Pietro Ancona
www.spazioamico.it
http://pietro-ancona.blogspot.com/
http://medioevosociale-pietro.blogspot.com/
La campagna propagandistica scatenatasi nel mondo per la difesa dei diritti umani nel Tibet non ha davvero precedenti. E' impressionante e può avere una sequenza temporale prolungata legata alle stazioni di sosta nella torcia olimpica. Ieri Londra, poi Parigi, prossima tappa SanFrancisco.
Si fa l'elogio dei "sabotatori" della marcia (Teodori) e le migliori penne della stampa occidentale stanno spremendo tutto il loro possibile repertorio di trovate per argomentare contro il regime cinese.
Si parla di repressioni in Tibet ma nessuno riferisce di che cosa si tratta. Si parla di protesta per i diritti umani ma seppur soltanto attraverso qualche notizia sfuggita al controllo censorio si è capito come tutto sia iniziato da un pogrom con morti organizzato dai monaci contro la popolazione civile cinesi di Lhasa.
Si sta infliggendo alla Cina una umiliazione insistita per costringere il suo governo a ricevere il Dalai Lama identificando in tale atto l'unica possibilità di spegnere le proteste in corso nel mondo.
In verità all'Occidente dei diritti civili dei tibetani non interessa assolutamente niente come non ha mai avuto interesse per i quindicimila prigionieri palestinesi detenuti illegalmente nelle carceri di israele (tra questi centinaia di bambini) o per le sofferenze della popolazione bombardata da anni in Irak ed Afghanistan.
Si vuole che il Governo cinese riceva il Dalai Lama e si assegna a questo incontro uno straordinario valore salvifico per la stessa Cina.
Interessa che la Cina riconosca sul Tibet l'autorità del Dalai Lama
eletto dall'occidente quale unico e legittimo rappresentante del popolo tibetano. Un primo importante passo verso il distacco.
L'obiettivo è creare le condizioni politiche per la proclamazione dell'indipendenza del Tibet, per mutilare la Cina di questa sua regione grande quanto metà Europa, e renderla disponibile a concedere agli americani l'installazione di basi militari come è avvenuto in Kosovo
e nelle repubbliche nate dalla dissoluzione dell'Unione Sovietica.
I diritti umani sono soltanto un pretesto di mobilitazione per alimentare una campagna che ha scopi di strategia militare e che prepara un assedio assai ravvicinato alle grandi nazioni che si sottraggono il controllo imperiale USA e che magari stanno economicamente progredendo come appunto la Cina e la Russia.
Una lotta per i diritti umani che prepara una grande guerra che potrà coinvolgere l'intero pianeta.
Pietro Ancona
www.spazioamico.it
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domenica 6 aprile 2008
Spacconate e fanfaluche per coprire ruoli di regime
============================================
"Il leader Uil: «Il . Quando andiamo a Palazzo Chigi con Epifani e Bonanni siamo una squadra micidiale» di M. Sensini
http://urlin.it/f865
Questa affermazione di Angeletti, segretario della Uil e le altre cose dette nella intervista al Corriere di oggi
sono davvero stupefacenti se confrontate con la triste realtà di un sindacato confederale diventato una vera e propria gabbia di ferro dentro la quale stanno chiusi i lavoratori italiani e quanti si accostano al lavoro. Sindacato che ha
modificato e peggiorato notevolmente la condizione del lavoro dipendente liquidando durante un'azione che dura almeno dal 1993 dei diritti conquistati nel trentennio precedente e che avevano fatto del sindacalismo italiano uno dei migliori del mondo, un sindacalismo per il quale l'affermazione "autonomia dal padronato, dai partiti e dal governo" era davvero una verità della realtà italiana. Gli accordi del 1993 hanno privato i lavoratori della tutela della scala mobile (già abbondantemente ridotta a cominciare dal 1983) ed hanno avviato la concertazione in base alla quale le piattaforme rivendicative per i rinnovi contrattuali non possono eccedere il tasso di inflazione programmato. Da allora ad oggi, l'applicazione di un principio riferito ad un dato di gran lunga inferiore al reale incremento del costo della vita ha portato il livello dei salari italiani talmente in basso da suscitare scandalo anche
in ambienti liberisti che se ne lamentano non perchè improvvisamente diventati solidali con gli operai ma soltanto perchè deprimono i consumi e quindi i profitti delle imprese. Lo scandalo dei bassi salari è scoppiato in Italia ad opera di denunzie della sinistra (quel poco che è rimasto) e di isolati ma tenaci economisti che hanno messo in luce il dato incontrovertibile di uno spostamento di ricchezza colossale dal lavoro dipendente alle imprese.Quando finalmente la CGIL ha mostrato di accorgersi del "fenomeno" l'ha subito relegato nella zona delle discussioni accademiche e vi ha dedicato un convegno del proprio centro-studi. Ma si è ben guardata dal modificare le richieste dei contratti in scadenza rimasti al livello medio di poco più di cento euro netti nel triennio con pochi centesimi subito ed il grosso dopo il secondo anno di vigenza contrattuale. I recenti accordi di welfare peggiorano per molti lavoratori la riforma Maroni e legittimano la legge Biagi (per la quale il Congresso della CGIL aveva chiesto l'abolizione).L'Italia è il Paese a più alto tasso di mortalità e di infortuni sul lavoro d'Europa. Non credo si possa parlare di un vero impegno del sindacato. Per anni, in caso di infortuni, tranne la partecipazione dei compagni di lavoro e del sindacato di categoria l'attenzione del Sindacato è stata davvero scarsa. Si poteva agire migliorando i poteri del delegato alla sicurezza (che oggi deve stare buono e zitto se no lo licenziano) e chiudendo la porta alla molteplicità di rapporti di lavoro diversi ammessi dalla legge Biagi che creano enormi problemi di conoscenza e di controllo dei processi produttivi e di ritmi di rendimento. Non si è fatto niente e la legge sullo straordinario è stata peggiorata con una interpretazione truffaldina di una normativa europea che prevede undici ore consecutive di riposo ma certamente non tredici ore lavorative come è venuto alla luce alla Tissen Krupp.
I prossimi obiettivi della Confindustria sono l'abolizione del contratto collettivo di lavoro, la personalizzazione dello stesso con definitiva rottura di coesione e di solidarietà di classe, la riduzione del peso sociale degli istituti previdenziali a vantaggio delle assicurazioni private alle quali sono già stati trasferiti gli accantonamenti TFR, la riduzione delle tutele in caso di malattia ( vedi campagna contro i fannulloni) e la sostituzione dei pubblici impiegati con lavoratori esternalizzati provenienti anche da cooperative che vendono soltanto manod'opera. E' giià difficile trovare un bidello o un autista o un infermiere che non sia "esterno".Fantasmi che si muovono dentro la pubblica amministrazione privi di diritti sfruttati da managers di cooperative e di aziende che si arricchiscono e li tengono
a regime salariale indecente.
Efacile notare come, nel corso degli ultimi anni, nei rinnovi contrattuali si riducono i diritti dei lavoratori ma crescono le prerogative dei sindacati e della azienda. Le strutture comuni tra le organizzazioni imprenditoriali e quelle dei lavoratori sono diventate assai diffuse hanno creato una burocrazia che si nutre di trattenute. Insomma
mentre si indeboliscono i lavoratori i sindacati si rafforzano ed estendono il loro potere finanziario e di intervento.
