RAPPORTO ANNUALE 2008
RELAZIONE DELLA DOTT.SSA DANIELA CARBONI,
DIRETTRICE DELL’UFFICIO CAMPAGNE E RICERCA
Il 31 ottobre scorso una donna è stata aggredita e uccisa a Roma. Dell’accaduto è stato accusato un cittadino rumeno. Probabilmente, per tutti voi come per noi è più facile ricordare i dettagli della vita e della personalità della persona accusata dell’omicidio, piuttosto che della vittima.
Non è un caso né una vostra personale disattenzione, ma semplicemente il risultato prevedibile del modo in cui le istituzioni hanno affrontato la vicenda e quindi il modo in cui la società italiana l’ha vissuta: un drammatico fatto di cronaca – finito nel modo peggiore – non viene visto per quello che è, cioè l’ennesima violenza contro una donna, ma come il sintomo inequivocabile di una tendenza alla violenza e all’illegalità di gruppi di persone e minoranze, in base alla nazionalità, all’appartenenza etnica, al luogo in cui dimorano.
In quell’occasione, in pochi istanti e in maniera assolutamente irresponsabile, rappresentanti istituzionali e politici di diverso orientamento hanno invocato il pugno di ferro su migliaia di persone che non avevano niente a che fare con la vittima, con l’abuso e l’omicidio, con il responsabile di questi atti.
Tanto che, il 6 novembre 2007, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) ha espresso preoccupazione per il clima di intolleranza manifestatosi in quei giorni e per lo "stato di tensione nei confronti degli stranieri alimentato negli anni anche da risposte demagogiche alle tematiche dell’immigrazione messe in atto dalla politica". Il giorno seguente il Presidente dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa ha messo in guardia l’Italia circa il rischio di una "caccia alle streghe" contro i cittadini rumeni e in particolare contro i rom.
La violenza su una donna è diventata infatti la "testa d’ariete" per sfondare la parete del pudore, dell’equilibrio istituzionale, del rispetto dei diritti umani e aprire la strada alla discriminazione e all’erosione dei diritti, attraverso fiumi di parole e specifici atti normativi che rischiano di trasformare l’Italia in un paese "pericoloso", in questo momento particolarmente per rom e rumeni, potenzialmente per chiunque. Per chiunque di noi. L’erosione dei diritti ci mette potenzialmente a rischio nelle più diverse situazioni della nostra vita quotidiana, come le mura domestiche, il luogo di lavoro, le manifestazioni di piazza. Riteniamo che sia questa la vera emergenza in Italia.
Amnesty Internationa è un’organizzazione indipendente, anche e soprattutto rispetto alle parti politiche e ai partiti. I politici italiani – lo diciamo con amarezza – non ci hanno creato problemi in questo senso: sono stati estremamente bipartisan, incredibilmente compatti nel coro di esternazioni violente e discriminatorie.
Dopo quel episodio, l’allora sindaco di Roma, Walter Veltroni, ha dichiarato che "non si possono aprire i boccaporti" e che "prima dell'ingresso della Romania nell'Unione Europea, Roma era la metropoli più sicura del mondo", sottolineando quindi la necessità di provvedimenti d’urgenza. In un’intervista rilasciata il 4 novembre successivo Gianfranco Fini, allora presidente di Alleanza Nazionale, ha dichiarato: "c'è chi non accetta di integrarsi, perché non accetta i valori e i principi della società in cui risiede" e, riferendosi in particolare ai rom ha affermato "mi chiedo come sia possibile integrare chi considera pressoché lecito e non immorale il furto, il non lavorare perché devono essere le donne a farlo magari prostituendosi, e non si fa scrupolo di rapire bambini o di generare figli per destinarli all'accattonaggio. Parlare di integrazione per chi ha una ‘cultura’ di questo tipo non ha senso".
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Non sappiamo perché i rappresentanti del Governo allora in carica e il candidato del Partito Democratico alla Presidenza del Consiglio abbiano parlato in questo modo: ciò che ci preme dire è che, assieme ai rappresentanti dei rispettivi schieramenti politici, hanno una grave responsabilità nel deterioramento del dibattito politico e nella legittimazione del linguaggio razzista in Italia.
Con la stessa fretta, sull’onda emotiva di un fatto di cronaca, il Consiglio dei Ministri si è riunito la sera del 31 ottobre e ha approvato un decreto sulle espulsioni dei comunitari. Il provvedimento ha avuto un iter movimentato, essendo decaduto e successivamente "reiterato" con alcune modifiche a dicembre 2007.
Nel testo risultavano particolarmente preoccupanti l’indeterminatezza dei nuovi motivi di espulsione dei cittadini dell’Unione Europea, lasciati scarsamente definiti nella norma ("motivi imperativi di pubblica sicurezza") e quindi fonte di un’eccessiva discrezionalità delle autorità chiamate ad applicarle, tra cui i prefetti. I contenuti della decretazione d’urgenza sono infine confluiti nel decreto legislativo 32/2008 che, migliorando il testo originario, ha introdotto la necessità di convalida del giudice ordinario per tutti i provvedimenti di espulsione. Restano non ancorati a parametri legali certi i presupposti dell’espulsione.
Nonostante le promesse elettorali sui diritti di migranti, questa è l’unica nuova legge in materia approvata dal Governo presieduto da Romano Prodi.
Con una linea di continuità di contenuti e di approccio, ha mosso i suoi primi passi il nuovo governo presieduto da Silvio Berlusconi.
Nel corso del primo Consiglio dei Ministri, il 21 maggio 2008 a Napoli, com’è noto è stato approvato un insieme di modifiche e proposte normative, anch’esse nominalmente riferite alla "sicurezza", che prevedono pesanti restrizioni e nuove figure di reato e colpiscono soprattutto gli immigrati, direttamente o indirettamente. Le nuove misure sono state accompagnate da dichiarazioni in linea con la tendenza a stigmatizzare interi gruppi di persone, in particolare i rom e i migranti irregolari. L’attuale leader dell’opposizione Walter Veltroni ha dichiarato che queste misure in larga parte coincidono con quelle pianificate dalla precedente maggioranza di governo.
Il cosiddetto "pacchetto sicurezza" include:
o un decreto legge che punisce con la reclusione e la confisca del bene chi affitta un immobile a un immigrato irregolare, attribuisce più ampi poteri ai sindaci in materia di "ordine e sicurezza pubblica" e rende circostanza aggravante di qualsiasi reato quella di essere stato commesso da un immigrato irregolare;
o un disegno di legge che vuole aumentare da 60 giorni a 18 mesi il tempo massimo della detenzione nei centri a scopo di espulsione e che introduce il reato di ingresso e soggiorno irregolare;
o tre bozze di decreti legislativi che inaspriscono, tra le altre cose, le procedure di asilo.
Hanno espresso allarme per la riforma normativa molte organizzazioni non governative italiane e internazionali e lo stesso Alto Commissariato delle Nazioni per i rifugiati, il quale ha sottolineato come i richiedenti asilo, spesso costretti dalla mancanza di alternative a fare ingresso irregolarmente nei paesi dove cercano protezione, potrebbero venire accusati di aver commesso un reato.
Nel nuovo contesto normativo, quindi, i richiedenti asilo che fuggono da persecuzioni e tortura potrebbero essere accolti in Italia con un’incriminazione per ingresso irregolare – espressamente esclusa dalla Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati – e con 18 mesi di detenzione in un CPT per il solo fatto di aver messo piede nel nostro paese. Una misura che, secondo gli standard internazionali, dovrebbe residuale ed eccezionale.
Amnesty International è estremamente allarmata sia per il contenuto di queste misure, sia per le modalità affrettate e propagandistiche della loro emanazione e per il clima di discriminazione che le ha precedute e che le accompagna.
In questo contesto, in diverse parti d’Italia, vi sono stati attacchi contro le comunità rom. Attacchi che anche Amnesty International condanna e per i quali chiede che siano aperte indagini per accertare le
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responsabilità, che siano forniti adeguati risarcimenti per le vittime e le loro famiglie e che sia garantita un’adeguata protezione dei rom da qualsiasi forma di violenza.
Nel corso del 2007 e sino a praticamente ieri si sono verificati attacchi violenti ad accampamenti rom in diverse città e sono state segnalate diverse aggressioni ai danni di immigrati romeni e di altre nazionalità, tra cui i recentissimi episodi che hanno colpito a Roma, nel quartiere Pigneto, cittadini del Bangladesh.
La situazione italiana ha suscitato le preoccupazioni delle Nazioni Unite (Comitato per l’eliminazione della discriminazione razziale, marzo 2008) e dell’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani dell’OSCE, organismo che si occupa a livello internazionale di sicurezza e che ha sottolineato come la ricorrente stigmatizzazione di gruppi quali rom e immigrati aumenta le probabilità che si verifichino violenze contro di loro.
L’Italia e tutti i paesi UE dovrebbero attuare una politica comune per l’inserimento sociale dei rom, piuttosto che marginalizzarli ulteriormente ed espellerli. Ricordiamoci che chi risente particolarmente di queste migrazioni forzate sono i bambini, costretti a fuggire e ad abbandonare la scuola, quindi la possibilità di un futuro dignitoso e più sicuro per tutti.
L’ondata di razzismo coinvolge a cerchi concentrici i cittadini stranieri senza documenti regolari e, di fatto in termini più generali, tutti i migranti presenti nel territorio italiano.
Vorremmo che i rappresentanti politici italiani si rendessero contro del fatto che parlare dei diritti umani dei migranti non è impopolare. Amnesty International lo ha verificato con la campagna "Invisibili": durante 16 mesi di attività, decine di migliaia di persone hanno scelto di parlare di questi temi senza pregiudizi, firmando petizioni, organizzando o prendendo parte a spettacoli teatrali e di musica, convegni e mostre. Crediamo che i politici e le istituzioni italiane debbano avere lo stesso coraggio dei bambini di Lampedusa, che ai loro coetanei – i migranti che arrivano sulle loro spiagge – hanno dedicato giochi e disegni sui diritti umani.
Sul questo tema specifico dei diritti di migranti e richiedenti asilo speravamo, fino a pochi giorni fa, di poter apprezzare senza timori alcuni importanti miglioramenti legislativi.
Tra questi, anche i risultati della campagna "Invisibili" sui minori migranti detenuti all’arrivo in Italia:
la pubblicazione da parte del Governo dei dati relativi agli arrivi dei minori via mare, la netta diminuzione della detenzione dei minori non accompagnati in frontiera e nuove migliorative istruzioni del Ministero dell’interno sulla determinazione dell’età, che impongono l’applicazione del beneficio del dubbio in tutti i casi di incertezza sulla minore età.
Su uno di questi miglioramenti, invece, non abbiamo fatto in tempo a complimentarci: l’introduzione dell’effetto sospensivo, che consente al richiedente asilo di restare nel territorio italiano durante la decisione di secondo grado sulla sua domanda, come richiesto dagli standard internazionali, potrebbe essere presto cancellato dalle nuove misure legislative per la sicurezza. In assenza dell’effetto sospensivo, una decisione sbagliata in prima istanza può comportare conseguenze gravi e irreparabili per il richiedente asilo espulso nel suo paese di origine. Pensate che un cittadino sudanese del Darfur o eritreo possa presentare una seconda istanza dal proprio paese, dopo una fuga e un rimpatrio forzato, magari dopo essere passato in andata e al ritorno attraverso i campi di detenzione e le torture in Libia?
Questa scelta legislativa peggiorativa in materia di migranti e richiedenti asilo, già di per sé contraria agli standard internazionali sui diritti umani, è preoccupante anche alla luce della collaborazione tra Italia e Libia.
Una collaborazione trasversale ai governi che si sono succeduti dal primo accordo siglato nel 1999 dall’allora Ministro degli esteri Lamberto Dini, con un paese che – allora come oggi – non ha firmato la Convezione di Ginevra sui rifugiati, non ha una procedura di asilo, attua espulsioni a tappeto nei confronti di migranti e richiedenti asilo. I rapporti si sono via via intensificati con la mediazione in prima persona, nei loro ruoli istituzionali di Ministri, degli onorevoli Massimo D’Alema, Piero Fassino, Giuseppe Pisanu e Giuliano Amato. L’atto finale, per il momento, è l’accordo del 29 dicembre 2007, che prevede il pattugliamento congiunto con 6 navi della Guardia di Finanza cedute alla Libia, con comando
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interforze a coordinamento libico. Pochi mesi dopo, con l’approvazione del rifinanziamento delle forze armate e di polizia in missioni internazionali, oltre 6,2 milioni di euro di denaro pubblico sono stati destinati a finanziare il pattugliamento congiunto. In quegli stessi mesi, il leader libico Gheddafi confermava pubblicamente di voler attuare deportazioni di massa.
È quindi sempre più urgente che gli accordi con la Libia siano resi pubblici, che venga chiarito quali sono le garanzie richieste dall’Italia per i diritti umani e che cosa accade alle persone fermate in mare nel pattugliamento congiunto.
La segretezza di accordi, dati e informazioni che riguardano la vita di migliaia di persone non può prolungarsi ulteriormente e assume una parvenza ancor più preoccupante alla luce del clima italiano, che sembra attribuire ai migranti responsabilità collettive e una soglia più bassa di tutela dei diritti umani e quindi di dignità umana.
Le minoranze non sono le uniche ad essere colpite quando la cultura dei diritti viene sostituita dalla loro erosione e dall’impunità.
E proprio parlando di impunità, non possiamo non ricordare ancora una volta la mancanza di leggi adeguate e di strumenti di prevenzione in Italia di maltrattamenti e tortura. Questo contesto rende allarmante il problema dei diritti umani, trovando purtroppo conferma nei processi in corso.
Lo sanno bene le centinaia di persone che sono state vittime di abusi a Genova, durante il G8 del 2001. Nonostante gli impegni presi dal Governo Prodi, non sono state garantite né una commissione indipendente di inchiesta né gli strumenti necessari per garantire che quanto accaduto a Genova non si ripetesse più.
Dove sono il reato di tortura e la ratifica del Protocollo opzionale alla Convenzione contro la tortura, che decine di migliaia di persone, le Nazioni Unite e il Consiglio d’Europa chiedono all’Italia ormai da troppi anni?
Perché nessuno degli imputati nel processo è stato sospeso dal servizio e molti sono stati di fatto promossi, così contribuendo a diffondere un pericoloso clima di impunità tra chi dovrebbe proteggere la sicurezza?
Senza alcuna soddisfazione constatiamo oggi gli effetti pratici di questo stato di cose, previsti e annunciati da AI senza incontrare il dovuto ascolto. Nel processo per Bolzaneto la pubblica accusa ha ricostruito gli avvenimenti che, in quei giorni da non dimenticare, hanno colpito nella caserma oltre 250 persone.
Secondo i pubblici ministeri, il trattamento è stato "di oggettiva vessazione nei confronti di tutti i detenuti e per tutto il periodo della loro permanenza presso il sito" e ha violato il divieto di tortura e maltrattamenti previsto dalla Convenzione europea dei diritti umani. Le memorie dei pubblici ministeri hanno segnalato che è difficile fotografare i fatti accaduti con l’attuale codice penale, che non include il reato specifico di tortura.
Fa effetto ascoltare che chi materialmente indaga sui reati e ne deve chiedere l’applicazione, constata gli effetti pratici della mancanza di un reato di tortura. Altrettanto effetto fa constatare che denunce di maltrattamenti e abusi simili sono emersi, dopo Genova, rispetto alle situazioni più disparate di protesta e di espressione del dissenso. Ne sono un esempio gli atti di violenza denunciati in relazione all’intervento da parte delle forze di polizia in Val di Susa nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2005, contro un centinaio di persone che manifestavano contro la costruzione di un collegamento ferroviario ad alta velocità.
Per quanto sembrino cose diverse, la mentalità che consente tutto questo è la stessa che porta un governo a fidarsi di una semplice lettera di assicurazioni diplomatiche, con la quale un paese come la Tunisia promette di non torturare una persona che l’Italia vuole rinviare.
E su questo argomento, l’Italia ha subito una sonora lezione da parte della Corte europea dei diritti umani, che dovrebbe rappresentare un monito per tutti.
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Si tratta della sentenza che, a febbraio, ha annullato il provvedimento di espulsione nei confronti del cittadino tunisino Nassim Saadi, emesso dal Ministro dell’Interno Amato sulla base del "decreto Pisanu". L’Italia sosteneva che il rischio di tortura all’arrivo non bastasse in sé a bloccare l’espulsione. La Corte europea ha invece respinto il tentativo italiano di relativizzare il divieto di tortura nel diritto internazionale e ha riaffermato che si tratta di un principio assoluto.
L’estrema debolezza dell’impegno italiano contro la tortura e a sostegno del sistema internazionale dei diritti umani è il contesto in cui si sviluppa il caso di rendition che ha coinvolto Abu Omar.
Le indagini della magistratura italiana e l’avvio del processo sul coinvolgimento di funzionari di intelligence italiani e statunitensi nella rendition di Abu Omar stanno contribuendo a svelare la verità per mezzo della giustizia.
Fino ad oggi i ministri della Giustizia che si sono succeduti, Roberto Castelli e Clemente Mastella, non hanno inoltrato al Governo Usa le richieste di estradizione dei 26 agenti della Cia, come sollecitato anche dal Parlamento Europeo e dal Consiglio d’Europa. Non solo: l’Italia, contrariamente alla maggioranza dei paesi europei, di fatto non ha collaborato con le inchieste del Parlamento europeo e del Consiglio d’Europa sulle rendition e le violazioni dei diritti umani nella guerra contro il terrorismo.
Auspichiamo un’inversione di rotta, che potrebbe cominciare da un tema sin qui non citato. L’Italia, notoriamente tra i principali produttori ed esportatori di armi al mondo, dovrebbe integrare effettivamente il rispetto dei diritti umani nelle scelte politiche e amministrative che riguardano queste attività.
Le singole autorizzazioni devono essere affrontate dal Governo anche nell’ambito della propria politica estera. Gli sforzi dell’Italia e della comunità internazionale per il rafforzamento della tutela dei diritti umani in Afghanistan, per esempio, rischiano di essere danneggiati da un’eccessiva quantità di armi piccole e leggere offerta dai paesi Nato e tra essi dall’Italia. L’Italia ha esportato verso l’Afghanistan armi "comuni da sparo" per oltre 3 milioni di euro per il quinquennio 2003/2007, con un netto incremento nell’ultimo anno.
In particolare, l’Italia ha sempre dichiarato di volersi impegnare per la difesa dei diritti dei minori, con una specifica attenzione ai bambini soldato. Tra il 2002 e il 2007, i governi che si sono alternati hanno autorizzato l’esportazione di armi di diversa tipologia e calibro – per un valore di diversi milioni di euro – a privati e forze armate di stati quali Filippine, Afghanistan, Colombia, Repubblica Democratica del Congo, Nepal, Uganda, Burundi e Ciad.
Per una "sfortunata" coincidenza, questi paesi sono tutti nell’elenco di quelli in cui i bambini sono utilizzati come soldati, in base ai Rapporti del Segretario Generale delle Nazioni Unite e della Coalizione "Stop all’uso dei bambini soldato".
Non stiamo facendo una richiesta utopistica e irrealizzabile, ma solo la richiesta di una scelta netta: quella di non autorizzare più esportazioni di armi né da guerra né cosiddette "comuni da sparo" verso paesi in cui quelle armi alimentano conflitti di cui bambine e bambini sono vittime certe e numerose, perché feriti o uccisi o perché mandati a combattere con pistole e fucili made in Italy.