Infine, CGIL CISL UIL detengono il monopolio della contrattazione. Monopolio che difendono anche dai partiti della sinistra che sono sensibili alle istanze sociali. I Cobas vengono esclusi e criminalizzati ed i loro dirigenti nelle fabbriche sono spesso oggetto di persecuzione e licenziamenti. Naturalmente sono del tutti isolati e debbono sperare soltanto in una legislazione che però diventa sempre meno protettiva dei loro diritti man mano che l'azione delle Confederazioni e delle associazioni padronali modifica il "sentire comune", cambia le legge e dà segnali alla Magistratura del Lavoro sempre meno favorevoli a chi si mette fuori del "regime".
Pietro Ancona
www.spazioamico.it
http://pietro-ancona.blogspot.com/
http://medioevosociale-pietro.blogspot.com/
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"Il leader Uil: «Il . Quando andiamo a Palazzo Chigi con Epifani e Bonanni siamo una squadra micidiale» di M. Sensini
http://urlin.it/f865
Questa affermazione di Angeletti, segretario della Uil e le altre cose dette nella intervista al Corriere di oggi
sono davvero stupefacenti se confrontate con la triste realtà di un sindacato confederale diventato una vera e propria gabbia di ferro dentro la quale stanno chiusi i lavoratori italiani e quanti si accostano al lavoro. Sindacato che ha
modificato e peggiorato notevolmente la condizione del lavoro dipendente liquidando durante un'azione che dura almeno dal 1993 dei diritti conquistati nel trentennio precedente e che avevano fatto del sindacalismo italiano uno dei migliori del mondo, un sindacalismo per il quale l'affermazione "autonomia dal padronato, dai partiti e dal governo" era davvero una verità della realtà italiana. Gli accordi del 1993 hanno privato i lavoratori della tutela della scala mobile (già abbondantemente ridotta a cominciare dal 1983) ed hanno avviato la concertazione in base alla quale le piattaforme rivendicative per i rinnovi contrattuali non possono eccedere il tasso di inflazione programmato. Da allora ad oggi, l'applicazione di un principio riferito ad un dato di gran lunga inferiore al reale incremento del costo della vita ha portato il livello dei salari italiani talmente in basso da suscitare scandalo anche
in ambienti liberisti che se ne lamentano non perchè improvvisamente diventati solidali con gli operai ma soltanto perchè deprimono i consumi e quindi i profitti delle imprese. Lo scandalo dei bassi salari è scoppiato in Italia ad opera di denunzie della sinistra (quel poco che è rimasto) e di isolati ma tenaci economisti che hanno messo in luce il dato incontrovertibile di uno spostamento di ricchezza colossale dal lavoro dipendente alle imprese.Quando finalmente la CGIL ha mostrato di accorgersi del "fenomeno" l'ha subito relegato nella zona delle discussioni accademiche e vi ha dedicato un convegno del proprio centro-studi. Ma si è ben guardata dal modificare le richieste dei contratti in scadenza rimasti al livello medio di poco più di cento euro netti nel triennio con pochi centesimi subito ed il grosso dopo il secondo anno di vigenza contrattuale. I recenti accordi di welfare peggiorano per molti lavoratori la riforma Maroni e legittimano la legge Biagi (per la quale il Congresso della CGIL aveva chiesto l'abolizione).L'Italia è il Paese a più alto tasso di mortalità e di infortuni sul lavoro d'Europa. Non credo si possa parlare di un vero impegno del sindacato. Per anni, in caso di infortuni, tranne la partecipazione dei compagni di lavoro e del sindacato di categoria l'attenzione del Sindacato è stata davvero scarsa. Si poteva agire migliorando i poteri del delegato alla sicurezza (che oggi deve stare buono e zitto se no lo licenziano) e chiudendo la porta alla molteplicità di rapporti di lavoro diversi ammessi dalla legge Biagi che creano enormi problemi di conoscenza e di controllo dei processi produttivi e di ritmi di rendimento. Non si è fatto niente e la legge sullo straordinario è stata peggiorata con una interpretazione truffaldina di una normativa europea che prevede undici ore consecutive di riposo ma certamente non tredici ore lavorative come è venuto alla luce alla Tissen Krupp.
I prossimi obiettivi della Confindustria sono l'abolizione del contratto collettivo di lavoro, la personalizzazione dello stesso con definitiva rottura di coesione e di solidarietà di classe, la riduzione del peso sociale degli istituti previdenziali a vantaggio delle assicurazioni private alle quali sono già stati trasferiti gli accantonamenti TFR, la riduzione delle tutele in caso di malattia ( vedi campagna contro i fannulloni) e la sostituzione dei pubblici impiegati con lavoratori esternalizzati provenienti anche da cooperative che vendono soltanto manod'opera. E' giià difficile trovare un bidello o un autista o un infermiere che non sia "esterno".Fantasmi che si muovono dentro la pubblica amministrazione privi di diritti sfruttati da managers di cooperative e di aziende che si arricchiscono e li tengono
a regime salariale indecente.
Efacile notare come, nel corso degli ultimi anni, nei rinnovi contrattuali si riducono i diritti dei lavoratori ma crescono le prerogative dei sindacati e della azienda. Le strutture comuni tra le organizzazioni imprenditoriali e quelle dei lavoratori sono diventate assai diffuse hanno creato una burocrazia che si nutre di trattenute. Insomma
mentre si indeboliscono i lavoratori i sindacati si rafforzano ed estendono il loro potere finanziario e di intervento.
Infine, CGIL CISL UIL detengono il monopolio della contrattazione. Monopolio che difendono anche dai partiti della sinistra che sono sensibili alle istanze sociali. I Cobas vengono esclusi e criminalizzati ed i loro dirigenti nelle fabbriche sono spesso oggetto di persecuzione e licenziamenti. Naturalmente sono del tutti isolati e debbono sperare soltanto in una legislazione che però diventa sempre meno protettiva dei loro diritti man mano che l'azione delle Confederazioni e delle associazioni padronali modifica il "sentire comune", cambia le legge e dà segnali alla Magistratura del Lavoro sempre meno favorevoli a chi si mette fuori del "regime".