Più in generale, per concludere, chiediamo all’Italia di fare una scelta ben precisa, che non ammette compromessi: il governo e il parlamento devono decidere se violare i diritti umani oppure tutelarli, e agire di conseguenza.
Roma, 27 maggio 2008
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mercoledì 28 maggio 2008
venerdì 23 maggio 2008
il divo giulio
Il divo
Regia: Paolo Sorrentino Con: Toni Servillo - Anna Bonaiuto - Giulio Bosetti - Flavio Bucci Anno: 2008
Media voto della critica4.8/5.00
Scheda FilmCritica
LocandinaTrailerFotogalleryAutore: Natalia AspesiNella solenne corte marmorea e vuota scendono a uno a uno dalle auto nere, e già quelle scarpe lucide che si appoggiano a terra paiono un segno di minaccia, a uno a uno sorridono, sistemano la giacca, buttano il petto in fuori, consci di sé, del loro potere: prima Cirino Pomicino, il più agile, poi Franco Evangelisti, il più gioviale, Giuseppe Ciarrapico, il più disinvolto, Vittorio Sbardella, detto lo Squalo, il Cardinale Angelini, il più severo. Poi tutti insieme, i potenti della più potente corrente democristiana, come un ilare mucchio selvaggio, vanno a rendere omaggio, nel suo studio, o meglio nel bagno dello studio dove il barbiere di Montecitorio sta rasando la sua pelle delicata, al loro nume, al loro signore, al Papa Nero, a Belzebù, al Divo Giulio. A Giulio Andreotti, come in una specie di levée du roi dei tempi di Luigi XIV. È una delle tante scene potenti, dinamiche, quasi da western, di Il divo, uno dei due film italiani invitati in concorso al Festival di Cannes, seguita da quella altrettanto disturbante del folto e vociante gruppo del nuovo governo in posa, tra marmi e nobili affreschi, davanti a una moltitudine di fotografi assatanati. È il 13 aprile 1991, dopo 21 mesi si è concluso il VI governo Andreotti e sta nascendo il VII, che finirà 12 mesi e 11 giorni dopo: e per il più indecifrabile politico della storia repubblicana, uomo di governo per più di 40 anni, che pareva destinato ad esserlo per sempre, sarà, a 74 anni, il suo ultimo. Il divo è il quarto film di Paolo Sorrentino, 38 anni il 31 maggio, napoletano, regista intelligente, visionario e bravo, appassionato di figure virili ambigue, inquietanti, inspiegabili: il mite pensionato che in realtà è un corriere della mafia di Le conseguenze dell´amore, l´usuraio dall´aspetto miserabile di L´amico di famiglia. «Ero indeciso se fare un film sul banchiere Cuccia o su Andreotti, poi ho deciso per il secondo che mi ha affascinato sin da bambino: con la mia famiglia divoravo i telegiornali, le tribune politiche, sentivo l´impatto della sua fisicità disturbante, di un suo mistero indecifrabile, volevo saperne di più. A 18 anni con un amico cercammo di farne un nostro piccolo film ma desistemmo perché non avevamo soldi per un trucco plausibile e al nostro Belzebù le orecchie finte cadevano in continuazione». Anche Paolo Cirino Pomicino ha sedotto Sorrentino: «Sono andato a trovarlo in ospedale dove era in attesa del trapianto cardiaco: molto intelligente, anzi forse il solo della corrente andreottiana, simpatico con sprazzi di antipatia di chi è abituato al comando perentorio, ma anche di una vitalità estrema: per questo gli ho dedicato una scena inventata ma plausibile». Eccola: quello che in quella legislatura è stato eletto ministro del Bilancio si ritrova solo in Transatlantico, la lunga sontuosa e silenziosa galleria di Montecitorio, e improvvisamente, come un bambino, la percorre tutta con un lungo scivolone, urlando, poi si ricompone in fretta, signorile come sempre. Sorrentino si è documentato per un anno, diventando una specie di enciclopedia andreottiana. «C´è un´aneddotica infinita su di lui da lui stesso alimentata con le sue celebri battute, che gli servono soprattutto per evitare autentiche risposte, verità, ragionamenti approfonditi. Lui resta ovviamente impenetrabile, e mi sono appoggiato per la politica alla consulenza di Giuseppe D´Avanzo e per il personaggio, come sintesi, al giudizio di due donne». Margaret Thatcher: «Sembrava decisamente contrario ai principi etici, ed era addirittura convinto che una persona di principi fosse destinata ad essere ridicola». E Oriana Fallaci: «Mi mette paura, ma perché?... A chi fa paura un malatino, a chi fa paura una tartaruga? Solo più tardi, molto tardi, mi resi conto che la paura mi veniva proprio da queste cose… Il vero potere ti strozza con nastri di seta, garbo, intelligenza». Il regista racchiude il suo film, costato 4 milioni di euro, dal ´91 al ´95, dall´ultimo breve governo Andreotti alla perdita fulminea di potere suo e della Dc, negli anni di Tangentopoli, della recrudescenza delittuosa della mafia e dei suoi grandi pentiti, che parlano e parlano, anche di Andreotti, sino all´inizio del processo di Palermo in cui era imputato di associazione mafiosa. C´è la sequenza che riassume la sua agognata, e mancata elezione alla Presidenza della Repubblica: è il 25 maggio del 1992, l´aula parlamentare è in tumulto, benissimo ricostruito dal regista, con quelli del Msi che si scagliano contro i Dc, mentre in una salone crepuscolare, attorno a un tavolo immenso, Giulio, Arnaldo, Paolo (loro si chiamano per nome) attendono in silenzio i risultati: sarà Scalfaro, e non il favorito ma ormai poco presentabile Andreotti, a salire al Quirinale. «È stato al potere, inamovibile, sfuggente, in un´Italia di sangue e caos, falciata da delitti legati al terrorismo, alla mafia ma anche alla politica, che in qualche caso lo hanno sfiorato: una sequela di morti ammazzati anche a lui vicini, Moro, e in questo caso gli attribuisco vero dolore e rimorso, Pecorelli, Ambrosoli, Calvi, Alberto Dalla Chiesa, Sindona, Salvo Lima, suo referente siciliano, i giudici Falcone e Borsellino. Per Andreotti ci furono in Parlamento 26 richieste di autorizzazione a procedere, tutte respinte anche col voto del Pci, tranne l´ultima, che riassumo in una veloce carrellata». Ecco il geniale Toni Servillo, un Andreotti sibillino e talvolta grottesco, davanti a chi lo deve giudicare: immobile come sempre («Come sempre seduto, mai uno sport, perché secondo lui tutti i suoi amici che lo facevano erano morti», dice Sorrentino), il collo incassato nelle spalle, lo sguardo sprezzante, chiuso, a volte feroce dietro le lenti, le mani sempre in movimento (una specie di codice che accompagna tutto il film) che dice ossessivamente «Non ricordo, non sapevo, non mi risulta, non c´ero». Tutti i personaggi sono interpretati da bravi attori (Moro è Paolo Graziosi, Evangelisti Flavio Bucci, Cirino Pomicino Carlo Buccirosso, la moglie Livia Anna Bonaiuto e la famosa segretaria Enea Piera Degli Esposti). C´è anche Giulio Bosetti nel ruolo di Eugenio Scalfari che fa un´intervista serrata a Andreotti: «Non è una delle sue, esemplari, l´ho inventata io, ma non ne posso parlare perché è un momento rivelatore del film. Lo si vedrà a Cannes». Il potere, almeno quello assoluto, è scivolato via da quello che è oggi un sereno, colto, senatore a vita, scagionato dall´accusa di associazione mafiosa (per prescrizione sino al 1980) e del delitto Pecorelli, dedito ai suoi studi alle sue battute e a una certa vita mondana. Per Sorrentino «il potere è cambiato, riguarda sempre meno la politica, forse in parte la finanza. Ma credo che il potere assoluto oggi lo abbia chi controlla la comunicazione, la telefonia, Internet, la televisione».
Le altre recensioni Natalia Aspesi (la Repubblica)
Lietta Tornabuoni (La Stampa)
Stenio Solinas (il Giornale)
Paolo Mereghetti (Il corriere della sera)
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Regia: Paolo Sorrentino Con: Toni Servillo - Anna Bonaiuto - Giulio Bosetti - Flavio Bucci Anno: 2008
Media voto della critica4.8/5.00
Scheda FilmCritica
LocandinaTrailerFotogalleryAutore: Natalia AspesiNella solenne corte marmorea e vuota scendono a uno a uno dalle auto nere, e già quelle scarpe lucide che si appoggiano a terra paiono un segno di minaccia, a uno a uno sorridono, sistemano la giacca, buttano il petto in fuori, consci di sé, del loro potere: prima Cirino Pomicino, il più agile, poi Franco Evangelisti, il più gioviale, Giuseppe Ciarrapico, il più disinvolto, Vittorio Sbardella, detto lo Squalo, il Cardinale Angelini, il più severo. Poi tutti insieme, i potenti della più potente corrente democristiana, come un ilare mucchio selvaggio, vanno a rendere omaggio, nel suo studio, o meglio nel bagno dello studio dove il barbiere di Montecitorio sta rasando la sua pelle delicata, al loro nume, al loro signore, al Papa Nero, a Belzebù, al Divo Giulio. A Giulio Andreotti, come in una specie di levée du roi dei tempi di Luigi XIV. È una delle tante scene potenti, dinamiche, quasi da western, di Il divo, uno dei due film italiani invitati in concorso al Festival di Cannes, seguita da quella altrettanto disturbante del folto e vociante gruppo del nuovo governo in posa, tra marmi e nobili affreschi, davanti a una moltitudine di fotografi assatanati. È il 13 aprile 1991, dopo 21 mesi si è concluso il VI governo Andreotti e sta nascendo il VII, che finirà 12 mesi e 11 giorni dopo: e per il più indecifrabile politico della storia repubblicana, uomo di governo per più di 40 anni, che pareva destinato ad esserlo per sempre, sarà, a 74 anni, il suo ultimo. Il divo è il quarto film di Paolo Sorrentino, 38 anni il 31 maggio, napoletano, regista intelligente, visionario e bravo, appassionato di figure virili ambigue, inquietanti, inspiegabili: il mite pensionato che in realtà è un corriere della mafia di Le conseguenze dell´amore, l´usuraio dall´aspetto miserabile di L´amico di famiglia. «Ero indeciso se fare un film sul banchiere Cuccia o su Andreotti, poi ho deciso per il secondo che mi ha affascinato sin da bambino: con la mia famiglia divoravo i telegiornali, le tribune politiche, sentivo l´impatto della sua fisicità disturbante, di un suo mistero indecifrabile, volevo saperne di più. A 18 anni con un amico cercammo di farne un nostro piccolo film ma desistemmo perché non avevamo soldi per un trucco plausibile e al nostro Belzebù le orecchie finte cadevano in continuazione». Anche Paolo Cirino Pomicino ha sedotto Sorrentino: «Sono andato a trovarlo in ospedale dove era in attesa del trapianto cardiaco: molto intelligente, anzi forse il solo della corrente andreottiana, simpatico con sprazzi di antipatia di chi è abituato al comando perentorio, ma anche di una vitalità estrema: per questo gli ho dedicato una scena inventata ma plausibile». Eccola: quello che in quella legislatura è stato eletto ministro del Bilancio si ritrova solo in Transatlantico, la lunga sontuosa e silenziosa galleria di Montecitorio, e improvvisamente, come un bambino, la percorre tutta con un lungo scivolone, urlando, poi si ricompone in fretta, signorile come sempre. Sorrentino si è documentato per un anno, diventando una specie di enciclopedia andreottiana. «C´è un´aneddotica infinita su di lui da lui stesso alimentata con le sue celebri battute, che gli servono soprattutto per evitare autentiche risposte, verità, ragionamenti approfonditi. Lui resta ovviamente impenetrabile, e mi sono appoggiato per la politica alla consulenza di Giuseppe D´Avanzo e per il personaggio, come sintesi, al giudizio di due donne». Margaret Thatcher: «Sembrava decisamente contrario ai principi etici, ed era addirittura convinto che una persona di principi fosse destinata ad essere ridicola». E Oriana Fallaci: «Mi mette paura, ma perché?... A chi fa paura un malatino, a chi fa paura una tartaruga? Solo più tardi, molto tardi, mi resi conto che la paura mi veniva proprio da queste cose… Il vero potere ti strozza con nastri di seta, garbo, intelligenza». Il regista racchiude il suo film, costato 4 milioni di euro, dal ´91 al ´95, dall´ultimo breve governo Andreotti alla perdita fulminea di potere suo e della Dc, negli anni di Tangentopoli, della recrudescenza delittuosa della mafia e dei suoi grandi pentiti, che parlano e parlano, anche di Andreotti, sino all´inizio del processo di Palermo in cui era imputato di associazione mafiosa. C´è la sequenza che riassume la sua agognata, e mancata elezione alla Presidenza della Repubblica: è il 25 maggio del 1992, l´aula parlamentare è in tumulto, benissimo ricostruito dal regista, con quelli del Msi che si scagliano contro i Dc, mentre in una salone crepuscolare, attorno a un tavolo immenso, Giulio, Arnaldo, Paolo (loro si chiamano per nome) attendono in silenzio i risultati: sarà Scalfaro, e non il favorito ma ormai poco presentabile Andreotti, a salire al Quirinale. «È stato al potere, inamovibile, sfuggente, in un´Italia di sangue e caos, falciata da delitti legati al terrorismo, alla mafia ma anche alla politica, che in qualche caso lo hanno sfiorato: una sequela di morti ammazzati anche a lui vicini, Moro, e in questo caso gli attribuisco vero dolore e rimorso, Pecorelli, Ambrosoli, Calvi, Alberto Dalla Chiesa, Sindona, Salvo Lima, suo referente siciliano, i giudici Falcone e Borsellino. Per Andreotti ci furono in Parlamento 26 richieste di autorizzazione a procedere, tutte respinte anche col voto del Pci, tranne l´ultima, che riassumo in una veloce carrellata». Ecco il geniale Toni Servillo, un Andreotti sibillino e talvolta grottesco, davanti a chi lo deve giudicare: immobile come sempre («Come sempre seduto, mai uno sport, perché secondo lui tutti i suoi amici che lo facevano erano morti», dice Sorrentino), il collo incassato nelle spalle, lo sguardo sprezzante, chiuso, a volte feroce dietro le lenti, le mani sempre in movimento (una specie di codice che accompagna tutto il film) che dice ossessivamente «Non ricordo, non sapevo, non mi risulta, non c´ero». Tutti i personaggi sono interpretati da bravi attori (Moro è Paolo Graziosi, Evangelisti Flavio Bucci, Cirino Pomicino Carlo Buccirosso, la moglie Livia Anna Bonaiuto e la famosa segretaria Enea Piera Degli Esposti). C´è anche Giulio Bosetti nel ruolo di Eugenio Scalfari che fa un´intervista serrata a Andreotti: «Non è una delle sue, esemplari, l´ho inventata io, ma non ne posso parlare perché è un momento rivelatore del film. Lo si vedrà a Cannes». Il potere, almeno quello assoluto, è scivolato via da quello che è oggi un sereno, colto, senatore a vita, scagionato dall´accusa di associazione mafiosa (per prescrizione sino al 1980) e del delitto Pecorelli, dedito ai suoi studi alle sue battute e a una certa vita mondana. Per Sorrentino «il potere è cambiato, riguarda sempre meno la politica, forse in parte la finanza. Ma credo che il potere assoluto oggi lo abbia chi controlla la comunicazione, la telefonia, Internet, la televisione».
Le altre recensioni Natalia Aspesi (la Repubblica)
Lietta Tornabuoni (La Stampa)
Stenio Solinas (il Giornale)
Paolo Mereghetti (Il corriere della sera)
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giovedì 22 maggio 2008
lettera a stefano folli
----- Original Message -----
From: pietroancona@tin.it
To: stefano.folli@ilsole24ore.com
Sent: Thursday, May 22, 2008 1:37 PM
Subject: mistificazione continuata ed aggravata
famosi editorialisti ( lei ed altri) hanno descritto i provvedimenti del governo sui migranti come un grande ritorno alla primazia dello Stato. Insomma il Governo avrebbe restaurato l'autorità dello Stato su una società anarchica ed in preda alla criminalità extracomunitaria.
Queste cose vengono scritte, con notevole faccia di bronzo, nel giorno in cui treni carichi di immondizie sono bloccati dalla camorra nel casertano e non possono partire per la Germania e mentre lo Stato paga una enorme penalità alla Unione Europea per favorire una rete televisiva del Presidente del Consiglio.
Cari saluti.
Pietro Ancona
From: pietroancona@tin.it
To: stefano.folli@ilsole24ore.com
Sent: Thursday, May 22, 2008 1:37 PM
Subject: mistificazione continuata ed aggravata
famosi editorialisti ( lei ed altri) hanno descritto i provvedimenti del governo sui migranti come un grande ritorno alla primazia dello Stato. Insomma il Governo avrebbe restaurato l'autorità dello Stato su una società anarchica ed in preda alla criminalità extracomunitaria.
Queste cose vengono scritte, con notevole faccia di bronzo, nel giorno in cui treni carichi di immondizie sono bloccati dalla camorra nel casertano e non possono partire per la Germania e mentre lo Stato paga una enorme penalità alla Unione Europea per favorire una rete televisiva del Presidente del Consiglio.
Cari saluti.
Pietro Ancona
l'opinione pubblica italiana
E' per me motivo di sconforto constatare come l'opinione pubblica italiana, specialmente quella fatta dai ceti popolari, mostri di condividere i provvedimenti liberticidi, razzisti, xenofobi, contro le classi lavoratrici italiane ed i poveri del mondo, del governo Berlusconi.
Anche Hitler e Mussolini riscossero a suo tempo il consenso di una opinione pubblica che accettò quasi senza battere ciglio l'uccisione di oltre trecentomila tedeschi antinazisti e l'internamento nei campi di concentramento e di sterminio degli ebrei, degli zingari, degli omosessuali...dei comunisti......
Guardiamoci da consensi ottenuti attraverso intense campagne di menzogne
mediatiche, attraverso un grido "Al Lupo Al Lupo" che dura da anni....
Il nemico non è lo straniero ma colui che ti costringe con la legge Biagi ad una vita da precario spesso a meno di mille euro al mese e si accinge a togliere tutto a cominciare dal poco che è rimasto del sistema pensionistico..
Anche Hitler e Mussolini riscossero a suo tempo il consenso di una opinione pubblica che accettò quasi senza battere ciglio l'uccisione di oltre trecentomila tedeschi antinazisti e l'internamento nei campi di concentramento e di sterminio degli ebrei, degli zingari, degli omosessuali...dei comunisti......
Guardiamoci da consensi ottenuti attraverso intense campagne di menzogne
mediatiche, attraverso un grido "Al Lupo Al Lupo" che dura da anni....
Il nemico non è lo straniero ma colui che ti costringe con la legge Biagi ad una vita da precario spesso a meno di mille euro al mese e si accinge a togliere tutto a cominciare dal poco che è rimasto del sistema pensionistico..
martedì 20 maggio 2008
appello dei rom europei
Martedì, 20 Maggio 2008
L’appello dei Rom europei
Sono passati pochi giorni dal suo insediamento, e già il governo Berlusconi si trova al centro delle polemiche europee. La Spagna lo accusa di non si sa bene quali misfatti in materia di immigrazione. Il Parlamento europeo organizza un dibattito sulla condizione dei Rom in Italia. Allarmi eccessivi?
Il Centro europeo per i diritti dei Rom, copresieduto dall’eurodeputata ungherese di etnia rom Viktoria Mohacsi, ha inviato una lettera al presidente Napolitano, al primo ministro Berlusconi, al ministro dell’Interno Maroni, oltre che ai presidenti della Commissione e del Parlamento europei, in cui chiede che il governo italiano:
< 1) Dia adeguata protezione a tutti i Rom in Italia contro violenze, attacchi razzisti e altre azioni discriminatorie
2) Denunci con fermezza i pogrom che hanno avuto luogo
3) Garantisca un’adeguata indagine sui fatti avvenuti a Napoli, Milano e altrove, e persegua tutti i responsabili, compresi i pubblici ufficiali, che facciano dichiarazioni contro i Rom tali da incitare all’odio raziiale
4) Cooperi pienamente con le istituzioni intergovernative, le organizzazioni internazionali e la società civile per porre rapidamente fine all’emergenza diritti umani dei Rom in Italia>.
E’ triste e inquietante che un Paese che si vuole civile debba ricevere di simili appelli.
L’appello dei Rom europei
Sono passati pochi giorni dal suo insediamento, e già il governo Berlusconi si trova al centro delle polemiche europee. La Spagna lo accusa di non si sa bene quali misfatti in materia di immigrazione. Il Parlamento europeo organizza un dibattito sulla condizione dei Rom in Italia. Allarmi eccessivi?
Il Centro europeo per i diritti dei Rom, copresieduto dall’eurodeputata ungherese di etnia rom Viktoria Mohacsi, ha inviato una lettera al presidente Napolitano, al primo ministro Berlusconi, al ministro dell’Interno Maroni, oltre che ai presidenti della Commissione e del Parlamento europei, in cui chiede che il governo italiano:
< 1) Dia adeguata protezione a tutti i Rom in Italia contro violenze, attacchi razzisti e altre azioni discriminatorie
2) Denunci con fermezza i pogrom che hanno avuto luogo
3) Garantisca un’adeguata indagine sui fatti avvenuti a Napoli, Milano e altrove, e persegua tutti i responsabili, compresi i pubblici ufficiali, che facciano dichiarazioni contro i Rom tali da incitare all’odio raziiale
4) Cooperi pienamente con le istituzioni intergovernative, le organizzazioni internazionali e la società civile per porre rapidamente fine all’emergenza diritti umani dei Rom in Italia>.
E’ triste e inquietante che un Paese che si vuole civile debba ricevere di simili appelli.
lunedì 19 maggio 2008
rina gagliardi parla degli zingari
Popolo rom perseguitato, i ladri di bambini siamo noi
Rina Gagliardi
«Stride la vampa! La folla indomita/ corre a quel foco lieta in
sembianza…Stride la vampa! Giunge la vittima/ nero vestita discinta e
scalza». Così, in uno dei più popolari melodrammi verdiani, Il
Trovatore , la zingara Azucena rievoca il rogo in cui era morta
bruciata sua madre. La musica, febbrile e nevrotica, riproduce
perfettamente lo scoppiettio che divora un corpo, e par quasi di
vedere i bagliori delle fiamme. Tutto Il Trovatore è, del resto, una
sorta di straordinaria epopea del fuoco (fino all'aria forse più
celebre di tutti i tempi, "Di quella pira"). Sì, anche quella storia
della Spagna antica parlava di zingari, e li rappresentava come una
comunità infida, ribelle, sovversiva - ma anche al tempo stesso
ammaliante, e perversamente fascinosa. E muoveva, la storia,
dalla «abietta zingarafosca vegliarda» sorpresa tanti anni prima a
rapire il piccolo figlio del Conte di Luna.
Vedete come la cronaca recente più dissennata, il pogrom di
Ponticelli, ha radici piantate nel passato, in leggende secolari, in
pregiudizi che nessun progresso sembra poter scalfire? Sono almeno
sei-sette secoli che si dice che i Rom - gli zingari - sono ladri.
Ladri di cose ma soprattutto di bambini. Rapitori di neonati. Nei
registri di polizia o negli atti giudiziari non esiste alcuna
sostanziosa documentazione che, quantomeno, incoraggi questa
opinione. Ma essa si trasmette nel tempo e nello spazio con la
vischiosità del senso comune e con il valore di una superstizione
che, in quanto tale, non abbisogna né di prove né di fatti. Quando
ero bambina, e gli zingari arrivavano ad ogni stagione, e le donne
portavano a loro, da riparare, le pentole e le padelle in rame
sconocchiate, ci si sussurrava di stare attenti, di non andare troppo
vicino a giocare all'accampamento sull'Arno, «perché gli zingari
portano via i bimbi». Non fu mai registrato, a mia memoria, alcun
caso di rapimento. Non ci furono neppure episodi di vera
intolleranza - in quegli anni il popolo "normale" e il popolo degli
zingari convivevano, alla fine, senza veri conflitti, soltanto con
una sotterranea e certo reciproca diffidenza. C'era sì la diversità -
la lingua incomprensibile, i vestiti lunghi, consunti e sgargianti,
l'odore forte, i fazzoletti in testa - che inquietava, incuriosiva,
allarmava. Ma non si andava oltre. Oggi, invece, è di nuovo il tempo
della ferocia. Dell'intolleranza. Della persecuzione.
***
In verità, se i criteri del "dare" e dell'"avere" regolassero davvero
i rapporti (e i bilanci storici) tra i popoli, è l'occidente ad aver
contratto un debito terribile nei confronti degli zingari. Da quando -
attorno al 1100 - questo popolo di origine indiana, poi sconfinato
in Persia, si è affacciato in Europa, per loro è cominciata, quasi
soltanto, una lunga storia di persecuzione, sofferenze, stermini. In
Romania furono subito resi schiavi: divisi in tre "categorie"
(zingari del principe", "zingari dei boiari", "zingari dei
monasteri"), divennero merce di scambio, o di "dono", e questa
condizione si protrasse fino alla metà dell'Ottocento. Dalla fine del
quindicesimo secolo in poi, quasi tutti gli stati europei (ad
eccezione dell'Impero ottomano) emanarono decreti di espulsione di
tutte le etnie rom, gitane, "gipsy" (Spagna, decreto delle Cortes del
1492, Francia, decreto di Francesco I nel 1523, Napoli nel 1555,
Stato pontificio nel 1566): volevano dire, queste leggi o bandi, che
chiunque fosse stato scoperto a girovagare per le strade e
riconosciuto come zingaro, poteva essere sull'istante ridotto in
schiavitù, o buttato per sempre in una prigione. Tra le mille
crudeltà che si potrebbero raccontare, spicca una grida milanese del
1693. Essa recita testualmente: «Ogni cittadino è libero di ammazzare
tutti gli zingari impune e di levar loro ogni sorta di robba, di
bestiame o di denari che trovasse».
Perché non solo di persecuzione e sterminio nei confronti di un
popolo "asociale"si tratta. Man mano che ci si inoltra nell'era della
modernità, il pregiudizio, la diffidenza, o la paura nei confronti
degli zingari, diventa persecuzione razziale. Gli zingari come razza
non solo inferiore, "subumana" ma dannosa, e come tale da cancellare,
stroncare. Gli zingari come «razza delinquenziale», predisposta
geneticamente al crimine e alla destabilizzazione sociale, secondo la
definizione (1841) del (socialista) Cesare Lombroso. Le pratiche di
sterilizzazione forzata cominciarono agli inizi del `900, non appena
la scienza mise a disposizione gli strumenti adeguati e l'eugenetica
cominciava a trionfare - ed ebbero nei Paesi scandinavi, dalla Svezia
alla Danimarca, a partire dal 1934, il loro apogeo. Ma un secolo
prima aveva cominciato la grande imperatrice d'Austria Maria Teresa -
proprio lei, l'illuminata, la riformatrice - ad avviare una politica
di vero e proprio sterminio etnico-culturale: la proibizione dei
matrimoni tra Rom, la sistematica sottrazione dei piccoli ai loro
genitori, l'assimilazione forzata per chi ce la faceva, la scomparsa
nel nulla, o la morte, per tutti gli altri.
Vedete chi sono davvero i ladri di bambini? Noi, il civile occidente.
Non sapremo mai quanti piccoli rom sono stati rapiti, sequestrati,
rubati, nel corso dei secoli. Riusciamo a conoscere soltanto qualche
episodio, quando qualche pagina buia della storia viene
improvvisamente rischiarata da lunghe, tenaci pazienti ricerche. Come
l'incredibile vicenda di un altro civilissimo e ordinatissimo Paese:
la Svizzera. Tra le due guerre mondiali del XX secolo, il governo
elvetico promosse, ed attuò con successo, il programma di
cancellazione degli jenisches - comunità nomade, fatta in prevalenza
di artigiani, che allora assommava a circa trentamila persone. Fu il
dottor Alfred Siegfried, scienziato stimatissimo, un po' come molti
medici tedeschi che collaborarono poi ai mostruosi esperimenti
scientifici del nazismo, a dirigere l'operazione, diretta dal centro
nazionale "Pro Juventute" e denominata "Enfants de la grande route":
sulla base della convinzione che gli zingari, come sosteneva il
dottor Siegfried, sono «inferiori, psicopatici e mentalmente
ritardati», insomma non sono esseri umani, migliaia di bambini furono
sequestrati d'autorità, staccati per sempre dalle loro famiglie,
avviati al lavoro (divennero cioè forzalavoro, apprendisti,
domestiche, a bassissimo costo). Oggi in Svizzera la comunità
jenische è ridotta a 5mila unità. C'è voluta una lunga battaglia per
squarciare il velo della vergogna. Un velo che è durato - pensate un
po' - fino agli anni '90 del `900!
***
Così come ci sono voluti trent'anni per rompere il lungo silenzio che
per quasi tutto il dopoguerra aveva rimosso lo sterminio dei rom, nei
lager nazisti. Cinquecentomila, secondo molti accreditati studiosi,
sono gli zingari uccisi nei campi di Auschwitz (le 32 baracche
apposite dette Zigeneurlager), Ravensbruck, Dachau, Birkenau,
Treblinka - e tanti altri. Ma se anche fossero trecentomila, o
duecentomila, che differenza farebbe? E che senso ha la discussione
su quanto è lecito paragonare questo specifico tentativo di genocidio
alla shoah degli ebrei? Nella sua ultima fase, quando la guerra era
perduta, in tutta evidenza, e gli schiavi dei campi di lavoro non
erano più "utilizzabili" a fini produttivi, i nazisti adottarono per
tutti i loro prigionieri la soluzione "finale", lo sterminio di
massa: questo è la sola verità storica che interessa. Questa è la
follia di cui furono gli ebrei le grandi vittime sacrificali, perché
l'hitlerismo era nato e cresciuto sulla base di un programma
privilegiato, l'eliminazione del "pericolo ebraico". Ma per questa
follia scattarono tanti altri eccidi di massa : gli omosessuali, i
comunisti, gli slavi, i disabili - tutti i diversi, tutti i
variamente "asociali", tutti coloro che erano considerati
incompatibili con l'ordine costituito. Come i rom. Contro i quali,
già nel 1938, Himmler aveva lanciato l'offensiva finale («lotta per
cancellare la piaga degli zingari», 8 dicembre). Come le donne rom, a
Ravensbruck, ridotte a cavie dagli esprimenti sulla cancrena del
dottor Gebhardt, morte tra atroci dolori e lunghe agonie. Come i
ragazzini rom, caduti nelle mani del famigerato dottor Mengele per le
sue indagini sullo sconosciuto morbo "Noma".
***
Sì, bisognerà scriverla, al più presto, una storia dell'infinita
crudeltà che l'occidente cristiano ha riservato a questo
popolo, "arianissimo" e per lo più cristiano. Una crudeltà reiterata
nei secoli, ma mai davvero affiorata alla coscienza, e quindi mai
affrontata, elaborata, discussa, in qualche modo e per qualche via
superata. In compenso, però, il popolo zingaro ha alimentato la
nostra letteratura e la nostra musica, spesso come protagonista
indiscusso: il melodramma, di cui dicevamo, che ha decine e decine di
opere a centralità gitana, come la Carmen , la donna seduttrice così
libera che preferisce farsi ammazzare piuttosto che tornare con un
uomo che non ama più; la letteratura, che ci offre, nell'Hemingway di
Per chi suona la campana , la splendida figura di Pilar e, nel
grandissimo Victor Hugo, l'epopea di Esmeralda ( Notre Dame de
Paris ), morta per amore, per fedeltà, tra le torture, Che cos'è
questa mitizzazione degli zingari e delle zingare, questa scoperta
letteraria della loro umanità e del loro fascino, questo tributo reso
alla loro fierezza, al loro senso indomito di libertà? Forse, una
riduzione folkloristica, tutta e solo di comodo, tutta e solo per
alimentare comunque stereotipi e vaghe mitologie libertarie ( «Questo
è il canto di chi non conosce frontiera/ è l'ardente preghiera del
gitano che va» cantava Dalida nei primi anni '60). Forse, un
tentativo di risarcimento, di riscatto dal senso di colpa. Forse,
chissà, la manifestazione di un rapporto che è sempre stato
intimamente contradditorio. Come se il popolo zingaro, nella
irriducibilità della sua esistenza, nella sua alterità, nella sua
supposta "inadattabilità", rappresentasse l'inquietante limite alla
superiorità altrimenti indiscutibile della nostra civiltà e dei
nostri modelli di vita. Come se ci rinviasse, dunque, l'immagine
plastica di un'altra chance umana.
Ma forse anche queste sono riflessioni tutte interne ad un
immaginario - il nostro - che, buoni o cattivi che siamo, resta
l'immaginario dei colonizzatori. E, oggi, dei colonizzatori
impauriti, intolleranti di ogni diversità, bisognosi di scaricare
addosso al Nemico di turno tutte le loro frustrazioni e le loro
angosce per un futuro che non si vede più.
Questo è il pericolo gravissimo che oggi incombe sull'Occidente
declinante: la vendetta, i pogrom, la voluttà della cancellazione
dell'altro. I rom, oggi, sono un Nemico perfetto - anche perché lo
sono sempre stati e sempre ci siamo rifiutati di conoscerli. E' tempo
di fare qualcosa, prima che sia troppo tardi. Prima che la crisi di
civiltà diventi irreversibile.
Rina Gagliardi
«Stride la vampa! La folla indomita/ corre a quel foco lieta in
sembianza…Stride la vampa! Giunge la vittima/ nero vestita discinta e
scalza». Così, in uno dei più popolari melodrammi verdiani, Il
Trovatore , la zingara Azucena rievoca il rogo in cui era morta
bruciata sua madre. La musica, febbrile e nevrotica, riproduce
perfettamente lo scoppiettio che divora un corpo, e par quasi di
vedere i bagliori delle fiamme. Tutto Il Trovatore è, del resto, una
sorta di straordinaria epopea del fuoco (fino all'aria forse più
celebre di tutti i tempi, "Di quella pira"). Sì, anche quella storia
della Spagna antica parlava di zingari, e li rappresentava come una
comunità infida, ribelle, sovversiva - ma anche al tempo stesso
ammaliante, e perversamente fascinosa. E muoveva, la storia,
dalla «abietta zingarafosca vegliarda» sorpresa tanti anni prima a
rapire il piccolo figlio del Conte di Luna.
Vedete come la cronaca recente più dissennata, il pogrom di
Ponticelli, ha radici piantate nel passato, in leggende secolari, in
pregiudizi che nessun progresso sembra poter scalfire? Sono almeno
sei-sette secoli che si dice che i Rom - gli zingari - sono ladri.
Ladri di cose ma soprattutto di bambini. Rapitori di neonati. Nei
registri di polizia o negli atti giudiziari non esiste alcuna
sostanziosa documentazione che, quantomeno, incoraggi questa
opinione. Ma essa si trasmette nel tempo e nello spazio con la
vischiosità del senso comune e con il valore di una superstizione
che, in quanto tale, non abbisogna né di prove né di fatti. Quando
ero bambina, e gli zingari arrivavano ad ogni stagione, e le donne
portavano a loro, da riparare, le pentole e le padelle in rame
sconocchiate, ci si sussurrava di stare attenti, di non andare troppo
vicino a giocare all'accampamento sull'Arno, «perché gli zingari
portano via i bimbi». Non fu mai registrato, a mia memoria, alcun
caso di rapimento. Non ci furono neppure episodi di vera
intolleranza - in quegli anni il popolo "normale" e il popolo degli
zingari convivevano, alla fine, senza veri conflitti, soltanto con
una sotterranea e certo reciproca diffidenza. C'era sì la diversità -
la lingua incomprensibile, i vestiti lunghi, consunti e sgargianti,
l'odore forte, i fazzoletti in testa - che inquietava, incuriosiva,
allarmava. Ma non si andava oltre. Oggi, invece, è di nuovo il tempo
della ferocia. Dell'intolleranza. Della persecuzione.
***
In verità, se i criteri del "dare" e dell'"avere" regolassero davvero
i rapporti (e i bilanci storici) tra i popoli, è l'occidente ad aver
contratto un debito terribile nei confronti degli zingari. Da quando -
attorno al 1100 - questo popolo di origine indiana, poi sconfinato
in Persia, si è affacciato in Europa, per loro è cominciata, quasi
soltanto, una lunga storia di persecuzione, sofferenze, stermini. In
Romania furono subito resi schiavi: divisi in tre "categorie"
(zingari del principe", "zingari dei boiari", "zingari dei
monasteri"), divennero merce di scambio, o di "dono", e questa
condizione si protrasse fino alla metà dell'Ottocento. Dalla fine del
quindicesimo secolo in poi, quasi tutti gli stati europei (ad
eccezione dell'Impero ottomano) emanarono decreti di espulsione di
tutte le etnie rom, gitane, "gipsy" (Spagna, decreto delle Cortes del
1492, Francia, decreto di Francesco I nel 1523, Napoli nel 1555,
Stato pontificio nel 1566): volevano dire, queste leggi o bandi, che
chiunque fosse stato scoperto a girovagare per le strade e
riconosciuto come zingaro, poteva essere sull'istante ridotto in
schiavitù, o buttato per sempre in una prigione. Tra le mille
crudeltà che si potrebbero raccontare, spicca una grida milanese del
1693. Essa recita testualmente: «Ogni cittadino è libero di ammazzare
tutti gli zingari impune e di levar loro ogni sorta di robba, di
bestiame o di denari che trovasse».
Perché non solo di persecuzione e sterminio nei confronti di un
popolo "asociale"si tratta. Man mano che ci si inoltra nell'era della
modernità, il pregiudizio, la diffidenza, o la paura nei confronti
degli zingari, diventa persecuzione razziale. Gli zingari come razza
non solo inferiore, "subumana" ma dannosa, e come tale da cancellare,
stroncare. Gli zingari come «razza delinquenziale», predisposta
geneticamente al crimine e alla destabilizzazione sociale, secondo la
definizione (1841) del (socialista) Cesare Lombroso. Le pratiche di
sterilizzazione forzata cominciarono agli inizi del `900, non appena
la scienza mise a disposizione gli strumenti adeguati e l'eugenetica
cominciava a trionfare - ed ebbero nei Paesi scandinavi, dalla Svezia
alla Danimarca, a partire dal 1934, il loro apogeo. Ma un secolo
prima aveva cominciato la grande imperatrice d'Austria Maria Teresa -
proprio lei, l'illuminata, la riformatrice - ad avviare una politica
di vero e proprio sterminio etnico-culturale: la proibizione dei
matrimoni tra Rom, la sistematica sottrazione dei piccoli ai loro
genitori, l'assimilazione forzata per chi ce la faceva, la scomparsa
nel nulla, o la morte, per tutti gli altri.
Vedete chi sono davvero i ladri di bambini? Noi, il civile occidente.