Pietro Ancona
www.spazioamico.it
http://pietro-ancona.blogspot.com/
http://medioevosociale-pietro.blogspot.com/
Spacconate e fanfaluche per coprire ruoli di regime
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"Il leader Uil: «Il . Quando andiamo a Palazzo Chigi con Epifani e Bonanni siamo una squadra micidiale» di M. Sensini
http://urlin.it/f865
Questa affermazione di Angeletti, segretario della Uil e le altre cose dette nella intervista al Corriere di oggi
sono davvero stupefacenti se confrontate con la triste realtà di un sindacato confederale diventato una vera e propria gabbia di ferro dentro la quale stanno chiusi i lavoratori italiani e quanti si accostano al lavoro. Sindacato che ha
modificato e peggiorato notevolmente la condizione del lavoro dipendente liquidando durante un'azione che dura almeno dal 1993 dei diritti conquistati nel trentennio precedente e che avevano fatto del sindacalismo italiano uno dei migliori del mondo, un sindacalismo per il quale l'affermazione "autonomia dal padronato, dai partiti e dal governo" era davvero una verità della realtà italiana. Gli accordi del 1993 hanno privato i lavoratori della tutela della scala mobile (già abbondantemente ridotta a cominciare dal 1983) ed hanno avviato la concertazione in base alla quale le piattaforme rivendicative per i rinnovi contrattuali non possono eccedere il tasso di inflazione programmato. Da allora ad oggi, l'applicazione di un principio riferito ad un dato di gran lunga inferiore al reale incremento del costo della vita ha portato il livello dei salari italiani talmente in basso da suscitare scandalo anche
in ambienti liberisti che se ne lamentano non perchè improvvisamente diventati solidali con gli operai ma soltanto perchè deprimono i consumi e quindi i profitti delle imprese. Lo scandalo dei bassi salari è scoppiato in Italia ad opera di denunzie della sinistra (quel poco che è rimasto) e di isolati ma tenaci economisti che hanno messo in luce il dato incontrovertibile di uno spostamento di ricchezza colossale dal lavoro dipendente alle imprese.Quando finalmente la CGIL ha mostrato di accorgersi del "fenomeno" l'ha subito relegato nella zona delle discussioni accademiche e vi ha dedicato un convegno del proprio centro-studi. Ma si è ben guardata dal modificare le richieste dei contratti in scadenza rimasti al livello medio di poco più di cento euro netti nel triennio con pochi centesimi subito ed il grosso dopo il secondo anno di vigenza contrattuale. I recenti accordi di welfare peggiorano per molti lavoratori la riforma Maroni e legittimano la legge Biagi (per la quale il Congresso della CGIL aveva chiesto l'abolizione).L'Italia è il Paese a più alto tasso di mortalità e di infortuni sul lavoro d'Europa. Non credo si possa parlare di un vero impegno del sindacato. Per anni, in caso di infortuni, tranne la partecipazione dei compagni di lavoro e del sindacato di categoria l'attenzione del Sindacato è stata davvero scarsa. Si poteva agire migliorando i poteri del delegato alla sicurezza (che oggi deve stare buono e zitto se no lo licenziano) e chiudendo la porta alla molteplicità di rapporti di lavoro diversi ammessi dalla legge Biagi che creano enormi problemi di conoscenza e di controllo dei processi produttivi e di ritmi di rendimento. Non si è fatto niente e la legge sullo straordinario è stata peggiorata con una interpretazione truffaldina di una normativa europea che prevede undici ore consecutive di riposo ma certamente non tredici ore lavorative come è venuto alla luce alla Tissen Krupp.
I prossimi obiettivi della Confindustria sono l'abolizione del contratto collettivo di lavoro, la personalizzazione dello stesso con definitiva rottura di coesione e di solidarietà di classe, la riduzione del peso sociale degli istituti previdenziali a vantaggio delle assicurazioni private alle quali sono già stati trasferiti gli accantonamenti TFR, la riduzione delle tutele in caso di malattia ( vedi campagna contro i fannulloni) e la sostituzione dei pubblici impiegati con lavoratori esternalizzati provenienti anche da cooperative che vendono soltanto manod'opera. E' giià difficile trovare un bidello o un autista o un infermiere che non sia "esterno".Fantasmi che si muovono dentro la pubblica amministrazione privi di diritti sfruttati da managers di cooperative e di aziende che si arricchiscono e li tengono
a regime salariale indecente.
Efacile notare come, nel corso degli ultimi anni, nei rinnovi contrattuali si riducono i diritti dei lavoratori ma crescono le prerogative dei sindacati e della azienda. Le strutture comuni tra le organizzazioni imprenditoriali e quelle dei lavoratori sono diventate assai diffuse hanno creato una burocrazia che si nutre di trattenute. Insomma
mentre si indeboliscono i lavoratori i sindacati si rafforzano ed estendono il loro potere finanziario e di intervento.
Infine, CGIL CISL UIL detengono il monopolio della contrattazione. Monopolio che difendono anche dai partiti della sinistra che sono sensibili alle istanze sociali. I Cobas vengono esclusi e criminalizzati ed i loro dirigenti nelle fabbriche sono spesso oggetto di persecuzione e licenziamenti. Naturalmente sono del tutti isolati e debbono sperare soltanto in una legislazione che però diventa sempre meno protettiva dei loro diritti man mano che l'azione delle Confederazioni e delle associazioni padronali modifica il "sentire comune", cambia le legge e dà segnali alla Magistratura del Lavoro sempre meno favorevoli a chi si mette fuori del "regime".
Pietro Ancona
www.spazioamico.it
http://pietro-ancona.blogspot.com/
http://medioevosociale-pietro.blogspot.com/
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"Il leader Uil: «Il . Quando andiamo a Palazzo Chigi con Epifani e Bonanni siamo una squadra micidiale» di M. Sensini
http://urlin.it/f865
Questa affermazione di Angeletti, segretario della Uil e le altre cose dette nella intervista al Corriere di oggi
sono davvero stupefacenti se confrontate con la triste realtà di un sindacato confederale diventato una vera e propria gabbia di ferro dentro la quale stanno chiusi i lavoratori italiani e quanti si accostano al lavoro. Sindacato che ha
modificato e peggiorato notevolmente la condizione del lavoro dipendente liquidando durante un'azione che dura almeno dal 1993 dei diritti conquistati nel trentennio precedente e che avevano fatto del sindacalismo italiano uno dei migliori del mondo, un sindacalismo per il quale l'affermazione "autonomia dal padronato, dai partiti e dal governo" era davvero una verità della realtà italiana. Gli accordi del 1993 hanno privato i lavoratori della tutela della scala mobile (già abbondantemente ridotta a cominciare dal 1983) ed hanno avviato la concertazione in base alla quale le piattaforme rivendicative per i rinnovi contrattuali non possono eccedere il tasso di inflazione programmato. Da allora ad oggi, l'applicazione di un principio riferito ad un dato di gran lunga inferiore al reale incremento del costo della vita ha portato il livello dei salari italiani talmente in basso da suscitare scandalo anche
in ambienti liberisti che se ne lamentano non perchè improvvisamente diventati solidali con gli operai ma soltanto perchè deprimono i consumi e quindi i profitti delle imprese. Lo scandalo dei bassi salari è scoppiato in Italia ad opera di denunzie della sinistra (quel poco che è rimasto) e di isolati ma tenaci economisti che hanno messo in luce il dato incontrovertibile di uno spostamento di ricchezza colossale dal lavoro dipendente alle imprese.Quando finalmente la CGIL ha mostrato di accorgersi del "fenomeno" l'ha subito relegato nella zona delle discussioni accademiche e vi ha dedicato un convegno del proprio centro-studi. Ma si è ben guardata dal modificare le richieste dei contratti in scadenza rimasti al livello medio di poco più di cento euro netti nel triennio con pochi centesimi subito ed il grosso dopo il secondo anno di vigenza contrattuale. I recenti accordi di welfare peggiorano per molti lavoratori la riforma Maroni e legittimano la legge Biagi (per la quale il Congresso della CGIL aveva chiesto l'abolizione).L'Italia è il Paese a più alto tasso di mortalità e di infortuni sul lavoro d'Europa. Non credo si possa parlare di un vero impegno del sindacato. Per anni, in caso di infortuni, tranne la partecipazione dei compagni di lavoro e del sindacato di categoria l'attenzione del Sindacato è stata davvero scarsa. Si poteva agire migliorando i poteri del delegato alla sicurezza (che oggi deve stare buono e zitto se no lo licenziano) e chiudendo la porta alla molteplicità di rapporti di lavoro diversi ammessi dalla legge Biagi che creano enormi problemi di conoscenza e di controllo dei processi produttivi e di ritmi di rendimento. Non si è fatto niente e la legge sullo straordinario è stata peggiorata con una interpretazione truffaldina di una normativa europea che prevede undici ore consecutive di riposo ma certamente non tredici ore lavorative come è venuto alla luce alla Tissen Krupp.