Non sapremo mai quanti piccoli rom sono stati rapiti, sequestrati,
rubati, nel corso dei secoli. Riusciamo a conoscere soltanto qualche
episodio, quando qualche pagina buia della storia viene
improvvisamente rischiarata da lunghe, tenaci pazienti ricerche. Come
l'incredibile vicenda di un altro civilissimo e ordinatissimo Paese:
la Svizzera. Tra le due guerre mondiali del XX secolo, il governo
elvetico promosse, ed attuò con successo, il programma di
cancellazione degli jenisches - comunità nomade, fatta in prevalenza
di artigiani, che allora assommava a circa trentamila persone. Fu il
dottor Alfred Siegfried, scienziato stimatissimo, un po' come molti
medici tedeschi che collaborarono poi ai mostruosi esperimenti
scientifici del nazismo, a dirigere l'operazione, diretta dal centro
nazionale "Pro Juventute" e denominata "Enfants de la grande route":
sulla base della convinzione che gli zingari, come sosteneva il
dottor Siegfried, sono «inferiori, psicopatici e mentalmente
ritardati», insomma non sono esseri umani, migliaia di bambini furono
sequestrati d'autorità, staccati per sempre dalle loro famiglie,
avviati al lavoro (divennero cioè forzalavoro, apprendisti,
domestiche, a bassissimo costo). Oggi in Svizzera la comunità
jenische è ridotta a 5mila unità. C'è voluta una lunga battaglia per
squarciare il velo della vergogna. Un velo che è durato - pensate un
po' - fino agli anni '90 del `900!
***
Così come ci sono voluti trent'anni per rompere il lungo silenzio che
per quasi tutto il dopoguerra aveva rimosso lo sterminio dei rom, nei
lager nazisti. Cinquecentomila, secondo molti accreditati studiosi,
sono gli zingari uccisi nei campi di Auschwitz (le 32 baracche
apposite dette Zigeneurlager), Ravensbruck, Dachau, Birkenau,
Treblinka - e tanti altri. Ma se anche fossero trecentomila, o
duecentomila, che differenza farebbe? E che senso ha la discussione
su quanto è lecito paragonare questo specifico tentativo di genocidio
alla shoah degli ebrei? Nella sua ultima fase, quando la guerra era
perduta, in tutta evidenza, e gli schiavi dei campi di lavoro non
erano più "utilizzabili" a fini produttivi, i nazisti adottarono per
tutti i loro prigionieri la soluzione "finale", lo sterminio di
massa: questo è la sola verità storica che interessa. Questa è la
follia di cui furono gli ebrei le grandi vittime sacrificali, perché
l'hitlerismo era nato e cresciuto sulla base di un programma
privilegiato, l'eliminazione del "pericolo ebraico". Ma per questa
follia scattarono tanti altri eccidi di massa : gli omosessuali, i
comunisti, gli slavi, i disabili - tutti i diversi, tutti i
variamente "asociali", tutti coloro che erano considerati
incompatibili con l'ordine costituito. Come i rom. Contro i quali,
già nel 1938, Himmler aveva lanciato l'offensiva finale («lotta per
cancellare la piaga degli zingari», 8 dicembre). Come le donne rom, a
Ravensbruck, ridotte a cavie dagli esprimenti sulla cancrena del
dottor Gebhardt, morte tra atroci dolori e lunghe agonie. Come i
ragazzini rom, caduti nelle mani del famigerato dottor Mengele per le
sue indagini sullo sconosciuto morbo "Noma".
***
Sì, bisognerà scriverla, al più presto, una storia dell'infinita
crudeltà che l'occidente cristiano ha riservato a questo
popolo, "arianissimo" e per lo più cristiano. Una crudeltà reiterata
nei secoli, ma mai davvero affiorata alla coscienza, e quindi mai
affrontata, elaborata, discussa, in qualche modo e per qualche via
superata. In compenso, però, il popolo zingaro ha alimentato la
nostra letteratura e la nostra musica, spesso come protagonista
indiscusso: il melodramma, di cui dicevamo, che ha decine e decine di
opere a centralità gitana, come la Carmen , la donna seduttrice così
libera che preferisce farsi ammazzare piuttosto che tornare con un
uomo che non ama più; la letteratura, che ci offre, nell'Hemingway di
Per chi suona la campana , la splendida figura di Pilar e, nel
grandissimo Victor Hugo, l'epopea di Esmeralda ( Notre Dame de
Paris ), morta per amore, per fedeltà, tra le torture, Che cos'è
questa mitizzazione degli zingari e delle zingare, questa scoperta
letteraria della loro umanità e del loro fascino, questo tributo reso
alla loro fierezza, al loro senso indomito di libertà? Forse, una
riduzione folkloristica, tutta e solo di comodo, tutta e solo per
alimentare comunque stereotipi e vaghe mitologie libertarie ( «Questo
è il canto di chi non conosce frontiera/ è l'ardente preghiera del
gitano che va» cantava Dalida nei primi anni '60). Forse, un
tentativo di risarcimento, di riscatto dal senso di colpa. Forse,
chissà, la manifestazione di un rapporto che è sempre stato
intimamente contradditorio. Come se il popolo zingaro, nella
irriducibilità della sua esistenza, nella sua alterità, nella sua
supposta "inadattabilità", rappresentasse l'inquietante limite alla
superiorità altrimenti indiscutibile della nostra civiltà e dei
nostri modelli di vita. Come se ci rinviasse, dunque, l'immagine
plastica di un'altra chance umana.
Ma forse anche queste sono riflessioni tutte interne ad un
immaginario - il nostro - che, buoni o cattivi che siamo, resta
l'immaginario dei colonizzatori. E, oggi, dei colonizzatori
impauriti, intolleranti di ogni diversità, bisognosi di scaricare
addosso al Nemico di turno tutte le loro frustrazioni e le loro
angosce per un futuro che non si vede più.
Questo è il pericolo gravissimo che oggi incombe sull'Occidente
declinante: la vendetta, i pogrom, la voluttà della cancellazione
dell'altro. I rom, oggi, sono un Nemico perfetto - anche perché lo
sono sempre stati e sempre ci siamo rifiutati di conoscerli. E' tempo
di fare qualcosa, prima che sia troppo tardi. Prima che la crisi di
civiltà diventi irreversibile.
domenica 18 maggio 2008
barbara spinelli la zattera della medusa
18/5/2008
La zattera della medusa
Si è parlato molto, negli ultimi anni, della casta politica e delle sue cecità, dei suoi privilegi. Si è parlato della distanza che la separa dal cittadino, dal suo quotidiano tribolare. Si è parlato assai meno della malattia, vasta, che affligge l’informazione e il compito che essa ha nelle democrazie. Compito di chiamare i poteri a render conto, tra un voto e l’altro. Compito d’abituare l’opinione pubblica non a inferocirsi, ma a capire le complicazioni, a esplorarne le radici, a scommettere con razionalità su rimedi non subito spettacolari. Compito di formare quest’opinione, cosa che spetta all’informazione in quanto «mezzo che mette il cittadino a contatto con l’ambiente che sta al di fuori del suo campo visuale»: lo scriveva Walter Lippmann nei primi Anni 20, e la missione è sempre quella. La malattia non è solo italiana, sono tante le democrazie alle prese con un’informazione che fallisce la prova, che al cittadino non rende visibile l’invisibile, che dal potere politico si fa dettare l’agenda, le inquietudini, gli interessi prioritari. Che è vicina più ai potenti o alle lobby che ai lettori. Che alimenta il clima singolare che regna oggi nelle democrazie: come se vivessero un permanente stato di necessità - di guerra - dove per conformismo si sospendono autonomie, libertà di dire.
La grande stampa Usa si è fatta dettare l’agenda da Bush, per anni. La stampa francese per anni s’è dedicata ai temi prediletti da Sarkozy. Quel che ci rende originali non è dunque la malattia. È il fallire del sistema immunitario, che altrove generalmente funziona. Non sappiamo liberarci dalle patologie, dalle loro cellule.
Siamo immersi in esse con compiacimento, con il senso di potenza che dà l’ebbro sentirsi in branco: lo straordinario conformismo che disvelò Jean-François Revel (Pour l’Italie, 1958) non è scemato. In Italia c’è poca auto-stima ma anche poca analisi di sé. Un romanzo spietato come Madame Bovary è da noi impensabile. Quanto all’informazione, nulla che somigli alle autocritiche dei giornalisti Usa sull’Iraq, emerse quando Katrina travolse New Orleans.
L’informazione italiana non produce anticorpi atti a ristabilire un contatto con la società. Il risultato è palese, oggi, e lo storico Adriano Prosperi lo descrive con nitidezza: nel Palazzo «un venticello dolce di mutuo rispetto tra maggioranza e opposizione, un gusto della correttezza (...) un’aria di intesa e di pace». Fuori, intanto: una guerra tra poveri, e pogrom moltiplicati contro rom e diversi (la Repubblica, 16-5). Il guaio è che anche la stampa è Palazzo: incensa serenità politiche ritrovate e scopre, d’improvviso, una società inferocita da tempo, ormai indomabile dalla destra che l’ha sobillata.
L’enorme polemica suscitata da alcune affermazioni televisive del giornalista Marco Travaglio è sintomo di questa malattia, assieme alla violenza, impressionante, con cui alcuni si scagliano contro di lui (in primis un grande professionista d’inchieste giudiziarie come Giuseppe D’Avanzo). Il Paese traversa tifoni, e i giornalisti trovano il tempo di scannarsi a vicenda come fossero nell’ottocentesca Zattera della Medusa. Chi ha visto il quadro di Géricault, al Louvre, ricorderà la cupa zattera, dove pochi naufraghi pensarono di salvarsi a spese di altri. Su simile zattera sono oggi i giornalisti, mangiandosi vivi. L’istinto della muta è forte in tempi di necessità, di Ultimi Giorni dell’Umanità.
Ignoranza e mancanza di memoria sono tra i mali che impediscono di smettere il cannibalismo tra giornalisti e di suscitare un’opinione pubblica informata. Si ignora quel che succede nel Paese, e da quanto tempo. Il pogrom di Ponticelli non è un evento nuovo. Violenze di mute cittadine contro il capro espiatorio già sono avvenute il 2 novembre 2007, quando squadracce picchiarono i romeni dopo l’assassinio di Giovanna Reggiani. Già il 21-22 dicembre 2006 presidi cittadini incendiarono un campo nomadi a Opera presso Milano, approvati da un consigliere comunale leghista, Ettore Fusco, ora sindaco. E non erano violenze nate da niente, avevano anch’esse album di famiglia che chi ha memoria conosce: la tortura di manifestanti no-global a Genova nel 2001; gli sgomberi dei campi Rom attuati brutalmente dal Comune di Milano nel giugno 2005; le parole del presidente del Senato Pera contro i meticci nell’agosto 2005; le complicità del governo Berlusconi nel rapimento di Abu Omar e nella sua consegna ai torturatori egiziani.
Erano pogrom anche quelli del 2006-2007, e gli oppositori di allora non sapevano che a forza di aizzarli avrebbero suscitato i mostri che adesso, grazie all’allarme europeo, devono condannare. La perdita di memoria è stupefacente, ramificandosi s’espande. D’un tratto Berlusconi è «un’altra persona», al pari di suoi amici come Dell’Utri, Schifani. Non hanno dovuto fare ammenda: sono altre persone perché il conformismo fa letteralmente magie. Non si ricorda quel che è stato Berlusconi ancora ieri: come quotidianamente ha delegittimato Prodi, trascinando dietro di sé l’informazione. Di conflitto d’interesse non si parla più. Non si ricordano i trascorsi dei suoi uomini. I rapporti con la mafia o il vivere vicino a essa sono pur sempre una loro macchia. Travaglio ha avuto il cattivo gusto di non uniformarsi, di dirlo a Fabio Fazio su Rai3. Sta pagando per questo.
Fa parte del conformismo giornalistico il fascino per il potere (il vizio infantile descritto nel libro di Scalfari: non solo i buoni vincono ma chi vince è buono). E anche se il fascino esiste altrove, in Italia è diverso: proprio perché lo Stato è debole, la massima irriverenza verso le cariche repubblicane si mescola non di rado a riverenze esagerate (verso il presidente del Senato, anche verso il Capo dello Stato). L’usanza non esiste in regimi presidenziali come America e Francia.
Travaglio è un professionista che ha molto investigato, ma ve ne sono altri: Abbate che ha indagato su mafia e politica, o Peter Gomez, Gian Antonio Stella, Elio Veltri, Carlo Bonini, Francesco La Licata. Anche D’Avanzo è fra essi, e per il lettore non è chiaro perché si sia tanto accanito contro Travaglio, il cui carattere non è più spigoloso di altri astri giornalistici. Travaglio si è chiesto come mai un politico dal passato non specchiato sia presidente del Senato. Non è illegittimo. Ha violato il sacro della carica, ma la prossimità di Schifani alla mafia è già stata descritta da Lirio Abbate e Peter Gomez ne I Complici - in libreria dal marzo 2007 - senza che mai sia stata sporta querela. Berlusconi s’avvia a esser osannato allo stesso modo, metamorfizzandosi in tabù. L’antiberlusconismo non è più una normale presa di posizione politica; sta divenendo un insulto che disonora oppositori e giornalisti. Qui è l’altra originalità italiana. Nessuno si sognerebbe in America di accusare il New York Times o i democratici di anti-bushismo, nessuno in Francia denuncerebbe l’anti-sarkozismo di Libération o dei socialisti. Da noi lo spirito dell’orda è tale che ieri era indecente difendere Prodi, oggi è indecente attaccare Berlusconi.
Le precipitose scuse di Fabio Fazio non erano necessarie. Più appropriato è quello che ha detto dopo, su La Stampa del 13 maggio: «L’idea che si immagini sempre il complotto, la trama, fa pensare che non possa esistere la normalità; è come se non si riuscisse a concepire che in Italia c’è chi lavora autonomamente. Noi giornalisti non siamo dipendenti della politica. Semmai questo è un atteggiamento proprietario che ha la politica nei confronti dei cittadini». Che cos’è la normalità, per il giornalista? È non farsi intimidire, non lasciarsi manipolare dalla violenza con cui il presidente della Camera Fini giustifica, in aula, gli attacchi a Di Pietro («dipende da quel che dici»). È lavorare solo per i lettori: via maestra per fabbricarsi gli anticorpi che mancano.
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Si è parlato molto, negli ultimi anni, della casta politica e delle sue cecità, dei suoi privilegi. Si è parlato della distanza che la separa dal cittadino, dal suo quotidiano tribolare. Si è parlato assai meno della malattia, vasta, che affligge l’informazione e il compito che essa ha nelle democrazie. Compito di chiamare i poteri a render conto, tra un voto e l’altro. Compito d’abituare l’opinione pubblica non a inferocirsi, ma a capire le complicazioni, a esplorarne le radici, a scommettere con razionalità su rimedi non subito spettacolari. Compito di formare quest’opinione, cosa che spetta all’informazione in quanto «mezzo che mette il cittadino a contatto con l’ambiente che sta al di fuori del suo campo visuale»: lo scriveva Walter Lippmann nei primi Anni 20, e la missione è sempre quella. La malattia non è solo italiana, sono tante le democrazie alle prese con un’informazione che fallisce la prova, che al cittadino non rende visibile l’invisibile, che dal potere politico si fa dettare l’agenda, le inquietudini, gli interessi prioritari. Che è vicina più ai potenti o alle lobby che ai lettori. Che alimenta il clima singolare che regna oggi nelle democrazie: come se vivessero un permanente stato di necessità - di guerra - dove per conformismo si sospendono autonomie, libertà di dire.
La grande stampa Usa si è fatta dettare l’agenda da Bush, per anni. La stampa francese per anni s’è dedicata ai temi prediletti da Sarkozy. Quel che ci rende originali non è dunque la malattia. È il fallire del sistema immunitario, che altrove generalmente funziona. Non sappiamo liberarci dalle patologie, dalle loro cellule.
Siamo immersi in esse con compiacimento, con il senso di potenza che dà l’ebbro sentirsi in branco: lo straordinario conformismo che disvelò Jean-François Revel (Pour l’Italie, 1958) non è scemato. In Italia c’è poca auto-stima ma anche poca analisi di sé. Un romanzo spietato come Madame Bovary è da noi impensabile. Quanto all’informazione, nulla che somigli alle autocritiche dei giornalisti Usa sull’Iraq, emerse quando Katrina travolse New Orleans.
L’informazione italiana non produce anticorpi atti a ristabilire un contatto con la società. Il risultato è palese, oggi, e lo storico Adriano Prosperi lo descrive con nitidezza: nel Palazzo «un venticello dolce di mutuo rispetto tra maggioranza e opposizione, un gusto della correttezza (...) un’aria di intesa e di pace». Fuori, intanto: una guerra tra poveri, e pogrom moltiplicati contro rom e diversi (la Repubblica, 16-5). Il guaio è che anche la stampa è Palazzo: incensa serenità politiche ritrovate e scopre, d’improvviso, una società inferocita da tempo, ormai indomabile dalla destra che l’ha sobillata.
L’enorme polemica suscitata da alcune affermazioni televisive del giornalista Marco Travaglio è sintomo di questa malattia, assieme alla violenza, impressionante, con cui alcuni si scagliano contro di lui (in primis un grande professionista d’inchieste giudiziarie come Giuseppe D’Avanzo). Il Paese traversa tifoni, e i giornalisti trovano il tempo di scannarsi a vicenda come fossero nell’ottocentesca Zattera della Medusa. Chi ha visto il quadro di Géricault, al Louvre, ricorderà la cupa zattera, dove pochi naufraghi pensarono di salvarsi a spese di altri. Su simile zattera sono oggi i giornalisti, mangiandosi vivi. L’istinto della muta è forte in tempi di necessità, di Ultimi Giorni dell’Umanità.
Ignoranza e mancanza di memoria sono tra i mali che impediscono di smettere il cannibalismo tra giornalisti e di suscitare un’opinione pubblica informata. Si ignora quel che succede nel Paese, e da quanto tempo. Il pogrom di Ponticelli non è un evento nuovo. Violenze di mute cittadine contro il capro espiatorio già sono avvenute il 2 novembre 2007, quando squadracce picchiarono i romeni dopo l’assassinio di Giovanna Reggiani. Già il 21-22 dicembre 2006 presidi cittadini incendiarono un campo nomadi a Opera presso Milano, approvati da un consigliere comunale leghista, Ettore Fusco, ora sindaco. E non erano violenze nate da niente, avevano anch’esse album di famiglia che chi ha memoria conosce: la tortura di manifestanti no-global a Genova nel 2001; gli sgomberi dei campi Rom attuati brutalmente dal Comune di Milano nel giugno 2005; le parole del presidente del Senato Pera contro i meticci nell’agosto 2005; le complicità del governo Berlusconi nel rapimento di Abu Omar e nella sua consegna ai torturatori egiziani.
Erano pogrom anche quelli del 2006-2007, e gli oppositori di allora non sapevano che a forza di aizzarli avrebbero suscitato i mostri che adesso, grazie all’allarme europeo, devono condannare. La perdita di memoria è stupefacente, ramificandosi s’espande. D’un tratto Berlusconi è «un’altra persona», al pari di suoi amici come Dell’Utri, Schifani. Non hanno dovuto fare ammenda: sono altre persone perché il conformismo fa letteralmente magie. Non si ricorda quel che è stato Berlusconi ancora ieri: come quotidianamente ha delegittimato Prodi, trascinando dietro di sé l’informazione. Di conflitto d’interesse non si parla più. Non si ricordano i trascorsi dei suoi uomini. I rapporti con la mafia o il vivere vicino a essa sono pur sempre una loro macchia. Travaglio ha avuto il cattivo gusto di non uniformarsi, di dirlo a Fabio Fazio su Rai3. Sta pagando per questo.