I prossimi obiettivi della Confindustria sono l'abolizione del contratto collettivo di lavoro, la personalizzazione dello stesso con definitiva rottura di coesione e di solidarietà di classe, la riduzione del peso sociale degli istituti previdenziali a vantaggio delle assicurazioni private alle quali sono già stati trasferiti gli accantonamenti TFR, la riduzione delle tutele in caso di malattia ( vedi campagna contro i fannulloni) e la sostituzione dei pubblici impiegati con lavoratori esternalizzati provenienti anche da cooperative che vendono soltanto manod'opera. E' giià difficile trovare un bidello o un autista o un infermiere che non sia "esterno".Fantasmi che si muovono dentro la pubblica amministrazione privi di diritti sfruttati da managers di cooperative e di aziende che si arricchiscono e li tengono
a regime salariale indecente.
Efacile notare come, nel corso degli ultimi anni, nei rinnovi contrattuali si riducono i diritti dei lavoratori ma crescono le prerogative dei sindacati e della azienda. Le strutture comuni tra le organizzazioni imprenditoriali e quelle dei lavoratori sono diventate assai diffuse hanno creato una burocrazia che si nutre di trattenute. Insomma
mentre si indeboliscono i lavoratori i sindacati si rafforzano ed estendono il loro potere finanziario e di intervento.
Infine, CGIL CISL UIL detengono il monopolio della contrattazione. Monopolio che difendono anche dai partiti della sinistra che sono sensibili alle istanze sociali. I Cobas vengono esclusi e criminalizzati ed i loro dirigenti nelle fabbriche sono spesso oggetto di persecuzione e licenziamenti. Naturalmente sono del tutti isolati e debbono sperare soltanto in una legislazione che però diventa sempre meno protettiva dei loro diritti man mano che l'azione delle Confederazioni e delle associazioni padronali modifica il "sentire comune", cambia le legge e dà segnali alla Magistratura del Lavoro sempre meno favorevoli a chi si mette fuori del "regime".
Pietro Ancona
www.spazioamico.it
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quanto è cristiana la destra. Barbara Spinelli
6/4/2008
Quanto è cristiana la destra
Chi ha visto su Internet il film Fitna, che in arabo significa stato di divisione, guerra civile, sarà stato colpito dalla violenza con cui si parla non tanto dei terroristi che pretendono rappresentare Dio ma del Corano e delle sue sure. Ogni attentato corrisponde a una sura, ogni assassinio attinge ai suoi versetti: come se per parlare dei territori palestinesi occupati si mostrassero le pagine bibliche che incitano allo sterminio dei Cananei e dei tanti popoli insediati nella terra promessa. Autore del film è un parlamentare olandese, Geert Wilders, appartenente all’estrema destra. Un partito minoritario, se non fosse che la sua ideologia in Europa è diffusa, per nulla marginale. È ideologia dominante nel Popolo della libertà che aspira a governare l’Italia: nella Lega, ma anche in Alleanza nazionale e Forza Italia. È solida corrente di pensiero in Francia.
E’un’ideologia che ha il potere di tacitare i dissenzienti, intimorire giornali. La sua tesi centrale: questi sono tempi terribili, contrassegnati dal dilagare dei diritti, del permissivismo, della perdita d’autorità e d’identità. Giulio Tremonti nel suo ultimo libro li riassume con due parole, simili a quelle di Oriana Fallaci dopo l’11 settembre: «Al fondo (della difesa dell’identità) c’è qualcosa di molto più intenso che una parodia bigotta della tradizione: è un misto di paura e orgoglio» (La Paura e la Speranza, Mondadori 2008).
Paura del diverso, che ci assedia. Orgoglio di chi si esalta, temprandosi, nelle proprie radici e nello scontro di civiltà. Il film di Wilders infiamma questo scontro come si fa con la brace: soffiandoci sopra. Più scontro c’è, più ritroveremo noi stessi. Avere un nemico fa bene all’anima, fuori casa e dentro.
Il libro di Tremonti è la traduzione delle immagini di Fitna. Il modo di scrivere è analogo: formule brevi, a scatti, a slogan. Non mancano riflessioni importanti sulla globalizzazione ma il nocciolo è lo scontro di civiltà e la solitudine dell’individuo in Stati e società indeboliti. Quel che lo salva è l’identificazione con comunità chiuse, piccole, etnicamente e religiosamente omogenee. Lì sono le radici: immutabili, impermeabili a qualsiasi incrocio-meticciato col diverso. Il valore da opporre al mercatismo globale è l’esclusione: il contrario del messaggio di Gesù, oltre che della storia laica d’Europa.
Quel che dà sicurezza, in chi cerca l’identità con orgoglio e paura, il lettore lo scopre a partire da pagina 77: visto che è nella differenza che si formano comunità unite, visto che l’identità «non è solo ciò che siamo, ma anche differenza da ciò che non siamo», «tutto è chiuso nella coppia dialettica “noi-altri”». «Non vale qui la logica “sia l’uno che l’altro”»: prima veniamo noi con le nostre radici cristiane poi gli altri, con cui non dev’esserci confusione. Un tempo l’avanguardia era la classe, dopo venne la razza, ora ecco l’identità cristiana. Tremonti dice esplicitamente (è un suo merito) che il Noi non serve solo a riempire il «vuoto nell’anima e nel cuore». Serve alla politica per consolidare una «rivendicazione di potere» altrimenti esangue, che non deve temere conflitti con l’Altro.
Anche in questo caso, come nel film olandese, non sono pensieri minoritari. Tremonti s’immagina rivoluzionario controcorrente ma le sue sono idee conformisticamente consensuali, che intimidiscono. Hanno impregnato per anni l’America, e solo Obama le contesta veramente. Intimidiscono a tal punto che ogni pensare diverso viene malinteso, demonizzato. Negli stessi giorni in cui appariva Fitna (27 marzo), negli stessi giorni in cui in Italia si discuteva il libro di Tremonti, in Inghilterra era dramma attorno a un discorso, essenziale, dell’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams. Il capo della Chiesa anglicana è stato accusato per aver detto che parti della Shariah potrebbero conciliarsi col codice civile di capitolazione verso il nemico, di appeasement. Quel testo conviene leggerlo: non dice affatto le cose che i giornali gli attribuiscono.
È un testo profondo, in cui si difende la laicità (Rowan parla di rule of law, valevole per ciascuno) ma si cercano nuovi orizzonti: a questa laicità, bisogna integrare i fedeli di altre tradizioni, come l’Islam. La shariah non è un sistema di leggi, ma un metodo aspirante al bene che alcuni codificano in modo «primitivista», opprimendo innanzitutto la donna. Non mancano però convergenze, da valorizzare. I diritti nelle società liberali vanno custoditi ma non «attivati per forza»: opporre a essi l’obiezione di coscienza deve essere giuridicamente consentito, anche se tutti, cittadini musulmani compresi, devono potersene avvalere. Esenzioni analoghe già sono concesse per legge agli ebrei ortodossi, o ai cristiani sull’aborto. In fondo, Rowan condivide la distinzione che Gustavo Zagrebelsky fa tra valori e principi. I valori sono un bene finale, imposto dall’alto, senza badare ai mezzi. I principi sono un bene iniziale con cui ci si incammina verso la meta confrontandosi con la realtà. La laicità è un approdo arduo, cui si giunge tramite l’adattamento e la ricerca di punti comuni con l’altro. Per non sciuparla e perderla devi tener conto che ogni persona ha oggi più identità: di fedele e cittadino, di musulmano e italiano, di italiano e europeo. Queste dualità esistono anche nell’Islam, secondo Rowan.