Fa parte del conformismo giornalistico il fascino per il potere (il vizio infantile descritto nel libro di Scalfari: non solo i buoni vincono ma chi vince è buono). E anche se il fascino esiste altrove, in Italia è diverso: proprio perché lo Stato è debole, la massima irriverenza verso le cariche repubblicane si mescola non di rado a riverenze esagerate (verso il presidente del Senato, anche verso il Capo dello Stato). L’usanza non esiste in regimi presidenziali come America e Francia.
Travaglio è un professionista che ha molto investigato, ma ve ne sono altri: Abbate che ha indagato su mafia e politica, o Peter Gomez, Gian Antonio Stella, Elio Veltri, Carlo Bonini, Francesco La Licata. Anche D’Avanzo è fra essi, e per il lettore non è chiaro perché si sia tanto accanito contro Travaglio, il cui carattere non è più spigoloso di altri astri giornalistici. Travaglio si è chiesto come mai un politico dal passato non specchiato sia presidente del Senato. Non è illegittimo. Ha violato il sacro della carica, ma la prossimità di Schifani alla mafia è già stata descritta da Lirio Abbate e Peter Gomez ne I Complici - in libreria dal marzo 2007 - senza che mai sia stata sporta querela. Berlusconi s’avvia a esser osannato allo stesso modo, metamorfizzandosi in tabù. L’antiberlusconismo non è più una normale presa di posizione politica; sta divenendo un insulto che disonora oppositori e giornalisti. Qui è l’altra originalità italiana. Nessuno si sognerebbe in America di accusare il New York Times o i democratici di anti-bushismo, nessuno in Francia denuncerebbe l’anti-sarkozismo di Libération o dei socialisti. Da noi lo spirito dell’orda è tale che ieri era indecente difendere Prodi, oggi è indecente attaccare Berlusconi.
Le precipitose scuse di Fabio Fazio non erano necessarie. Più appropriato è quello che ha detto dopo, su La Stampa del 13 maggio: «L’idea che si immagini sempre il complotto, la trama, fa pensare che non possa esistere la normalità; è come se non si riuscisse a concepire che in Italia c’è chi lavora autonomamente. Noi giornalisti non siamo dipendenti della politica. Semmai questo è un atteggiamento proprietario che ha la politica nei confronti dei cittadini». Che cos’è la normalità, per il giornalista? È non farsi intimidire, non lasciarsi manipolare dalla violenza con cui il presidente della Camera Fini giustifica, in aula, gli attacchi a Di Pietro («dipende da quel che dici»). È lavorare solo per i lettori: via maestra per fabbricarsi gli anticorpi che mancano.
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come ci chiamavano ( e ci chiamano)
Come ci chiamavano: i "nomignoli" degli immigrati italiani nel mondo
BABIS: rospi (Francia, fine Ottocento)
BACICHA: baciccia (Argentina, dal personaggio al centro della commedia e delle barzellette genovesi: allegro, divertente, sempliciotto ma capace anche di fare il furbetto)
BAT: pipistrello (diffuso in certe zone degli Stati Uniti alla fine dell'Ottocento e ripreso dal giornale "Harper's Weekiy" per spiegare come molti americani vedessero gli italiani "mezzi bianchi e mezzi negri")
BLACK DAGO: dago negro (Louisiana e stati confinanti, fine Ottocento, per sottolineare come più ancora degli altri dagoes - vedi definizione - gli italiani fossero simili ai negri)
BOLANDERSCHLUGGER: inghiotti-polenta (Basilea e Svìzzera tedesca)
CARCAMANO: furbone, quello che calca la mano sul peso della bilancia (diffusissimo in Brasile)
CHIANTI: ubriacone (Usa, con un riferimento al vino toscano che per gli americani rappresentava tutti i vini rossi italiani, chiamati dago red)
CHRISTOS: cristi (Francia, fine Ottocento: probabilmente perché i nostri erano visti come dei gran bestemmiatori)
CINCALI: cinquaioli (dialetto svizzero tedesco, dalla fine dell'Ottocento: cincali equivaleva a tschingge, dal suono che faceva alle orecchie elvetiche il grido cinq! lanciato dagli italiani quando giocavano alla morra , allora diffusissima. la variante calba cincali!, luridi cinquaioli, fu quella urlata dagli assassini di Attilio Tonol)
CRISPY: suddito di Crispi (Francia, seconda metà dell'Ottocento, dovuto a Francesco Crispi, disprezzato dai francesi, ma il gioco di parole era con grisbi, ladro
DAGO: è forse il più diffuso e insultante dei nomignoli ostili nei paesi anglosassoni, vale per tutti i latini ma soprattutto gli italiani e l'etimologia è varia. C'è chi dice venga da they go, finalmente se ne vanno. Chi da until the day goes (fin che il giorno se ne va), nel senso di «lavoratore a giornata». Chi da «diego», uno dei nomi più comuni tra spagnoli e rnessicani. Ma i più pensano che venga da dagger: coltello, accoltellatore, in linea con uno degli stereotipi più diffusi sull'italiano «popolo dello stiletto»
DING: suonatore di campanello, ma con un gioco di parole che richiama al dingo, il cane selvatico australiano (Australia)
FRANÇAIS DE CONI: francesi di Cuneo (Francia, fine Ottocento, con gli immigrati italiani che tentavano di spacciarsi per francesi)
GREASEBALL: palla di grasso o testa unta (per lo sporco più che per la brillantina, Usa)
GREEN HORNS: germogli (ultimi arrivati, matricole, sbarbine, Usa)
GUINEA: africani (Stati Uniti, soprattutto Louisiana, Alabama, Georgia, dove era più radicato il pregiudizio sulia «negritudine» degli italiani)
KATZELMACHER: fabbricacucchiai (Austria e Germania; nel senso di stagnaro, artigiano di poco conto ma anche «fabbricagattini» forse perché gli emigrati figliavano come gatti. Decenni di turismo tedesco in Italia hanno fatto sì che, negli ultimi anni, si sia aggiunto per assonanza un terzo significato che gioca con la parola italiana «cazzo»)
ITHAKER: giramondi senza patrìa, vagabondi come Ulisse (gioco di parole tra Italia e Itaca,Germania)
MACCHERONI, MACARONI, MACARRONE: mangia pasta (in tutto il mondo e tutte le lingue, con qualche variante)
MAFIA-MANN: mafioso (Germania)
MAISDIIGER: tigre di granturco (solo Basilea)
MAISER: polentone (Basilea, nel senso di uomo di mais)
MESSERHELDEN: eroi del coltello, guappi (Svizzera tedesca, dalla seconda metà dell'Ottocento)
MODOK: pellerossa (Nevada, metà Ottocento. Dal nome di una tribù di indiani d'Arnerica)
NAPOLITANO: napoletano (ma buono un po' per tutti gli ìtaliani in Argentina: in particolare dopo la «conquista dei deserto» dei 1870 in cui l'esercito argentino che massacrò tutti gli indios, aveva vivandieri in buona parte napoletani)
ORSO: in Francia, alla fine dell'Ottocento, con un preciso riferimento agli "orsanti", i mendicanti-circensi che giravano l'Europa partendo soprattutto dall'Appenníno parmense con cammelli, scimmie e orsi ammaestrati.
PAPOLITANO: storpiatura ironica di napoletano, valida per tutti i meridionali italiani (Argentina)
POLENTONE: polentone (così com'è in italiano, Baviera)
RITAL: italiano di Francia (spregiativo ma non troppo, era la contrazione di franco-italien e veniva usato per sottolineare come l'immigrato italiano oltralpe non riusciva neppure dopo molti anni a pronunciare correttamente la «r» francese. E' il punto di partenza di Pierre Milza, lo storico francese autore di Voyage in Ritalie)
SALAMETTISCHELLEDE: affetta salame (solo Basilea)
SPAGHETTIFRESSER: sbrana-spaghetti (mondo tedesco)
TANO: abbreviativo di «napolitano» e di «papolitano» (gioco di parole argentino intorno a napoletano)
TSCHINGGE: cinque (vedi cingali)
WALSH: variante tirolese di welsh (vedi)
WELSH: latino (nei paesi di lingua tedesca ha due significati: se accoppiato con Tirol in «Welsh-Tirol» per definire il Trentino vuol semplicemente dire «Tirolo italiano». Se viene usato da solo ha via via assunto un valore spregiativo, tipo italiota o terrone)
WOG: virus (gergale, in Australia, buono anche per cinesi e altri emigrati poco amati)
WOP: without passport o without papers (in America e nei paesi di lingua anglosassone significa «senza passaporto» o «senza documenti», ma la pronuncia uàp sì richiama a «guappo»)
ZYDROONESCHITTLER: scrolla-limoni (Basilea e dintorni, con un rimando a Wolfgang Goethe e alla celeberrima poesia che ha stimolato la «Sehnsucht», la nostalgia, di tanti artisti tedeschi verso l'Italia.
Conosci tu il paese dove fioriscono i limoni?
Nel verde fogliame splendono arance d'oro
Un vento lieve spira dal cielo azzurro
Tranquillo è il mirto, sereno l'alloro
lo conosci tu bene?
Laggiù, laggiù
Vorrei con te, o mio amato, andare!
Un amore struggente, adagiato dolcissimo nella memoria. Ma che, al ritorno del grande scrittore nel suo secondo viaggio, sarebbe subito entrato in conflitto con le solite cose.
L'Italia è ancora come la lasciai,
ancora polvere sulle strade,
ancora truffe al forestiero,
si presenti come vuole
Onestà tedesca ovunque cercherai invano,
c'è vita e animazione qui, ma non ordine e disciplina;
ognuno pensa per sé, è vano,
dell'altro diffida,
e i capi dello stato, pure loro,
pensano solo per sé ...
(fonte: Siamo tutti emigranti - Gian Antonio Stella)
BABIS: rospi (Francia, fine Ottocento)
BACICHA: baciccia (Argentina, dal personaggio al centro della commedia e delle barzellette genovesi: allegro, divertente, sempliciotto ma capace anche di fare il furbetto)
BAT: pipistrello (diffuso in certe zone degli Stati Uniti alla fine dell'Ottocento e ripreso dal giornale "Harper's Weekiy" per spiegare come molti americani vedessero gli italiani "mezzi bianchi e mezzi negri")
BLACK DAGO: dago negro (Louisiana e stati confinanti, fine Ottocento, per sottolineare come più ancora degli altri dagoes - vedi definizione - gli italiani fossero simili ai negri)
BOLANDERSCHLUGGER: inghiotti-polenta (Basilea e Svìzzera tedesca)
CARCAMANO: furbone, quello che calca la mano sul peso della bilancia (diffusissimo in Brasile)
CHIANTI: ubriacone (Usa, con un riferimento al vino toscano che per gli americani rappresentava tutti i vini rossi italiani, chiamati dago red)
CHRISTOS: cristi (Francia, fine Ottocento: probabilmente perché i nostri erano visti come dei gran bestemmiatori)
CINCALI: cinquaioli (dialetto svizzero tedesco, dalla fine dell'Ottocento: cincali equivaleva a tschingge, dal suono che faceva alle orecchie elvetiche il grido cinq! lanciato dagli italiani quando giocavano alla morra , allora diffusissima. la variante calba cincali!, luridi cinquaioli, fu quella urlata dagli assassini di Attilio Tonol)
CRISPY: suddito di Crispi (Francia, seconda metà dell'Ottocento, dovuto a Francesco Crispi, disprezzato dai francesi, ma il gioco di parole era con grisbi, ladro
DAGO: è forse il più diffuso e insultante dei nomignoli ostili nei paesi anglosassoni, vale per tutti i latini ma soprattutto gli italiani e l'etimologia è varia. C'è chi dice venga da they go, finalmente se ne vanno. Chi da until the day goes (fin che il giorno se ne va), nel senso di «lavoratore a giornata». Chi da «diego», uno dei nomi più comuni tra spagnoli e rnessicani. Ma i più pensano che venga da dagger: coltello, accoltellatore, in linea con uno degli stereotipi più diffusi sull'italiano «popolo dello stiletto»
DING: suonatore di campanello, ma con un gioco di parole che richiama al dingo, il cane selvatico australiano (Australia)
FRANÇAIS DE CONI: francesi di Cuneo (Francia, fine Ottocento, con gli immigrati italiani che tentavano di spacciarsi per francesi)
GREASEBALL: palla di grasso o testa unta (per lo sporco più che per la brillantina, Usa)
GREEN HORNS: germogli (ultimi arrivati, matricole, sbarbine, Usa)
GUINEA: africani (Stati Uniti, soprattutto Louisiana, Alabama, Georgia, dove era più radicato il pregiudizio sulia «negritudine» degli italiani)
KATZELMACHER: fabbricacucchiai (Austria e Germania; nel senso di stagnaro, artigiano di poco conto ma anche «fabbricagattini» forse perché gli emigrati figliavano come gatti. Decenni di turismo tedesco in Italia hanno fatto sì che, negli ultimi anni, si sia aggiunto per assonanza un terzo significato che gioca con la parola italiana «cazzo»)
ITHAKER: giramondi senza patrìa, vagabondi come Ulisse (gioco di parole tra Italia e Itaca,Germania)
MACCHERONI, MACARONI, MACARRONE: mangia pasta (in tutto il mondo e tutte le lingue, con qualche variante)
MAFIA-MANN: mafioso (Germania)
MAISDIIGER: tigre di granturco (solo Basilea)
MAISER: polentone (Basilea, nel senso di uomo di mais)
MESSERHELDEN: eroi del coltello, guappi (Svizzera tedesca, dalla seconda metà dell'Ottocento)
MODOK: pellerossa (Nevada, metà Ottocento. Dal nome di una tribù di indiani d'Arnerica)
NAPOLITANO: napoletano (ma buono un po' per tutti gli ìtaliani in Argentina: in particolare dopo la «conquista dei deserto» dei 1870 in cui l'esercito argentino che massacrò tutti gli indios, aveva vivandieri in buona parte napoletani)
ORSO: in Francia, alla fine dell'Ottocento, con un preciso riferimento agli "orsanti", i mendicanti-circensi che giravano l'Europa partendo soprattutto dall'Appenníno parmense con cammelli, scimmie e orsi ammaestrati.
PAPOLITANO: storpiatura ironica di napoletano, valida per tutti i meridionali italiani (Argentina)
POLENTONE: polentone (così com'è in italiano, Baviera)
RITAL: italiano di Francia (spregiativo ma non troppo, era la contrazione di franco-italien e veniva usato per sottolineare come l'immigrato italiano oltralpe non riusciva neppure dopo molti anni a pronunciare correttamente la «r» francese. E' il punto di partenza di Pierre Milza, lo storico francese autore di Voyage in Ritalie)
SALAMETTISCHELLEDE: affetta salame (solo Basilea)
SPAGHETTIFRESSER: sbrana-spaghetti (mondo tedesco)
TANO: abbreviativo di «napolitano» e di «papolitano» (gioco di parole argentino intorno a napoletano)
TSCHINGGE: cinque (vedi cingali)
WALSH: variante tirolese di welsh (vedi)
WELSH: latino (nei paesi di lingua tedesca ha due significati: se accoppiato con Tirol in «Welsh-Tirol» per definire il Trentino vuol semplicemente dire «Tirolo italiano». Se viene usato da solo ha via via assunto un valore spregiativo, tipo italiota o terrone)
WOG: virus (gergale, in Australia, buono anche per cinesi e altri emigrati poco amati)
WOP: without passport o without papers (in America e nei paesi di lingua anglosassone significa «senza passaporto» o «senza documenti», ma la pronuncia uàp sì richiama a «guappo»)
ZYDROONESCHITTLER: scrolla-limoni (Basilea e dintorni, con un rimando a Wolfgang Goethe e alla celeberrima poesia che ha stimolato la «Sehnsucht», la nostalgia, di tanti artisti tedeschi verso l'Italia.
Conosci tu il paese dove fioriscono i limoni?
Nel verde fogliame splendono arance d'oro
Un vento lieve spira dal cielo azzurro
Tranquillo è il mirto, sereno l'alloro
lo conosci tu bene?
Laggiù, laggiù
Vorrei con te, o mio amato, andare!
Un amore struggente, adagiato dolcissimo nella memoria. Ma che, al ritorno del grande scrittore nel suo secondo viaggio, sarebbe subito entrato in conflitto con le solite cose.
L'Italia è ancora come la lasciai,
ancora polvere sulle strade,
ancora truffe al forestiero,
si presenti come vuole
Onestà tedesca ovunque cercherai invano,
c'è vita e animazione qui, ma non ordine e disciplina;
ognuno pensa per sé, è vano,
dell'altro diffida,
e i capi dello stato, pure loro,
pensano solo per sé ...
(fonte: Siamo tutti emigranti - Gian Antonio Stella)
lettera dalla Cina con mia risposta
lettera dalla Cina con mia risposta
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http://www.corriere.it/romano/08-05-18/04.spm
Caro signore,
Non si offende se le dico che ho piacere che qualche italiano faccia l'esperienza di sentirsi respinto che è quella che noi infliggiamo, anche con le molotov, a tante persone colpevoli soltanto di avere bisogno di lavorare
Pietro Ancona
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http://www.corriere.it/romano/08-05-18/04.spm
Caro signore,
Non si offende se le dico che ho piacere che qualche italiano faccia l'esperienza di sentirsi respinto che è quella che noi infliggiamo, anche con le molotov, a tante persone colpevoli soltanto di avere bisogno di lavorare
Pietro Ancona
lettera al Presidente della Provincia di Milano
Caro Presidente,
lei nega welfare ai nostri fratelli rom. Lei sbaglia. Tutti abbiamo il dovere di prenderci cura di un popolo nomade che ha pagato duramente con il suo Olocausto al nazismo
il suo tributo alla discriminazione ed al razzismo.
Lei è immemore degli insegnamenti ricevuti dal Partito Comunista internazionalista
e umanitario-
Lei campa lautamente a spese dei contribuenti italiani, ha sempre fatto questa vita essendo stato prima funzionario di Partito, presiede un organismo che costa miliardi e molti considerano del tutto inutile e clientelare e reagisce animalescamente ad un problema di civiltà quale è l'integrazione dei ROM-
Non tiene neppure in conto del fatto che se tanti rom sono in Italia è conseguenza delle bombe sganciate dal suo amico D'Alema su Belgrado e sulla Jugoslavia.
Si goda il suo lauto stipendio di POLITICO a tempo pieno pagato dalla collettività
Parte di una Casta che vuole per se soltanto tutte le risorse.
Pietro Ancona
lei nega welfare ai nostri fratelli rom. Lei sbaglia. Tutti abbiamo il dovere di prenderci cura di un popolo nomade che ha pagato duramente con il suo Olocausto al nazismo
il suo tributo alla discriminazione ed al razzismo.
Lei è immemore degli insegnamenti ricevuti dal Partito Comunista internazionalista
e umanitario-
Lei campa lautamente a spese dei contribuenti italiani, ha sempre fatto questa vita essendo stato prima funzionario di Partito, presiede un organismo che costa miliardi e molti considerano del tutto inutile e clientelare e reagisce animalescamente ad un problema di civiltà quale è l'integrazione dei ROM-
Non tiene neppure in conto del fatto che se tanti rom sono in Italia è conseguenza delle bombe sganciate dal suo amico D'Alema su Belgrado e sulla Jugoslavia.
Si goda il suo lauto stipendio di POLITICO a tempo pieno pagato dalla collettività
Parte di una Casta che vuole per se soltanto tutte le risorse.