Rowan è stato trattato come un erede di chi cedette a Hitler. Ma chi lo attacca ha una singolare concezione della religione, dell’identità, della laicità; sinistramente somigliante a quella degli integralisti musulmani, che piegano la religione alla politica e a comunitarismi tribali. Non a caso la Chiesa è vista, da Tremonti, come strumento di dominio. Serve a riempir vuoti, non tanto spirituali ma di potere. Serve a escludere (con la formula del Noi e gli Altri) e a creare capri espiatori.
Non tutta la Chiesa si presta a simile strumentalizzazione, lo si è visto nei giorni scorsi a Milano. Di fronte a uno sgombero eccezionalmente brutale di due campi nomadi (via Bovisasca, via Porretta), il cardinale Tettamanzi s’è indignato: ha detto che «la legalità è sacrosanta», ma «qui si sta scendendo abbondantemente sotto i limiti stabiliti dai fondamentali diritti umani». Il rispetto della persona avrebbe imposto «qualche tanica d’acqua, del latte per i più piccoli, un presidio medico, qualche soluzione alternativa»: «C’è da augurarsi che la conquista dell’Expo non diventi il paravento per nascondere o spostare più in là i drammi di questa città».
Questo tipo di Chiesa indispettisce la destra. Ha un «buonismo peloso», protesta Romano La Russa, dirigente An a Milano. Tremonti stesso dice, nel libro: alla «vecchia tradizione puramente caritatevole» bisogna sostituire la «responsabilità verso se stessi, verso la propria famiglia, verso la propria comunità».
La carità ai suoi occhi è come il ‘68, contro cui si erge la destra italiana ed europea. In realtà anche il ‘68 è paravento. Quel che si contesta è il patrimonio conciliare e giovanneo della Chiesa, ed è la tradizione liberale del Saggio sulla Libertà di John Stuart Mill (1859). È Mill e non il ‘68 che teorizza il diritto di parola dato a ciascuno perfino a chi sostiene la poligamia se non si vuol precipitare nella «tirannia del sentimento predominante» e nel «profondo sonno dogmatico indotto da un’opinione definitiva».
Condizione di questo liberalismo è tuttavia non usare la Chiesa. Quando il sindaco Moratti si dichiara «profondamente amareggiata dalle parole del cardinale» (Corriere, 4-4) accampa un ben stravagante diritto: il diritto ad avere un’aspettativa politica verso il proprio vescovo. Tale è l’identità cristiana invocata dalla destra. Non la cura dei poveri, degli ultimi, del diversi. Ma un orgoglio da tener acceso facendo leva sul più orrido dei marchingegni politici: la paura.
+ Quanto è laico il Pd FABIO FAZIO
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6 aprile 2008
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30 marzo 2008
Bendati verso il precipizio
9
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E’un’ideologia che ha il potere di tacitare i dissenzienti, intimorire giornali. La sua tesi centrale: questi sono tempi terribili, contrassegnati dal dilagare dei diritti, del permissivismo, della perdita d’autorità e d’identità. Giulio Tremonti nel suo ultimo libro li riassume con due parole, simili a quelle di Oriana Fallaci dopo l’11 settembre: «Al fondo (della difesa dell’identità) c’è qualcosa di molto più intenso che una parodia bigotta della tradizione: è un misto di paura e orgoglio» (La Paura e la Speranza, Mondadori 2008).
Paura del diverso, che ci assedia. Orgoglio di chi si esalta, temprandosi, nelle proprie radici e nello scontro di civiltà. Il film di Wilders infiamma questo scontro come si fa con la brace: soffiandoci sopra. Più scontro c’è, più ritroveremo noi stessi. Avere un nemico fa bene all’anima, fuori casa e dentro.
Il libro di Tremonti è la traduzione delle immagini di Fitna. Il modo di scrivere è analogo: formule brevi, a scatti, a slogan. Non mancano riflessioni importanti sulla globalizzazione ma il nocciolo è lo scontro di civiltà e la solitudine dell’individuo in Stati e società indeboliti. Quel che lo salva è l’identificazione con comunità chiuse, piccole, etnicamente e religiosamente omogenee. Lì sono le radici: immutabili, impermeabili a qualsiasi incrocio-meticciato col diverso. Il valore da opporre al mercatismo globale è l’esclusione: il contrario del messaggio di Gesù, oltre che della storia laica d’Europa.
Quel che dà sicurezza, in chi cerca l’identità con orgoglio e paura, il lettore lo scopre a partire da pagina 77: visto che è nella differenza che si formano comunità unite, visto che l’identità «non è solo ciò che siamo, ma anche differenza da ciò che non siamo», «tutto è chiuso nella coppia dialettica “noi-altri”». «Non vale qui la logica “sia l’uno che l’altro”»: prima veniamo noi con le nostre radici cristiane poi gli altri, con cui non dev’esserci confusione. Un tempo l’avanguardia era la classe, dopo venne la razza, ora ecco l’identità cristiana. Tremonti dice esplicitamente (è un suo merito) che il Noi non serve solo a riempire il «vuoto nell’anima e nel cuore». Serve alla politica per consolidare una «rivendicazione di potere» altrimenti esangue, che non deve temere conflitti con l’Altro.
Anche in questo caso, come nel film olandese, non sono pensieri minoritari. Tremonti s’immagina rivoluzionario controcorrente ma le sue sono idee conformisticamente consensuali, che intimidiscono. Hanno impregnato per anni l’America, e solo Obama le contesta veramente. Intimidiscono a tal punto che ogni pensare diverso viene malinteso, demonizzato. Negli stessi giorni in cui appariva Fitna (27 marzo), negli stessi giorni in cui in Italia si discuteva il libro di Tremonti, in Inghilterra era dramma attorno a un discorso, essenziale, dell’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams. Il capo della Chiesa anglicana è stato accusato per aver detto che parti della Shariah potrebbero conciliarsi col codice civile di capitolazione verso il nemico, di appeasement. Quel testo conviene leggerlo: non dice affatto le cose che i giornali gli attribuiscono.
È un testo profondo, in cui si difende la laicità (Rowan parla di rule of law, valevole per ciascuno) ma si cercano nuovi orizzonti: a questa laicità, bisogna integrare i fedeli di altre tradizioni, come l’Islam. La shariah non è un sistema di leggi, ma un metodo aspirante al bene che alcuni codificano in modo «primitivista», opprimendo innanzitutto la donna. Non mancano però convergenze, da valorizzare. I diritti nelle società liberali vanno custoditi ma non «attivati per forza»: opporre a essi l’obiezione di coscienza deve essere giuridicamente consentito, anche se tutti, cittadini musulmani compresi, devono potersene avvalere. Esenzioni analoghe già sono concesse per legge agli ebrei ortodossi, o ai cristiani sull’aborto. In fondo, Rowan condivide la distinzione che Gustavo Zagrebelsky fa tra valori e principi. I valori sono un bene finale, imposto dall’alto, senza badare ai mezzi. I principi sono un bene iniziale con cui ci si incammina verso la meta confrontandosi con la realtà. La laicità è un approdo arduo, cui si giunge tramite l’adattamento e la ricerca di punti comuni con l’altro. Per non sciuparla e perderla devi tener conto che ogni persona ha oggi più identità: di fedele e cittadino, di musulmano e italiano, di italiano e europeo. Queste dualità esistono anche nell’Islam, secondo Rowan.