Pietro Ancona
sabato 17 maggio 2008
lettera a Marco Rizzo
leggo che i deputati radicali collaborano con la deputata eu rom nell'inchiesta sullo orribile inferno dei rom in Italia.
Come mai voi non vi fate sentire?
Che fanno i deputati della sinistra arcobaleno al Parlamento Europeo?
Quando si perde la fiducia della gente c'è sempre una ragione.
Pietro
CRONACA
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Viktoria Mohacsi, deputata ungherese a Strasburgo ha visitato
i campi romani del Casilino. "Una situazione orribile"
Nomadi, la parlamentare Rom
"Attenta Italia, c'è un brutto clima"
"Questa gente ha paura. Vivono in Italia da decenni senza nessun riconoscimento"
"Arrestate e tenete in galera chi commette crimini, ma evitate la confusione"
di CLAUDIA FUSANI
L'on. Victoria Mohacsi
ROMA - "Attenzione, c'è un bruttissimo clima. Ricordiamoci cosa è successo negli anni trenta in Europa. La mia relazione al Parlamento europeo su quello che ho visto in Italia racconterà di questo clima. E sarà molto dura". Trentatré anni, minuta, faccia da gitana è proprio il caso di dire, sguardo intenso, anche un po' triste. Si chiama Viktoria Mohacsi, è rom di origine ungherese e dal 2004 è eurodeputato dell'Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l'Europa (Eldr). Da quattro anni, con un'altra eurodeputata di origine rom però rumena, ha l'incarico di monitorare le condizioni di vita dei 150 mila gipsy che vivono in Europa. E' la prova, semmai ce ne fosse bisogno, che è troppo facile e altrettanto sbagliato dire rom quindi zingaro quindi criminale.
Con l'aria che tira in Italia - pacchetti sicurezza, annunci di misure straordinarie, esplusioni di massa, limitazione dello spazio di libera circolazione Schengen, ronde contro gli zingari e molotov contro le baracche - Mohacsi è stata spedita qui da Annemie Neyts-Uytteboeck, leader dell'Eldr di cui fanno parte anche i radicali. L'eurodeputata infatti è accompagnata nella sua visita nella paura rom dal segretario dei radicali Rita Bernardini e dai deputati Marco Beltrandi e Maurizio Turco, eletti nelle liste del Pd. Mohacsi ha visitato il campo nomadi di Castel Romano e nel pomeriggio "Casilino 900", ammucchiata di lamiere lungo la via Casilina di cui anche Francesco Rutelli, in campagna elettorale, aveva annunciato lo smantellamento. Portare le ruspe in quel campo è uno dei primi obiettivi del sindaco Alemanno.
Domani Mohacsi andrà a Napoli "dove mi dicono che la situazione sia peggiore che altrove" e poi lunedì pomeriggio farà il suo rapporto al Parlamento europeo sullo status dei rom in Italia. Viktoria Mohacsi parla un perfetto inglese ma porta con sé un interprete, un giovane di Timisoara. Nei due campi visitati oggi non ci sono stati nei giorni scorsi nè blitz di vigili né pattuglioni delle forze dell'ordine. Sono più o meno legali, se non autorizzati almeno riconosciuti, e ci vivono circa mille e quattrocento persone. "Sono venuta qui - dice Mohacsi - soprattutto per vedere e ascoltare".
In quali condizioni ha trovati i campi?
"Ho visto più di mille persone che vivono in condizioni orribili. Soprattutto nel secondo campo (Casilino 900 ndr) non sono garantite le minime condizioni di igiene e di sicurezza. Non c'è acqua, non c'è corrente elettrica, le persone vivono in baracche fatiscenti, umide, sporche, tutto è assolutamente precario. Sono negati i diritti umani e civili basilari come l'assistenza sanitaria e l'accesso alle scuole. Non esiste nulla di simile negli altri paesi europei".
Cosa le hanno raccontato i rom che vivono in questi campi?
"Hanno paura, molta paura. Sono diffidenti. Anche quando siamo arrivati noi, lì per lì hanno mostrato diffidenza. Si tratta di persone che vivono in Italia da oltre vent'anni, per lo più di origine bosniaca, eppure non hanno documenti e nessun tipo di diritto riconosciuto. Mi è stato riferito che da un paio di mesi sta accadendo qualcosa che non era mai successo prima: almeno due rom sono stati presi dalla polizia, picchiati, portati in cella due giorni e poi rilasciati".
Saranno stati responsabili di qualche reato.
"No, non sono stati accusati di nulla. Semplicemente la polizia è venuta, li ha presi e li ha picchiati. A Castel Romano mi hanno raccontato che di notte girano gruppi di italiani armati di coltello e di pistole e bombe molotov, e così gli uomini del campo si sono organizzati per fare le ronde, tutta la notte fino all'alba".
Quali nazionalità vivono in questi campi?
"Per lo più bosniaci, kosovari, slavi, gente che è qui da decenni. E, ripeto, non hanno ancora un documento di identità o per l'accesso al servizio sanitario".
L'etnia rom conta numerose nazionalità, compresa quella italiana. E quella rumena, sicuramente la comunità più numerosa. E poi ci sono i rumeni e basta, che non c'entrano nulla con i rom. Crede che sia stata fatta un po' di confusione?
"Un po'? E' stata fatta molta confusione. Troppa. Qui ora sono gli zingari sono tutti rumeni e comunque sono tutti criminali. Non è così. La responsabilità della politica è proprio questa: aver semplificato il messaggio. Non è affatto positivo per un partito come quello che ha vinto le elezioni in Italia che la campagna elettorale si sia basata soprattutto sul sentimento antirom. Questa non è politica. Crea solo risentimento, incita all'odio, a sparare nel mucchio".
Dopo Roma, andrà a Napoli dove la situazione è, se possibile, ancora peggiore. Saprà, ad esempio, che pochi giorni fa una donna rom è entrata in una casa e ha cercato di portare via un neonato. E che ci sono state le ronde contro i campi. Quale la soluzione?
"Io credo e ho fiducia nella democrazia e nei diritti. In questo ambito va trovata la soluzione. Quindi le regole devono essere rispettate da tutti e chi sbaglia deve pagare. Chi commette un crimine deve essere arrestato. La giustizia italiana deve arrestare chi delinque e tenerlo in carcere. Questa è democrazia. Chi sbaglia paga. Non si può mescolare tutto".
Dirà questo nella sua relazione al Parlamento europeo?
"Anche. Non solo".
(17 maggio 2008)
Come mai voi non vi fate sentire?
Che fanno i deputati della sinistra arcobaleno al Parlamento Europeo?
Quando si perde la fiducia della gente c'è sempre una ragione.
Pietro
CRONACA
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Viktoria Mohacsi, deputata ungherese a Strasburgo ha visitato
i campi romani del Casilino. "Una situazione orribile"
Nomadi, la parlamentare Rom
"Attenta Italia, c'è un brutto clima"
"Questa gente ha paura. Vivono in Italia da decenni senza nessun riconoscimento"
"Arrestate e tenete in galera chi commette crimini, ma evitate la confusione"
di CLAUDIA FUSANI
L'on. Victoria Mohacsi
ROMA - "Attenzione, c'è un bruttissimo clima. Ricordiamoci cosa è successo negli anni trenta in Europa. La mia relazione al Parlamento europeo su quello che ho visto in Italia racconterà di questo clima. E sarà molto dura". Trentatré anni, minuta, faccia da gitana è proprio il caso di dire, sguardo intenso, anche un po' triste. Si chiama Viktoria Mohacsi, è rom di origine ungherese e dal 2004 è eurodeputato dell'Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l'Europa (Eldr). Da quattro anni, con un'altra eurodeputata di origine rom però rumena, ha l'incarico di monitorare le condizioni di vita dei 150 mila gipsy che vivono in Europa. E' la prova, semmai ce ne fosse bisogno, che è troppo facile e altrettanto sbagliato dire rom quindi zingaro quindi criminale.
Con l'aria che tira in Italia - pacchetti sicurezza, annunci di misure straordinarie, esplusioni di massa, limitazione dello spazio di libera circolazione Schengen, ronde contro gli zingari e molotov contro le baracche - Mohacsi è stata spedita qui da Annemie Neyts-Uytteboeck, leader dell'Eldr di cui fanno parte anche i radicali. L'eurodeputata infatti è accompagnata nella sua visita nella paura rom dal segretario dei radicali Rita Bernardini e dai deputati Marco Beltrandi e Maurizio Turco, eletti nelle liste del Pd. Mohacsi ha visitato il campo nomadi di Castel Romano e nel pomeriggio "Casilino 900", ammucchiata di lamiere lungo la via Casilina di cui anche Francesco Rutelli, in campagna elettorale, aveva annunciato lo smantellamento. Portare le ruspe in quel campo è uno dei primi obiettivi del sindaco Alemanno.
Domani Mohacsi andrà a Napoli "dove mi dicono che la situazione sia peggiore che altrove" e poi lunedì pomeriggio farà il suo rapporto al Parlamento europeo sullo status dei rom in Italia. Viktoria Mohacsi parla un perfetto inglese ma porta con sé un interprete, un giovane di Timisoara. Nei due campi visitati oggi non ci sono stati nei giorni scorsi nè blitz di vigili né pattuglioni delle forze dell'ordine. Sono più o meno legali, se non autorizzati almeno riconosciuti, e ci vivono circa mille e quattrocento persone. "Sono venuta qui - dice Mohacsi - soprattutto per vedere e ascoltare".
In quali condizioni ha trovati i campi?
"Ho visto più di mille persone che vivono in condizioni orribili. Soprattutto nel secondo campo (Casilino 900 ndr) non sono garantite le minime condizioni di igiene e di sicurezza. Non c'è acqua, non c'è corrente elettrica, le persone vivono in baracche fatiscenti, umide, sporche, tutto è assolutamente precario. Sono negati i diritti umani e civili basilari come l'assistenza sanitaria e l'accesso alle scuole. Non esiste nulla di simile negli altri paesi europei".
Cosa le hanno raccontato i rom che vivono in questi campi?
"Hanno paura, molta paura. Sono diffidenti. Anche quando siamo arrivati noi, lì per lì hanno mostrato diffidenza. Si tratta di persone che vivono in Italia da oltre vent'anni, per lo più di origine bosniaca, eppure non hanno documenti e nessun tipo di diritto riconosciuto. Mi è stato riferito che da un paio di mesi sta accadendo qualcosa che non era mai successo prima: almeno due rom sono stati presi dalla polizia, picchiati, portati in cella due giorni e poi rilasciati".
Saranno stati responsabili di qualche reato.
"No, non sono stati accusati di nulla. Semplicemente la polizia è venuta, li ha presi e li ha picchiati. A Castel Romano mi hanno raccontato che di notte girano gruppi di italiani armati di coltello e di pistole e bombe molotov, e così gli uomini del campo si sono organizzati per fare le ronde, tutta la notte fino all'alba".
Quali nazionalità vivono in questi campi?
"Per lo più bosniaci, kosovari, slavi, gente che è qui da decenni. E, ripeto, non hanno ancora un documento di identità o per l'accesso al servizio sanitario".
L'etnia rom conta numerose nazionalità, compresa quella italiana. E quella rumena, sicuramente la comunità più numerosa. E poi ci sono i rumeni e basta, che non c'entrano nulla con i rom. Crede che sia stata fatta un po' di confusione?
"Un po'? E' stata fatta molta confusione. Troppa. Qui ora sono gli zingari sono tutti rumeni e comunque sono tutti criminali. Non è così. La responsabilità della politica è proprio questa: aver semplificato il messaggio. Non è affatto positivo per un partito come quello che ha vinto le elezioni in Italia che la campagna elettorale si sia basata soprattutto sul sentimento antirom. Questa non è politica. Crea solo risentimento, incita all'odio, a sparare nel mucchio".
Dopo Roma, andrà a Napoli dove la situazione è, se possibile, ancora peggiore. Saprà, ad esempio, che pochi giorni fa una donna rom è entrata in una casa e ha cercato di portare via un neonato. E che ci sono state le ronde contro i campi. Quale la soluzione?
"Io credo e ho fiducia nella democrazia e nei diritti. In questo ambito va trovata la soluzione. Quindi le regole devono essere rispettate da tutti e chi sbaglia deve pagare. Chi commette un crimine deve essere arrestato. La giustizia italiana deve arrestare chi delinque e tenerlo in carcere. Questa è democrazia. Chi sbaglia paga. Non si può mescolare tutto".
Dirà questo nella sua relazione al Parlamento europeo?
"Anche. Non solo".
(17 maggio 2008)
pacchetto sicurezza
crimine non si combatte con l'inasprimento delle pene. Gli USa
insegnano: hanno la pena di morte ed un codice penale che, compiuti
tre crimini anche se di scarsa importanza, si può essere condannati
all'ergastolo eppure
il numero di omicidi degli Usa è il più alto del mondo addirittura
spaventoso se confrontato agli omicidi commessi in Italia ( e dire
che abbiamo tre organizzazioni criminali di prima grandezza). Hanno
una pop0olazione carceraria sterminata pari a tre milioni di
individui. Un americano su cento trascorre parte della sua vita in
galera.
Il crimine di combatte con le opere di bonifica sociale e con una
legislazione dolce umana e rigorosa. Le pene debbono essere
accettate dal punito come giuste altrimenti fomentano nuovi odi
Se bombardiamo l'Irak dobbiamo aspettarci un'ondata immigratoria di
irakeni verso l'Europa. Non possiamo avere la botte ppiena e la
moglie ubriaca. Bagdad sotto le bombe dell'occidente e le capitali
europee senza mendicanti o poveri sfollati dall'Irak.
Alla base del crimine e di quanto può accadere di brutto nella
immigrazione c'è sempre un torto enorme commesso dell'Occidente!!!
insegnano: hanno la pena di morte ed un codice penale che, compiuti
tre crimini anche se di scarsa importanza, si può essere condannati
all'ergastolo eppure
il numero di omicidi degli Usa è il più alto del mondo addirittura
spaventoso se confrontato agli omicidi commessi in Italia ( e dire
che abbiamo tre organizzazioni criminali di prima grandezza). Hanno
una pop0olazione carceraria sterminata pari a tre milioni di
individui. Un americano su cento trascorre parte della sua vita in
galera.
Il crimine di combatte con le opere di bonifica sociale e con una
legislazione dolce umana e rigorosa. Le pene debbono essere
accettate dal punito come giuste altrimenti fomentano nuovi odi
Se bombardiamo l'Irak dobbiamo aspettarci un'ondata immigratoria di
irakeni verso l'Europa. Non possiamo avere la botte ppiena e la
moglie ubriaca. Bagdad sotto le bombe dell'occidente e le capitali
europee senza mendicanti o poveri sfollati dall'Irak.
Alla base del crimine e di quanto può accadere di brutto nella
immigrazione c'è sempre un torto enorme commesso dell'Occidente!!!
l'otto per mille. Corriere 17 maggio 2008
La lettera del giorno |Sabato 17 Maggio 2008
ANCORA SULL'8 PER MILLE CARITÀ E AIUTI DI STATO
L'8 per mille viene assegnato calcolando l'intera massa dei contribuenti nonostante l'80 per cento degli stessi non si esprima mai sulla sua destinazione. La Chiesa cattolica e gli altri beneficiari si appropriano proporzionalmente di tutta la massa nonostante la piccola quantità assolutamente minoritaria delle indicazioni esplicite. Se la percentuale della Chiesa cattolica è il 70 per cento del 20 per cento dei contribuenti, diventa automaticamente il 70 per cento di tutti i contribuenti.
Inoltre l'uso dell'8 per mille viene comunicato dalla Chiesa.
Non esiste alcuna certificazione di una società di certificazione o di un organismo di controllo pur trattandosi di somme enormi (miliardi di euro).
Pietro Ancona , pietroancona@tin.it
Avevo promesso che sarei ritornato sull'argomento e la sua lettera me ne offre l'occasione. Premetto che i suoi dati non sono del tutto esatti. La ripartizione delle somme fra i beneficiari dell'8 per mille avviene con il ritardo di alcuni anni, ma la Conferenza episcopale può contare ogni anno su una somma «a valere sull'anticipo dell'8 per mille Irpef», che è stata per i redditi del 2006, salvo errore, di 929.942.977,17 euro. La somma è stata così ripartita: 335.932.000 euro per il sostentamento del clero, 399.010.977,17 per le esigenze di culto della popolazione, 195.000.000 per gli interventi caritativi in Italia e nel Terzo mondo. È stato osservato criticamente che la percentuale della somma destinata al Terzo mondo è relativamente modesta e che gran parte del denaro rimane in Italia. Ma è comprensibile, a mio avviso, che la Cei pensi anzitutto alle esigenze della Chiesa italiana e alla sua missione nel Paese della propria «giurisdizione». Suppongo che le altre conferenze episcopali utilizzino le somme di cui dispongono con gli stessi criteri. Aggiungo che personalmente non ho alcun dubbio sul modo in cui la Cei, complessivamente, utilizza il denaro. Credo che i suoi sacerdoti e le sue opere facciano un buon lavoro soprattutto sul piano assistenziale.
Il vero problema, su cui è permesso avere qualche dubbio, è il criterio di ripartizione del contributo che lo Stato italiano ha deciso di applicare. Gli italiani che indicano espressamente il beneficiario dell'8 per mille rappresentano una percentuale che è stata in questi anni, secondo l'Agenzia delle entrate, di poco superiore al 40% del totale dei contribuenti. Fra questi la maggioranza (quasi il 90%) sceglie la Chiesa cattolica, mentre gli altri preferiscono indicare nell'ordine lo Stato, la Chiesa evangelica valdese, l'Unione delle comunità ebraiche italiane, la Chiesa evangelica luterana, le Assemblee di Dio, l'Unione italiana delle chiese cristiane avventiste. La logica vorrebbe che la Cei ricevesse il 90% dell'8 per mille prelevato sui redditi di coloro che hanno fatto una scelta. Ma lo Stato italiano ha deciso di applicare la percentuale di ripartizione anche a coloro che non hanno scelto. È un criterio generoso da cui traggono vantaggio anche i beneficiari minori. Ma in un Paese dove la grande maggioranza è cattolica, è la Chiesa, naturalmente, che riceve il beneficio maggiore.
Non è tutto. In altri Paesi (la Germania per esempio) lo Stato è soltanto un ufficiale pagatore. Chiede ai suoi contribuenti se intendono destinare volontariamente una percentuale dei loro redditi alla Chiesa di cui sono fedeli e trasferisce la somma al destinatario. In Italia invece l'8 per mille è sottratto al gettito fiscale: una formula che è considerata da qualcuno un «aiuto di Stato» e che molti considerano incompatibile con le caratteristiche di uno Stato laico.
Sabato 17 Maggio 2008
ANCORA SULL'8 PER MILLE CARITÀ E AIUTI DI STATO
L'8 per mille viene assegnato calcolando l'intera massa dei contribuenti nonostante l'80 per cento degli stessi non si esprima mai sulla sua destinazione. La Chiesa cattolica e gli altri beneficiari si appropriano proporzionalmente di tutta la massa nonostante la piccola quantità assolutamente minoritaria delle indicazioni esplicite. Se la percentuale della Chiesa cattolica è il 70 per cento del 20 per cento dei contribuenti, diventa automaticamente il 70 per cento di tutti i contribuenti.
Inoltre l'uso dell'8 per mille viene comunicato dalla Chiesa.
Non esiste alcuna certificazione di una società di certificazione o di un organismo di controllo pur trattandosi di somme enormi (miliardi di euro).