Rowan è stato trattato come un erede di chi cedette a Hitler. Ma chi lo attacca ha una singolare concezione della religione, dell’identità, della laicità; sinistramente somigliante a quella degli integralisti musulmani, che piegano la religione alla politica e a comunitarismi tribali. Non a caso la Chiesa è vista, da Tremonti, come strumento di dominio. Serve a riempir vuoti, non tanto spirituali ma di potere. Serve a escludere (con la formula del Noi e gli Altri) e a creare capri espiatori.
Non tutta la Chiesa si presta a simile strumentalizzazione, lo si è visto nei giorni scorsi a Milano. Di fronte a uno sgombero eccezionalmente brutale di due campi nomadi (via Bovisasca, via Porretta), il cardinale Tettamanzi s’è indignato: ha detto che «la legalità è sacrosanta», ma «qui si sta scendendo abbondantemente sotto i limiti stabiliti dai fondamentali diritti umani». Il rispetto della persona avrebbe imposto «qualche tanica d’acqua, del latte per i più piccoli, un presidio medico, qualche soluzione alternativa»: «C’è da augurarsi che la conquista dell’Expo non diventi il paravento per nascondere o spostare più in là i drammi di questa città».
Questo tipo di Chiesa indispettisce la destra. Ha un «buonismo peloso», protesta Romano La Russa, dirigente An a Milano. Tremonti stesso dice, nel libro: alla «vecchia tradizione puramente caritatevole» bisogna sostituire la «responsabilità verso se stessi, verso la propria famiglia, verso la propria comunità».
La carità ai suoi occhi è come il ‘68, contro cui si erge la destra italiana ed europea. In realtà anche il ‘68 è paravento. Quel che si contesta è il patrimonio conciliare e giovanneo della Chiesa, ed è la tradizione liberale del Saggio sulla Libertà di John Stuart Mill (1859). È Mill e non il ‘68 che teorizza il diritto di parola dato a ciascuno perfino a chi sostiene la poligamia se non si vuol precipitare nella «tirannia del sentimento predominante» e nel «profondo sonno dogmatico indotto da un’opinione definitiva».
Condizione di questo liberalismo è tuttavia non usare la Chiesa. Quando il sindaco Moratti si dichiara «profondamente amareggiata dalle parole del cardinale» (Corriere, 4-4) accampa un ben stravagante diritto: il diritto ad avere un’aspettativa politica verso il proprio vescovo. Tale è l’identità cristiana invocata dalla destra. Non la cura dei poveri, degli ultimi, del diversi. Ma un orgoglio da tener acceso facendo leva sul più orrido dei marchingegni politici: la paura.
+ Quanto è laico il Pd FABIO FAZIO
ULTIMI ARTICOLI
6 aprile 2008
Quanto è cristiana la destra
30 marzo 2008
Bendati verso il precipizio
9
sabato 5 aprile 2008
Torture di Israele inflitte ai palestinesi
Il 20% della popolazione palestinese ha trascorso parte della sua vita nelle prigioni di Israeledi Isabel Vega * - 04/02/2008Fonte: uruknet [scheda fonte]
Il venti per cento della popolazione palestinese ha trascorso parte della sua vita nelle prigioni di Israele
Studio dell’organizzazione di sostegno ai prigionieri ADDAMEER
Isabel Vega - Europa Press
Il venti per cento della popolazione palestinese è passato in qualche momento della sua vita per le prigioni israeliani, una percentuale che arriva al 40% se si analizzano a parte le detenzioni maschili, secondo uno studio realizzato dalla ONG dei Diritti Umani ADDAMEER. In totale, più di 650.000 palestinesi hanno fatto l’esperienza della prigione dal 1967.
L’organizzazione ha calcolato che nel 2007 erano in carcere circa 11.300 palestinesi detenuti, 3.800 dei quali si trovano in prigioni civili di Israele, un paese la cui legislazione contempla le cosiddette "detenzioni amministrative", per cui si può incarcerare una persona all’infinito, rinnovando il fermo ogni sei mesi, fino a quando non venga formulata un’accusa formale e un processo preliminare. Nel caso delle donne, la situazione "è peggiore" perché in molti casi "sono detenute per potere esercitare pressione sui mariti, sospettati di qualcosa".
La situazione delle prigioniere palestinesi in carceri israeliane
In questa situazione si trovano 84 donne, alcune delle quali vivono con i propri figli piccoli in prigione (due vi hanno visto la luce) e la cui liberazione è stata sollecitata dall’organizzazione spagnola Piattaforma delle Donne Artiste contro la Violenza di Genere al Primo Ministro di Israele Ehud Olmert, attraverso una missiva in cui, inoltre, sollecitano un’udienza. L’organizzazione, sebbene non abbia ricevuto conferma formale dell’incontro con il premier, avrà comunque un colloquio con il viceministro degli Affari Esteri del paese e con il massimo responsabile dell’Autorità Nazionale Palestinese, Mahmud Abbas.
Secondo quanto ha denunciato a Ramallah un gruppo di ex detenute palestinesi e di familiari delle 84 recluse, la situazione nelle prigioni israeliane è caratterizzata dalla "flagrante violazione dei diritti umani" e "dall’omissione completa della legislazione internazionale" in materia. La portavoce del gruppo, che ha scontato nel corso della sua vita sette condanne in distinti centri penitenziari, ha spiegato alla delegazione spagnola quanto le torture e i maltrattamenti siano frequenti in questi centri e ha descritto la condotta del personale carcerario come simile a quella registrata nel carcere iracheno di Abu Ghraib nel 2005 e le cui immagini vennero diffuse.
Così, ha riferito quanto sia abituale il fatto che soldati e funzionari denudino le donne e le mettano di fronte a uomini arabi facendo loro credere che saranno violentate. "Utilizzano borse della medesima tela delle loro uniformi, ma più ruvida, per coprire la testa delle detenute"; in alcuni casi, costringono le donne "a stare due giorni in piedi sotto la pioggia senza potersi muovere", "le minacciano di portare via i figli per consegnarli a famiglie ebree", le "rinchiudono in celle di un metro quadrato con un water traboccante di liquami e le obbligano a vivere in questa situazione per più di un mese" e "alla fine consegnano loro un documento scritto in ebraico e, sapendo che non lo sanno leggere, fanno pressione perché lo firmino. Molte lo fanno", ha spiegato.
Tanto le detenute come le loro famiglie chiedono che le donne vengano considerate prigioniere politiche, mentre ora sono trattate come prigioniere comuni e convivono con recluse israeliane condannate per delitti di sangue. Allo stesso tempo, chiedono che una delle internate, che tra due settimane partorirà, possa farlo senza tenere esposti mani e piedi durante il parto, perché "è naturale che una donna possa averli liberi in questa situazione".