Pietro Ancona , pietroancona@tin.it
Avevo promesso che sarei ritornato sull'argomento e la sua lettera me ne offre l'occasione. Premetto che i suoi dati non sono del tutto esatti. La ripartizione delle somme fra i beneficiari dell'8 per mille avviene con il ritardo di alcuni anni, ma la Conferenza episcopale può contare ogni anno su una somma «a valere sull'anticipo dell'8 per mille Irpef», che è stata per i redditi del 2006, salvo errore, di 929.942.977,17 euro. La somma è stata così ripartita: 335.932.000 euro per il sostentamento del clero, 399.010.977,17 per le esigenze di culto della popolazione, 195.000.000 per gli interventi caritativi in Italia e nel Terzo mondo. È stato osservato criticamente che la percentuale della somma destinata al Terzo mondo è relativamente modesta e che gran parte del denaro rimane in Italia. Ma è comprensibile, a mio avviso, che la Cei pensi anzitutto alle esigenze della Chiesa italiana e alla sua missione nel Paese della propria «giurisdizione». Suppongo che le altre conferenze episcopali utilizzino le somme di cui dispongono con gli stessi criteri. Aggiungo che personalmente non ho alcun dubbio sul modo in cui la Cei, complessivamente, utilizza il denaro. Credo che i suoi sacerdoti e le sue opere facciano un buon lavoro soprattutto sul piano assistenziale.
Il vero problema, su cui è permesso avere qualche dubbio, è il criterio di ripartizione del contributo che lo Stato italiano ha deciso di applicare. Gli italiani che indicano espressamente il beneficiario dell'8 per mille rappresentano una percentuale che è stata in questi anni, secondo l'Agenzia delle entrate, di poco superiore al 40% del totale dei contribuenti. Fra questi la maggioranza (quasi il 90%) sceglie la Chiesa cattolica, mentre gli altri preferiscono indicare nell'ordine lo Stato, la Chiesa evangelica valdese, l'Unione delle comunità ebraiche italiane, la Chiesa evangelica luterana, le Assemblee di Dio, l'Unione italiana delle chiese cristiane avventiste. La logica vorrebbe che la Cei ricevesse il 90% dell'8 per mille prelevato sui redditi di coloro che hanno fatto una scelta. Ma lo Stato italiano ha deciso di applicare la percentuale di ripartizione anche a coloro che non hanno scelto. È un criterio generoso da cui traggono vantaggio anche i beneficiari minori. Ma in un Paese dove la grande maggioranza è cattolica, è la Chiesa, naturalmente, che riceve il beneficio maggiore.
Non è tutto. In altri Paesi (la Germania per esempio) lo Stato è soltanto un ufficiale pagatore. Chiede ai suoi contribuenti se intendono destinare volontariamente una percentuale dei loro redditi alla Chiesa di cui sono fedeli e trasferisce la somma al destinatario. In Italia invece l'8 per mille è sottratto al gettito fiscale: una formula che è considerata da qualcuno un «aiuto di Stato» e che molti considerano incompatibile con le caratteristiche di uno Stato laico.
Sabato 17 Maggio 2008
giovedì 15 maggio 2008
popolo martire ancora perseguitato
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Diritti Umani : La popolazione Rom e la "Soluzione finale"
Inviato da Pablo su 27/1/2005 11:55:28 (249 letture)
Praga, 27 Gennaio 2005. Quella dei rom, comunemente chiamati zingari, è stata l’unica altra popolazione, insieme agli ebrei, ad essere obbiettivo di uno sterminio su basi razziali programmato nella logica della “Soluzione Finale” del Nazismo. La storia dell’olocausto rom, “Porrajmos” secondo la lingua zingara, è forse una delle pagine della seconda guerra mondiale meno conosciute ed analizzate.
Su una popolazione che, secondo il censo molto approssimativo del 1939 del partito nazista, contava circa 2 milioni di individui, sparsi in 11 paesi d’Europa, ne furono sterminati almeno 500 mila.
La particolarità della cultura rom rende le cifre molto imprecise: si tratta di una popolazione nomade, largamente analfabeta, conservatrice di una tradizione orale trasmessa da padre a figlio. Da qui la mancanza di fonti scritte dirette, di testimonianze difficilmente reperibili. C’è anche da aggiungere che il Porrajmos fu organizzato in maniera molto meno organizzata e meticolosa rispetto all’olocausto ebraico, per cui anche da parte nazista non abbiamo quel gran numero di fonti, documenti e informazioni che invece ci hanno permesso di ricostruire la tragedia ebrea.
Il fatto che i rom siano degli stranieri, comunque e ovunque, che fossero alieni ed estranei in qualsiasi luogo si muovano, ha permesso la forte crescita del pregiudizio nei loro confronti, che è duro a morire anche nei nostri giorni.
Arrivati dalla lontana India in Europa nel lontano XIV secolo (secondo altre fonti anche prima), non cristiani, scuri di carnagione, senza terra ne nazione, fortemente indipendenti e orgogliosi della propria cultura, senza mai una vera volontà di integrazione, nella loro forte idea di mantenere una distanza tra rom e “gadjé” (non rom), si scontrarono subito con il pregiudizio di una cultura europea troppo diversa dalla loro.
Gli zingari tedeschi chiamano se stessi Sinti. In Germania, come un po’ in tutta l’Europa centro-orientale, le persecuzioni iniziano ben prima del periodo nazista: già nel 1721 l’imperatore Carlo IV ordinò lo sterminio dei rom, con una legge che depenalizzava l’assassinio di uno zingaro. Nel XIX secolo “studiosi” tedeschi definivano zingari ed ebrei come razza inferiore e “escremento dell’umanità”. Una ricerca sulla popolazione nomade in Germania del 1905 condotta dallo studioso tedesco Alfred Dillmann stabiliva che i rom erano una “piaga” e una “minaccia” e che la Germania doveva difendersi da essa, evitando una possibile e pericolosa commistione tra le due razze.
Durante gli anni ’20, in piena e democratica Repubblica di Weimar, ai rom era già proibito di entrare nei parchi e di usare i bagni pubblici. Una pubblicazione di quegli anni di Karl Binding e Alfred Hoche riprendeva una definizione coniata 60 anni prima da Richard Liebich che definiva i rom “non meritevoli di vivere” e classificati sotto la categoria dei “malati mentali incurabili”. La stesa frase comparve in una legge ad hoc emanata dal partito nazista qualche anno più tardi. Dunque tutto inizia prima delle leggi di Norimberga per la difesa della razza del 1935, che va a colpire, specificatamente, ebrei, neri e rom.
Tutti noi sappiamo della notte dei cristalli che segnò simbolicamente la persecuzione degli ebrei. Ma nello steso anno, 1938, esattamente nella settimana tra il 12 e il 18 giugno un altro evento segnò l’inizio della fine: la cosiddetta settimana della pulizia zingara.
Nel gennaio 1940 ha luogo il primo genocidio di massa con l’uccisione di 250 bambini, che vennero utilizzati come cavie nel campo di concentramento di Buchenwald per testare il tristemente famoso Zyklon – B, il materiale usato nelle camere a gas. Himmler fu convinto dell’idea di risparmiare la vita ad alcuni di loro per poterli utilizzare come strumento per studiare la genetica di questi “nemici dello Stato”, ma alla fine il regime respinde l’idea.
L’8 dicembre 1938, il primo riferimento alla “Soluzione finale alla questione zingara” apparve in un documento firmato dallo stesso Himmler. E’ ancora Himmler , il 16 dicembre 1940, a ordinare la deportazione di tutti gli zingari d’Europa ad Auschwitz-Birkenau. Qui tra l’1 e il 2 agosto 1944, nella notte degli zingari, furono gasati 2897 tra uomini, donne, vecchi e bambini in una sola azione. I forni crematori impiegarono giorni a smaltire la moltitudine di cadaveri.
Molto spesso, specialmente nelle terre orientali ed in Polonia, i rom non venivano portati nei lager ma uccisi sul luogo. Dopo aver fatto scavare le fosse con le loro mani li allineavano sul bordo per l’esecuzione. Operazione questa non semplice, secondo un rapporto delle SS. Uccidere un ebreo era, infatti, molto più facile, in quanto rimaneva dritto e stabile, mentre “gli zingari piangono, si lamentano, si muovono costantemente, anche quando sono già in linea per l’esecuzione. Alcuni di essi saltano addirittura nella fossa prima che venga sparato il colpo, facendo finta di essere morti”.
Era lo stesso Adolf Eichmann ad organizzare la logistica delle spedizioni ai campi, come descritto in un suo telegramma diretto alla direzione della Gestapo, in cui parla di vite umane come di merce da trasporto: “Riguardo al trasporto degli zingari bisogna sapere che venerdì 20 ottobre 1939, il primo carico di ebrei lascerà Vienna. A questo carico devono essere attaccati 3-4 vagoni di zingari. Treni successivi partiranno da Vienna, Mahrisch-Ostrau e Katovice. Il metodo più semplice è attaccare alcuni vagoni di zingari a ogni carico. Perché questi carichi devono seguire un programma, per cui ci si aspetta una rapida esecuzione del problema”.
Sui rom vennero eseguiti esperimenti di ogni sorta: a Sachsenhausen si cercò di provare che il loro sangue era diverso da quello tedesco; le donne vennero inizialmente sterilizzate in quanto “non meritevoli di riproduzione umana” per poi essere uccise. La legge sulla cittadinanza tedesca emanata nel 1943 non menziona neanche la popolazione rom. D’altronde perché nominare un’etnia che da lì a breve sarebbe dovuta scomparire dalla faccia della terra?
Nel resto d’Europa il destino dei rom variò a seconda del paese.
Il regime collaborazionista francese di Vichy internò 30.000 rom, molto dei quali finirono nei campi di Dachau, Ravensbruck e altri. Gli ustascia croati ne uccisero circa 26.000, molte migliaia furono uccisi dai serbi, altri furono deportati dagli ungheresi, dei 6.000 zingari cecoslovacchi ne sopravvisse solo un decimo.
In Italia, inizialmente, le leggi razziali del 1938 dimenticarono gli zingari, ma ben presto una circolare del Ministero dell’Interno del 11 settembre 1940 rimediò alla dimenticanza decretando l’internamento dei rom italiani e, successivamente, anche di quelli stranieri.
I nomi di questi campi ci sono assolutamente poco familiari: Pedasdefogu in Sardegna, Monopoli Sabina, Tossica, vicino Teramo, Pieve (Viterbo), Isole Tremiti e Collefiorito. E’ vero che pochi degli internati italiani furono deportati nei campi di sterminio. La precedenza veniva, infatti, concessa agli ebrei. Dopo la guerra la discriminazione contro i Sinti in Germania e i rom nel resto d’Europa continuò.
Nella Germania Occidentale, fino agli anni ’60, i tribunali acconsentirono a risarcire e a riconoscere gli zingari come vittime della follia nazista solo per i fatti che avvennero dopo il 1943. Nessuno fu chiamato a testimoniare per conto delle vittime rom al Processo di Norimberga e nessuna riparazione di guerra è mai stata pagata ai rom come popolazione. Perfino gli Stati Uniti, sempre così attenti alle vittime dell’Olocausto, non hanno fatto nulla per assistere i rom durante e dopo gli anni dello sterminio. Solo il 10% delle centinaia di milioni di dollari, per i quali il Governo americano era stato dichiarato responsabile della distribuzione, resi disponibili dall’ONU per i sopravvissuti, è stato dato ai non-ebrei, e nessuna parte di quel fondo è finita ai sopravvissuti rom.
Ancora oggi, nei paesi dell’Europa centro-orientale, il pregiudizio nei confronti della popolazione nomade è ben vivo. Nell’odierna Repubblica Ceca, a Lety, c’era era un campo di sterminio nazista dove morirono 326 rom di cui 241 bambini. Oggi quel luogo è occupato da una fattoria dove si allevano maiali per il commercio.
Alessio Marchetti
Fonte www.reporterassociati.org
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Diritti Umani : La popolazione Rom e la "Soluzione finale"
Inviato da Pablo su 27/1/2005 11:55:28 (249 letture)
Praga, 27 Gennaio 2005. Quella dei rom, comunemente chiamati zingari, è stata l’unica altra popolazione, insieme agli ebrei, ad essere obbiettivo di uno sterminio su basi razziali programmato nella logica della “Soluzione Finale” del Nazismo. La storia dell’olocausto rom, “Porrajmos” secondo la lingua zingara, è forse una delle pagine della seconda guerra mondiale meno conosciute ed analizzate.
Su una popolazione che, secondo il censo molto approssimativo del 1939 del partito nazista, contava circa 2 milioni di individui, sparsi in 11 paesi d’Europa, ne furono sterminati almeno 500 mila.
La particolarità della cultura rom rende le cifre molto imprecise: si tratta di una popolazione nomade, largamente analfabeta, conservatrice di una tradizione orale trasmessa da padre a figlio. Da qui la mancanza di fonti scritte dirette, di testimonianze difficilmente reperibili. C’è anche da aggiungere che il Porrajmos fu organizzato in maniera molto meno organizzata e meticolosa rispetto all’olocausto ebraico, per cui anche da parte nazista non abbiamo quel gran numero di fonti, documenti e informazioni che invece ci hanno permesso di ricostruire la tragedia ebrea.
Il fatto che i rom siano degli stranieri, comunque e ovunque, che fossero alieni ed estranei in qualsiasi luogo si muovano, ha permesso la forte crescita del pregiudizio nei loro confronti, che è duro a morire anche nei nostri giorni.
Arrivati dalla lontana India in Europa nel lontano XIV secolo (secondo altre fonti anche prima), non cristiani, scuri di carnagione, senza terra ne nazione, fortemente indipendenti e orgogliosi della propria cultura, senza mai una vera volontà di integrazione, nella loro forte idea di mantenere una distanza tra rom e “gadjé” (non rom), si scontrarono subito con il pregiudizio di una cultura europea troppo diversa dalla loro.
Gli zingari tedeschi chiamano se stessi Sinti. In Germania, come un po’ in tutta l’Europa centro-orientale, le persecuzioni iniziano ben prima del periodo nazista: già nel 1721 l’imperatore Carlo IV ordinò lo sterminio dei rom, con una legge che depenalizzava l’assassinio di uno zingaro. Nel XIX secolo “studiosi” tedeschi definivano zingari ed ebrei come razza inferiore e “escremento dell’umanità”. Una ricerca sulla popolazione nomade in Germania del 1905 condotta dallo studioso tedesco Alfred Dillmann stabiliva che i rom erano una “piaga” e una “minaccia” e che la Germania doveva difendersi da essa, evitando una possibile e pericolosa commistione tra le due razze.
Durante gli anni ’20, in piena e democratica Repubblica di Weimar, ai rom era già proibito di entrare nei parchi e di usare i bagni pubblici. Una pubblicazione di quegli anni di Karl Binding e Alfred Hoche riprendeva una definizione coniata 60 anni prima da Richard Liebich che definiva i rom “non meritevoli di vivere” e classificati sotto la categoria dei “malati mentali incurabili”. La stesa frase comparve in una legge ad hoc emanata dal partito nazista qualche anno più tardi. Dunque tutto inizia prima delle leggi di Norimberga per la difesa della razza del 1935, che va a colpire, specificatamente, ebrei, neri e rom.
Tutti noi sappiamo della notte dei cristalli che segnò simbolicamente la persecuzione degli ebrei. Ma nello steso anno, 1938, esattamente nella settimana tra il 12 e il 18 giugno un altro evento segnò l’inizio della fine: la cosiddetta settimana della pulizia zingara.
Nel gennaio 1940 ha luogo il primo genocidio di massa con l’uccisione di 250 bambini, che vennero utilizzati come cavie nel campo di concentramento di Buchenwald per testare il tristemente famoso Zyklon – B, il materiale usato nelle camere a gas. Himmler fu convinto dell’idea di risparmiare la vita ad alcuni di loro per poterli utilizzare come strumento per studiare la genetica di questi “nemici dello Stato”, ma alla fine il regime respinde l’idea.
L’8 dicembre 1938, il primo riferimento alla “Soluzione finale alla questione zingara” apparve in un documento firmato dallo stesso Himmler. E’ ancora Himmler , il 16 dicembre 1940, a ordinare la deportazione di tutti gli zingari d’Europa ad Auschwitz-Birkenau. Qui tra l’1 e il 2 agosto 1944, nella notte degli zingari, furono gasati 2897 tra uomini, donne, vecchi e bambini in una sola azione. I forni crematori impiegarono giorni a smaltire la moltitudine di cadaveri.
Molto spesso, specialmente nelle terre orientali ed in Polonia, i rom non venivano portati nei lager ma uccisi sul luogo. Dopo aver fatto scavare le fosse con le loro mani li allineavano sul bordo per l’esecuzione. Operazione questa non semplice, secondo un rapporto delle SS. Uccidere un ebreo era, infatti, molto più facile, in quanto rimaneva dritto e stabile, mentre “gli zingari piangono, si lamentano, si muovono costantemente, anche quando sono già in linea per l’esecuzione. Alcuni di essi saltano addirittura nella fossa prima che venga sparato il colpo, facendo finta di essere morti”.
Era lo stesso Adolf Eichmann ad organizzare la logistica delle spedizioni ai campi, come descritto in un suo telegramma diretto alla direzione della Gestapo, in cui parla di vite umane come di merce da trasporto: “Riguardo al trasporto degli zingari bisogna sapere che venerdì 20 ottobre 1939, il primo carico di ebrei lascerà Vienna. A questo carico devono essere attaccati 3-4 vagoni di zingari. Treni successivi partiranno da Vienna, Mahrisch-Ostrau e Katovice. Il metodo più semplice è attaccare alcuni vagoni di zingari a ogni carico. Perché questi carichi devono seguire un programma, per cui ci si aspetta una rapida esecuzione del problema”.
Sui rom vennero eseguiti esperimenti di ogni sorta: a Sachsenhausen si cercò di provare che il loro sangue era diverso da quello tedesco; le donne vennero inizialmente sterilizzate in quanto “non meritevoli di riproduzione umana” per poi essere uccise. La legge sulla cittadinanza tedesca emanata nel 1943 non menziona neanche la popolazione rom. D’altronde perché nominare un’etnia che da lì a breve sarebbe dovuta scomparire dalla faccia della terra?
Nel resto d’Europa il destino dei rom variò a seconda del paese.
Il regime collaborazionista francese di Vichy internò 30.000 rom, molto dei quali finirono nei campi di Dachau, Ravensbruck e altri. Gli ustascia croati ne uccisero circa 26.000, molte migliaia furono uccisi dai serbi, altri furono deportati dagli ungheresi, dei 6.000 zingari cecoslovacchi ne sopravvisse solo un decimo.
In Italia, inizialmente, le leggi razziali del 1938 dimenticarono gli zingari, ma ben presto una circolare del Ministero dell’Interno del 11 settembre 1940 rimediò alla dimenticanza decretando l’internamento dei rom italiani e, successivamente, anche di quelli stranieri.
I nomi di questi campi ci sono assolutamente poco familiari: Pedasdefogu in Sardegna, Monopoli Sabina, Tossica, vicino Teramo, Pieve (Viterbo), Isole Tremiti e Collefiorito. E’ vero che pochi degli internati italiani furono deportati nei campi di sterminio. La precedenza veniva, infatti, concessa agli ebrei. Dopo la guerra la discriminazione contro i Sinti in Germania e i rom nel resto d’Europa continuò.