Sciopero della fame e affari di Israele
Tanto per le ex detenute come per le famiglie delle recluse, è chiaro che l’incarceramento dei palestinesi è "un affare" per Israele, che impone sanzioni economiche ai reclusi come punizione, obbligando così i loro parenti a consegnare quantità elevate di denaro. Con questi "introiti", lo Stato di Israele "non spende nulla" per il mantenimento degli internati, che soffrono in continuazione di anemia per denutrizione e non dispongono delle condizioni minime di salubrità e igiene.
Per le denuncianti, una prova di questa brama di incassi sta nel fatto che, mentre prima era permesso ai familiari di portare cibo tipico ai reclusi in ricorrenze come il Ramadan, ora "con il pretesto di proteggere la salute dei prigionieri" è vietato introdurre alimenti nelle prigioni. Quando gli stessi prodotti sono in vendita negli spacci delle prigioni.
In questo momento, una delle recluse, di nome Amu Nahrum, che si è trasformata in un simbolo della lotta di tutte loro, ha ripreso uno sciopero della fame che le ha già procurato il ricovero in ospedale dopo 33 giorni nel 2007. Ora sono quattro settimane che non ingerisce alimenti, rinchiusa in una cella di totale isolamento. Secondo i familiari, l’avvocata di Nahrum ha cercato di visitarla in prigione, ricevendo la risposta che era entrata in ospedale. La sua richiesta è quella di essere trattata come una prigioniera politica, poiché il suo delitto è quello di "opporsi all’occupazione".
Il venti per cento della popolazione palestinese ha trascorso parte della sua vita nelle prigioni di Israele
Studio dell’organizzazione di sostegno ai prigionieri ADDAMEER
Isabel Vega - Europa Press
Il venti per cento della popolazione palestinese è passato in qualche momento della sua vita per le prigioni israeliani, una percentuale che arriva al 40% se si analizzano a parte le detenzioni maschili, secondo uno studio realizzato dalla ONG dei Diritti Umani ADDAMEER. In totale, più di 650.000 palestinesi hanno fatto l’esperienza della prigione dal 1967.
L’organizzazione ha calcolato che nel 2007 erano in carcere circa 11.300 palestinesi detenuti, 3.800 dei quali si trovano in prigioni civili di Israele, un paese la cui legislazione contempla le cosiddette "detenzioni amministrative", per cui si può incarcerare una persona all’infinito, rinnovando il fermo ogni sei mesi, fino a quando non venga formulata un’accusa formale e un processo preliminare. Nel caso delle donne, la situazione "è peggiore" perché in molti casi "sono detenute per potere esercitare pressione sui mariti, sospettati di qualcosa".
La situazione delle prigioniere palestinesi in carceri israeliane
In questa situazione si trovano 84 donne, alcune delle quali vivono con i propri figli piccoli in prigione (due vi hanno visto la luce) e la cui liberazione è stata sollecitata dall’organizzazione spagnola Piattaforma delle Donne Artiste contro la Violenza di Genere al Primo Ministro di Israele Ehud Olmert, attraverso una missiva in cui, inoltre, sollecitano un’udienza. L’organizzazione, sebbene non abbia ricevuto conferma formale dell’incontro con il premier, avrà comunque un colloquio con il viceministro degli Affari Esteri del paese e con il massimo responsabile dell’Autorità Nazionale Palestinese, Mahmud Abbas.
Secondo quanto ha denunciato a Ramallah un gruppo di ex detenute palestinesi e di familiari delle 84 recluse, la situazione nelle prigioni israeliane è caratterizzata dalla "flagrante violazione dei diritti umani" e "dall’omissione completa della legislazione internazionale" in materia. La portavoce del gruppo, che ha scontato nel corso della sua vita sette condanne in distinti centri penitenziari, ha spiegato alla delegazione spagnola quanto le torture e i maltrattamenti siano frequenti in questi centri e ha descritto la condotta del personale carcerario come simile a quella registrata nel carcere iracheno di Abu Ghraib nel 2005 e le cui immagini vennero diffuse.
Così, ha riferito quanto sia abituale il fatto che soldati e funzionari denudino le donne e le mettano di fronte a uomini arabi facendo loro credere che saranno violentate. "Utilizzano borse della medesima tela delle loro uniformi, ma più ruvida, per coprire la testa delle detenute"; in alcuni casi, costringono le donne "a stare due giorni in piedi sotto la pioggia senza potersi muovere", "le minacciano di portare via i figli per consegnarli a famiglie ebree", le "rinchiudono in celle di un metro quadrato con un water traboccante di liquami e le obbligano a vivere in questa situazione per più di un mese" e "alla fine consegnano loro un documento scritto in ebraico e, sapendo che non lo sanno leggere, fanno pressione perché lo firmino. Molte lo fanno", ha spiegato.
Tanto le detenute come le loro famiglie chiedono che le donne vengano considerate prigioniere politiche, mentre ora sono trattate come prigioniere comuni e convivono con recluse israeliane condannate per delitti di sangue. Allo stesso tempo, chiedono che una delle internate, che tra due settimane partorirà, possa farlo senza tenere esposti mani e piedi durante il parto, perché "è naturale che una donna possa averli liberi in questa situazione".
Sciopero della fame e affari di Israele
Tanto per le ex detenute come per le famiglie delle recluse, è chiaro che l’incarceramento dei palestinesi è "un affare" per Israele, che impone sanzioni economiche ai reclusi come punizione, obbligando così i loro parenti a consegnare quantità elevate di denaro. Con questi "introiti", lo Stato di Israele "non spende nulla" per il mantenimento degli internati, che soffrono in continuazione di anemia per denutrizione e non dispongono delle condizioni minime di salubrità e igiene.
Per le denuncianti, una prova di questa brama di incassi sta nel fatto che, mentre prima era permesso ai familiari di portare cibo tipico ai reclusi in ricorrenze come il Ramadan, ora "con il pretesto di proteggere la salute dei prigionieri" è vietato introdurre alimenti nelle prigioni. Quando gli stessi prodotti sono in vendita negli spacci delle prigioni.
In questo momento, una delle recluse, di nome Amu Nahrum, che si è trasformata in un simbolo della lotta di tutte loro, ha ripreso uno sciopero della fame che le ha già procurato il ricovero in ospedale dopo 33 giorni nel 2007. Ora sono quattro settimane che non ingerisce alimenti, rinchiusa in una cella di totale isolamento. Secondo i familiari, l’avvocata di Nahrum ha cercato di visitarla in prigione, ricevendo la risposta che era entrata in ospedale. La sua richiesta è quella di essere trattata come una prigioniera politica, poiché il suo delitto è quello di "opporsi all’occupazione".
mercoledì 2 aprile 2008
LA CITTA' DI DANTE E LA PIRA RAZZISTA!!
Con l'applauso dei razzisti di tutte le tendenze di cui oramai l'Italia è strapiena, Il Comune di Firenze sta elaborando un regolamento per vietare ai mendicanti di sostare agli angoli delle strade o davanti le Chiese dove normalmente si mettono e di chiedere l'elemosina. Gli amministratori di Firenze sanno che non possono impedire ad una persona di chiedere l'elemosina e, nella migliore tradizione del leguleismo pseudo-giuridico di cui si servono i furbi che vogliono svuotare la legge o renderla inefficace stanno studiando la maniera migliore per raggiungere l'obiettivo. Esempio: non ti vieto di chiedere l'elemosina ma ti vieto di sostare
per la strada perchè intralci il traffico o altri marchingegni di questo genere.
Chi sono gli amministratori di Firenze che hanno sottratto ai leghisti di Gentilini il primato della lotta ai poveri specialmente se immigrati? Sono esponenti del Partito Democratico, epigoni del PCI del quale, dopo avere cancellato accuratamente ogni traccia di solidarismo, hanno conservato il nucleo duro stalinistico della loro cultura comunista e lo hanno innestato al liberismo di cui sono neofiti. Un liberismo all'italiana che mette in primo piano il decoro della città rispetto la comprensione e la considerazione dei problemi di esseri umani che per vivere sono obbligati a stendere la mano..
Chiedere l'elemosina è un diritto riconosciuto dalla Costituzione. Chiedere l'elemosina fa parte delle libertà fondamentali ed inalienabili della persona umana. Se chiedo l'elemosina per vivere nessuno me lo può vietare perchè sarebbe come vietarmi di
vivere. L'elemosina è sempre esistita e non costituisce scandalo sociale se non per le società che la provocano.
Le religioni la considerano una parte fondamentale dell'etica. Nella Chiesa esistono addirittura degli ordini mendicanti Vorrebbe forse il Sindaco di Firenze negare la questua dei frati? Dobbiamo ricordargli le famose pagine di Manzoni sul monaco che raccoglie noci per il suo convento? Vorrebbe negare la carità, la possibilità di aiutare chi ha bisogno? Vorrebbe negare ai musicisti di strada
di esistere?
In una società "liquida" come viene definito il nostro tempo in cui membri di quasi tutte le classi sociali sono esposte alla possibilità di perdere tutto dopo la perdita del lavoro i mendicanti sono destinati a crescere di numero. Dobbiamo condannarli a morire di fame?
Come per tutte le cose, il migliore intervento è la prevenzione. Evitare di ridurre esseri umani a mendicanti. Questo si può fare con politiche del welfare adeguate. Con una politica che sia l'esatto contrario della precarizzazione.
Ma al Sindaco di Firenze non importa niente dei mendicanti e non si pone il problema di come aiutarli. L'unica cosa che ha in testa è cancellarli dalla città come ha fatto con i lavavetri. Chiede anche maggiori poteri per questo: Chiede di diventare una sorta di sceriffo.
Pietro Anconawww.spazioamico.ithttp://pietro-ancona.blogspot.com/ http://medioevosociale-pietro.blogspot.com/
per la strada perchè intralci il traffico o altri marchingegni di questo genere.
Chi sono gli amministratori di Firenze che hanno sottratto ai leghisti di Gentilini il primato della lotta ai poveri specialmente se immigrati? Sono esponenti del Partito Democratico, epigoni del PCI del quale, dopo avere cancellato accuratamente ogni traccia di solidarismo, hanno conservato il nucleo duro stalinistico della loro cultura comunista e lo hanno innestato al liberismo di cui sono neofiti. Un liberismo all'italiana che mette in primo piano il decoro della città rispetto la comprensione e la considerazione dei problemi di esseri umani che per vivere sono obbligati a stendere la mano..
Chiedere l'elemosina è un diritto riconosciuto dalla Costituzione. Chiedere l'elemosina fa parte delle libertà fondamentali ed inalienabili della persona umana. Se chiedo l'elemosina per vivere nessuno me lo può vietare perchè sarebbe come vietarmi di
vivere. L'elemosina è sempre esistita e non costituisce scandalo sociale se non per le società che la provocano.
Le religioni la considerano una parte fondamentale dell'etica. Nella Chiesa esistono addirittura degli ordini mendicanti Vorrebbe forse il Sindaco di Firenze negare la questua dei frati? Dobbiamo ricordargli le famose pagine di Manzoni sul monaco che raccoglie noci per il suo convento? Vorrebbe negare la carità, la possibilità di aiutare chi ha bisogno? Vorrebbe negare ai musicisti di strada
di esistere?
In una società "liquida" come viene definito il nostro tempo in cui membri di quasi tutte le classi sociali sono esposte alla possibilità di perdere tutto dopo la perdita del lavoro i mendicanti sono destinati a crescere di numero. Dobbiamo condannarli a morire di fame?
Come per tutte le cose, il migliore intervento è la prevenzione. Evitare di ridurre esseri umani a mendicanti. Questo si può fare con politiche del welfare adeguate. Con una politica che sia l'esatto contrario della precarizzazione.
Ma al Sindaco di Firenze non importa niente dei mendicanti e non si pone il problema di come aiutarli. L'unica cosa che ha in testa è cancellarli dalla città come ha fatto con i lavavetri. Chiede anche maggiori poteri per questo: Chiede di diventare una sorta di sceriffo.
Pietro Anconawww.spazioamico.ithttp://pietro-ancona.blogspot.com/ http://medioevosociale-pietro.blogspot.com/
martedì 1 aprile 2008
una vittoria senza merito
Una vittoria senza merito
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Milano ha vinto perchè competeva con Smirne cioè con la città di uno Stato guardato con malanimo e diffidenza da quasi tutto l'Occidente che non lo vuole nella Unione Europea mentre invece si sta impegnando per diventare sviluppato e prospero. Se la competizione fosse stata con altra città europea non saremmo stati cosi fortunati dal momento che ci siamo fatti conoscere da tutti come il Paese della monnezza, dei morti del lavoro, dei suicidi per disoccupazione, dei politici e dei managers meglio pagati e dei salari di fame.
Il Paese in cui oltre un milione di famiglie vivono di politica diventata mezzo di arricchimento "legale" mentre ai cittadini viene negato financo il diritto di scegliersi il deputato.
Milano è vittima di un sistema di potere nel quale primeggia il oitere di Li Gresti capace di alterare per i suoi fini lo sviluppo urbanistico della città e di sottometterlo alle sue voglie.
Il Grande Affare della Esposizione Universale foraggerà un sistema economico malato e frutto di speculazioni. Basta valutare Malpensa per capire quanto gli interessi privati possano ledere e rendere assai poco moderno ed incivile una importante opera di pubblico interesse.
Pietro Anconawww.spazioamico.ithttp://pietro-ancona.blogspot.com/ http://medioevosociale-pietro.blogspot.com/
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Milano ha vinto perchè competeva con Smirne cioè con la città di uno Stato guardato con malanimo e diffidenza da quasi tutto l'Occidente che non lo vuole nella Unione Europea mentre invece si sta impegnando per diventare sviluppato e prospero. Se la competizione fosse stata con altra città europea non saremmo stati cosi fortunati dal momento che ci siamo fatti conoscere da tutti come il Paese della monnezza, dei morti del lavoro, dei suicidi per disoccupazione, dei politici e dei managers meglio pagati e dei salari di fame.
Il Paese in cui oltre un milione di famiglie vivono di politica diventata mezzo di arricchimento "legale" mentre ai cittadini viene negato financo il diritto di scegliersi il deputato.
Milano è vittima di un sistema di potere nel quale primeggia il oitere di Li Gresti capace di alterare per i suoi fini lo sviluppo urbanistico della città e di sottometterlo alle sue voglie.
Il Grande Affare della Esposizione Universale foraggerà un sistema economico malato e frutto di speculazioni. Basta valutare Malpensa per capire quanto gli interessi privati possano ledere e rendere assai poco moderno ed incivile una importante opera di pubblico interesse.
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