Nella Germania Occidentale, fino agli anni ’60, i tribunali acconsentirono a risarcire e a riconoscere gli zingari come vittime della follia nazista solo per i fatti che avvennero dopo il 1943. Nessuno fu chiamato a testimoniare per conto delle vittime rom al Processo di Norimberga e nessuna riparazione di guerra è mai stata pagata ai rom come popolazione. Perfino gli Stati Uniti, sempre così attenti alle vittime dell’Olocausto, non hanno fatto nulla per assistere i rom durante e dopo gli anni dello sterminio. Solo il 10% delle centinaia di milioni di dollari, per i quali il Governo americano era stato dichiarato responsabile della distribuzione, resi disponibili dall’ONU per i sopravvissuti, è stato dato ai non-ebrei, e nessuna parte di quel fondo è finita ai sopravvissuti rom.
Ancora oggi, nei paesi dell’Europa centro-orientale, il pregiudizio nei confronti della popolazione nomade è ben vivo. Nell’odierna Repubblica Ceca, a Lety, c’era era un campo di sterminio nazista dove morirono 326 rom di cui 241 bambini. Oggi quel luogo è occupato da una fattoria dove si allevano maiali per il commercio.
Alessio Marchetti
Fonte www.reporterassociati.org
mercoledì 14 maggio 2008
martedì 13 maggio 2008
festa nazionale!!
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Il Partito Democratico con le sue profferte collaborazionistiche, con le sue invocazioni di un clima generale di fervore a vantaggio del Paese, ignorando le minacce di Brunetta agli statali fannulloni, di Maroni agli immigrati, di Sacconi a quel che resta dello Statuto dei Lavoratori, è riuscito a fare del giorno di presentazione di Berlusconi alle Camere una vera e propria festa nazionale!!
Avremo una "opposizione" ottima consulente del governo e della destra.
E' nato anche in Italia il Partito Rivoluzionario Istituzionale messicano seppur diviso in due..
Pietro Ancona
www.spazioamico.it
http://pietro-ancona.blogspot.com/
http://medioevosociale-pietro.blogspot.com/
Il Partito Democratico con le sue profferte collaborazionistiche, con le sue invocazioni di un clima generale di fervore a vantaggio del Paese, ignorando le minacce di Brunetta agli statali fannulloni, di Maroni agli immigrati, di Sacconi a quel che resta dello Statuto dei Lavoratori, è riuscito a fare del giorno di presentazione di Berlusconi alle Camere una vera e propria festa nazionale!!
Avremo una "opposizione" ottima consulente del governo e della destra.
E' nato anche in Italia il Partito Rivoluzionario Istituzionale messicano seppur diviso in due..
Pietro Ancona
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giovedì 8 maggio 2008
la cgil lettera a sansonetti
Caro Sansonetti,
l'accordo tra CGIL CISL UIL sul nuovo contratto collettivo nazionale di lavoro per quanto scontato è stupefacente. Si triennalizza il contratto nazionale e lo si riduce ad una larva a vantaggio della contrattazione territoriale. Un modo surrettizio per reintrodurre le gabbie salariali Si arriverà presto alla contrattazione per lavorazione di fase di prodotto e poi anche agli accordi di carattere personale. Si poteva predicare da anni la fine della classe operaia senza annullarne il suo più importante strumento di coesione e di identità? No. Naturalmente siamo immersi nel mondo della menzogna quando si parla di fine della classe operaia dal momento che venti milioni di lavoratori nè tanto di più nè tanto di meno di quanti fossero venti o trentanni fa sono ancora li magari a chiedersi perchè l'Italia sia l'unico Paese al mondo in cui i Sindacati anzicchè "dare" diritti ne tolgono.
Non a caso un Bonanni tronfio e volgarissimo annunziava il primo maggio quasi la nascita di un nuovo Sindacato. Con Sacconi al Lavoro a fare di sponda Confindustria Governo e Sindacati CGIL Cisl Uil cancelleranno le tracce della grande stagione dei
diritti conclusasi nel 1993.
La minoranza della CGIL non potrà che modificare insignificativamente la strategia concordata dai tre segretari confederali. Appellarsi al Congresso della CGIL è inutile.
La CGIL è irriformabile. Il suo corpo è costituito da funzionari che obbediscono ad una logica di "centralismo democratico".La Fiom sarà normalizzata al più presto e comunque non più tardi della scadenza del mandato di Rinaldini, grande galantuomo ma oramai una noce nel sacco.
Pietro Ancona
http://pietro-ancona.blogspot.com/
l'accordo tra CGIL CISL UIL sul nuovo contratto collettivo nazionale di lavoro per quanto scontato è stupefacente. Si triennalizza il contratto nazionale e lo si riduce ad una larva a vantaggio della contrattazione territoriale. Un modo surrettizio per reintrodurre le gabbie salariali Si arriverà presto alla contrattazione per lavorazione di fase di prodotto e poi anche agli accordi di carattere personale. Si poteva predicare da anni la fine della classe operaia senza annullarne il suo più importante strumento di coesione e di identità? No. Naturalmente siamo immersi nel mondo della menzogna quando si parla di fine della classe operaia dal momento che venti milioni di lavoratori nè tanto di più nè tanto di meno di quanti fossero venti o trentanni fa sono ancora li magari a chiedersi perchè l'Italia sia l'unico Paese al mondo in cui i Sindacati anzicchè "dare" diritti ne tolgono.
Non a caso un Bonanni tronfio e volgarissimo annunziava il primo maggio quasi la nascita di un nuovo Sindacato. Con Sacconi al Lavoro a fare di sponda Confindustria Governo e Sindacati CGIL Cisl Uil cancelleranno le tracce della grande stagione dei
diritti conclusasi nel 1993.
La minoranza della CGIL non potrà che modificare insignificativamente la strategia concordata dai tre segretari confederali. Appellarsi al Congresso della CGIL è inutile.
La CGIL è irriformabile. Il suo corpo è costituito da funzionari che obbediscono ad una logica di "centralismo democratico".La Fiom sarà normalizzata al più presto e comunque non più tardi della scadenza del mandato di Rinaldini, grande galantuomo ma oramai una noce nel sacco.
Pietro Ancona
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martedì 6 maggio 2008
la sigaretta
il ragazzo ucciso a verona
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non è stato per la sigaretta. E' stato scambiato per un compagno, uno dei centri sociali o per un terrone come me
pietro ancona
www.spazioamico.it
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non è stato per la sigaretta. E' stato scambiato per un compagno, uno dei centri sociali o per un terrone come me
pietro ancona
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lunedì 5 maggio 2008
analisi di una sconfitta
Lettera agli amici sul disastro elettorale
Cari amici e care amiche,
la convalescenza cui sono costretto mi consente tempi lunghi per la lettura e la riflessione. E’ in un
certo senso un privilegio, non fosse che questa parentesi comincia con la batosta elettorale del 13-14
aprile, cosa che spinge i pensieri sempre nella stessa direzione, procurando disorientamento e
angoscia, che per me si sommano all’isolamento dal circolo di discussione e condivisione politica
cui ero abituato fino a una dozzina di anni fa. Se quindi mi decido a proporvi qualche riflessione
sugli esiti elettorali, vi prego di non considerarlo un atto di superbia intellettuale, né la richiesta di
un impegno politico (figurarsi), quanto uno sfogo e un appello per aiutarmi nella comprensione di
fenomeni che in gran parte mi sfuggono.
La premessa, che per molti di voi sarà superflua, è che ho votato per “la sinistra l’arcobaleno” e
indipendentemente dal giudizio su di essa (su cui tornerò dopo), considero l’esito più grave di
queste elezioni la scomparsa dalle scene parlamentari di ogni riferimento (simbolico, ideale,
politico) alla sinistra “storica”, nelle sue varie componenti. Con ciò chiarisco l’angolazione del mio
ragionamento a scanso di equivoci: proprio alla luce dei risultati elettorali non posso dare per
scontato che per tutti i miei interlocutori il dato abbia lo stesso valore negativo.
Forse una sola cosa ho imparato nella trentennale frequentazione della politica (nell’autunno 1978
ho cominciato a partecipare alle riunioni di DP), costellata da innumerevoli sconfitte e disillusioni
(“Quante battaglie! Tutte perse…” ho sentito dire una volta da una mia amica vicentina:
sottoscrivo): bisogna ragionare con distacco sui fatti, non considerare ogni battuta d’arresto come la
fine di tutto, non scambiare la propria stanchezza e delusione con la morte della storia, della
sinistra, della politica, ecc. Quanto poi a praticare questa virtù, è un altro paio di maniche. Però il
nichilismo è solo una forma di assoluzione del proprio mancato impegno, uguale e contraria, però
più chiusa e inutile, della militanza “a prescindere”.
Poco utile mi sembra nella situazione attuale anche l’altro atteggiamento vagamente snob, fondato
sulla generalizzazione approssimativa dei “caratteri morali e civili degli Italiani”, che universalizza
i tratti di un paese egoista e plebeo, concludendo che non resta che l’emigrazione (in Spagna? Se è
per questo, suggerisco il Nepal: paesaggi unici, e in più il PC maoista ha appena stravinto le
elezioni). Non che io non sia un assiduo praticante di questa forma di accettazione passiva della
realtà: come potrei evitarlo, vivendo a Vicenza, una delle province più cattive, fasciste e leghiste
d’Italia? Ma è un espediente dialettico da dopocena, comodo per chi – come me – ha le spalle
economicamente coperte. Certo che l’Italia è così, berlusconismo e leghismo li conosciamo da
quindici anni, si tratta però di capire perché e come è diventata così, e anche come evolverà domani.
Insisto sul fatto del divenire perché certe affermazioni sul “destino nazionale” provengono da molti
di coloro che a lungo hanno esaltato l’anomalia italiana degli anni ’70: se l’anomalia è finita, o
piuttosto ha cambiato politicamente e socialmente di segno, dobbiamo non solo spiegarlo ma anche
ritenere che anche questa conformazione della società e della sua immagine, con la sua dura corazza
di paura e intolleranza, non è immutabile o inattaccabile. Dunque teniamo pure sullo sfondo
Leopardi, Guicciardini o Ferruccio Parri (la sua e altre interviste contenute nel recente libro di
Davide Lajolo Maestri e infedeli, risalenti a fine anni ’60, hanno già una severa e disillusa
intonazione “antitaliana”), riprendiamo in mano le profezie di Pasolini sulla “scomparsa del
popolo”, però colleghiamole ad un’osservazione dei fatti con spirito più dialettico e meno
fatalistico.
Sto divagando, vengo al tema e a considerazioni più ravvicinate e analitiche, che cerco di
organizzare per punti.
1. La destra. Peggio del 1994, peggio del 2001: è finita la transizione?
Della vittoria della destra colpiscono le dimensioni addirittura superiori a quelle del 1994 e del
2001, tanto da assorbire agevolmente la diaspora dell’UDC, nonostante l’appoggio abbastanza
esplicito che Casini ha ricevuto dal partito dei vescovi. Passato l’effetto novità (e tangentopoli) del
1994, passato lo spirito di rivalsa maturato in cinque anni di opposizione del 2001, la destra
conferma (come del resto nel 2006) di essere stabilmente e diffusamente radicata. La fulminea e
apparentemente abborracciata operazione PDL ha permesso a Berlusconi di inglobare AN –
pagando nulla a destra, poco verso l’UDC – e rafforzare l’asse privilegiato con la Lega nord –
guadagnando al Sud i voti spostati verso la Lega al nord. L’exploit della Lega ha reso travolgente e
particolarmente inquietante la vittoria: occorre del resto ricordare che l’unica sconfitta netta della
destra, nel 1996, fu causata da un’analoga performance leghista (addirittura superiore di un paio di
punti), la cui corsa solitaria determinò la maggioranza di seggi per Ulivo e compagnia desistente. Il
bacino elettorale della destra, in termini assoluti, è pressoché costante, semmai in crescita.
Insomma, nonostante alcuni segnali negativi, trascurabili sul breve periodo (ad esempio il travaso di
voti dal PDL alla Lega con conseguente esclusione di alcun big locali anche molto vicini a B, come
il sindaco uscente di Vicenza Hullweck) il cerchio delle due destre – il populismo tele-finanziario di
Berlusconi e quello manifatturiero-razzista di Bossi – sembra trovare la definitiva quadratura.
Parlare ancora – come ho sentito - di voto di protesta nel caso della Lega significa non capire nulla:
il territorio per la Lega non è tanto un concreto spazio da salvaguardare e valorizzare
(l’inquinamento e le basi americane non sono oggetto di particolari mobilitazioni, anzi), ma un vero
e proprio soggetto politico e un simbolo di appartenenza, che dà luogo a un modo di essere, un
corredo ideologico sempre più completo e coerente che sembra capace di mettere insieme la
riedizione di interclassismo cattolico (specialmente veneto) e le nuove forme di “sovversivismo
delle classi dirigenti”, come la rivolta antifiscale guidata dagli evasori. L’aspetto “difensivo” di
questa cultura diffusa offre una protezione dagli aspetti meno controllabili del mercato globale
anche a settori delle classi lavoratrici, per i quali l’identificazione col parón contro Stato, Europa e
Cina è un’alternativa al deserto di altre strutture, non solo politico-sindacali ma anche relazionali, in
territori il cui tessuto sociale è tanto cangiante da risultare inafferrabile. Ma la “società
mucillaggine” non è inafferrabile da parte della politica, anzi: nell’indebolimento (o scomparsa) di
strutture di relazione “tradizionali”, come la militanza politico-sindacale, certi messaggi forti fanno
breccia e compattano in maniera meno episodica e superficiale di quanto pensassimo. In
conclusione la destra ha saputo interpretare e rappresentare quasi tutte le insofferenze, le paure, le
solitudini sociali, anche molte di quelle che di solito sfociavano a sinistra: berlusconismo e
territorialismo dominano quasi incontrastate, dettano la logica del ragionamento, la formazione e
l’espressione del “senso comune”. Dico cose più volte ripetute, eppure mi sembra che tutti noi ci
fossimo illusi che quella forza di attrazione fosse in declino. Chi non ha pensato, ad esempio, che il
dominio mediatico del Cav fosse un po’ meno determinante di un tempo? O che il radicamento
della Lega sul territorio si fosse un po’ appannato per l’abitudine alle cariche istituzionali e il
declino fisico del suo principale leader? Evidentemente non è così, e a questo punto, visti i numeri e
la situazione, non si può escludere nemmeno la realizzazione anche istituzionale (ovvero con
adeguamento della costituzione formale alla già mutata costituzione materiale del paese) di un
regime con qualche tratto di stabilità: lasciando da parte per ora gli ostacoli interni, l’argine
“europeo” alla realizzazione di un populismo moderno non sembra insormontabile come nel 1994:
la stessa UE è un’altra cosa, più vasta e composita, e la prospettiva di recessione economica
spingerà a risposte divaricate da più punti di vista. In altri termini si può ipotizzare che la “lunga
transizione” italiana (o la ancor più lunga “crisi di regime”, ricorrendo all’antica tesi di Mario
Mineo) può aver trovato uno sbocco stabile e organico a destra.
2. La strategia del PD: ancora una volta in mezzo al guado?
La prova elettorale del PD è in qualche modo a sua volta la prima verifica di un percorso lungo e
tormentato, di cui il partito è l’esito, anche se, a differenza della destra, è presto per parlare di
stabilizzazione. L’ultimo tratto del percorso parallelo dei pezzi maggiori o comunque consistenti dei
due principali partiti del periodo 1943-1989 è nato con una dichiarazione di intenti netta:
impostazione maggioritaria da estendere a tutte le istituzioni, rottura e distacco a sinistra,
interlocuzione privilegiata con “il principale leader dello schieramento a noi avverso”: l’aspetto
congiunturale era importante (la crisi latente del governo Prodi), più importante il balzo strategico:
infatti la dichiarazione di autosufficienza elettorale ha innescato ipso facto la crisi di governo e le
elezioni, scenario che indubbiamente era stato messo in conto. Al di là delle ovvie dichiarazioni
propagandistiche degli ultimi giorni (“siamo a un’incollatura” … no comment) è ragionevole
pensare che sul breve lo schema ipotizzato fosse: vittoria non nettissima della destra,
ridimensionamento secco della sinistra, affermazione del PD come centro dello schieramento
politico, disponibile e indispensabile per le riforme. La prima ipotesi è saltata, la seconda ha
ottenuto troppo successo, la terza si è materializzata in una forma molto diversa dal previsto: il PD è
in campo (al limite del 35%, considerata la soglia minima) ma è poco centrale, resta disponibile ma
forse non è indispensabile per “le riforme”. La coperta resta corta: il massacro della sinistra – voluto
o meno – costringe a cercare di coprire una parte almeno delle sue istanze, ma in questo modo la
rincorsa al centro (verso l’UDC il PD perde voti piuttosto che guadagnarne) subirà battute d’arresto.
Restano indeterminati anche alcuni dei caratteri distintivi della nuova formazione politica, che non
può limitarsi al “si può fare” per affermare una identità. Questa dovrà crescere all’opposizione
piuttosto che nella “naturale” collocazione di governo, scontando una presenza ridotta sia in larga
parte del nord che in regioni fondamentali del sud. Oltre all’arroccamento nelle vecchie regioni
rosse, come dice Diamanti, il PD sembra non rappresentare né i ceti imprenditoriali dinamici né il
disagio del lavoro, né i ricchi né i poveri. In queste condizioni è prevedibile una rapida ripresa delle
contrapposizioni interne ed una lunga fase di assestamento: mi sembra di poter dire che se il PCI
negli anni ’70 era finito in mezzo al guado, il PD in mezzo al guado ci nasce, mentre la corrente è
piuttosto impetuosa. Staremo a vedere, per ora il completamento della lunga marcia di
avvicinamento tra post-PCI e cattolicesimo democratico è solo nelle strategie comunicative e nei
“non più essere” (ovviamente non più comunisti, non più socialisti, forse non più sinistra), mentre
l’idea di una riedizione aggiornata della DC manca dell’elemento chiave: il governo nazionale e
buona parte delle reti locali. Ritenuto modesto (o non più attuabile) il progetto prodiano di un
“liberismo temperato” gestito da un’ampia coalizione, il PD ha rilanciato, proponendosi come guida
della rielaborazione della struttura politica italiana, da adeguare ad un modello economico-sociale
ritenuto (forse anche più che a destra) intoccabile. Su questo ha, per ora, fallito.
3. Il funerale di terza classe della sinistra
Alzi la mano chi aveva previsto un’affermazione consistente per la lista della sinistra arcobaleno;
alzi la mano chi ne prevedeva la disfatta: l’ipotesi peggiore su cui si ragionava (qualche mio
corrispondente può essermi testimone a riguardo) era la vittoria di B accompagnata da una
rappresentanza parlamentare della sinistra scarsa, forse nulla al Senato; i miei cattivi pensieri si
spingevano a ritenere che questo scenario fosse quello auspicato e per cui lavorava il PD:
l’insistenza sul voto utile non mirava certo verso l’elettorato centrista. Ma che in due anni si
perdessero 2,6 milioni di voti era francamente imprevedibile.
Certo ci sono gli errori macroscopici della affrettata costruzione della lista, compiuta obtorto collo
(sto portando il collare rigido, vi garantisco che non è agevole) e con molti retropensieri. Né ci si
può consolare (almeno io non mi consolo) con la resa dei conti per leader (e gruppi dirigenti)
palesemente inadeguati, stancamente attaccati ai loro micropoteri, tossicodipendenti da salotto
televisivo. Meglio: da questo punto di vista qualcuno (per esempio i giornalisti di Repubblica che
irridono a Diliberto e Berti-nights) dovrebbe spiegare dove sta la maggiore dignità (per non parlare
della lunghezza della carriera politica) di personaggi come Fassino e D’Alema, sempre con l’aria di
aver capito tutto, pieni di trovate e scoperte straordinarie, e sempre anche loro sconfitti. Comunque
i conti non tornano: se tutto dipende dalla scarsa statura politica dei dirigenti, come mai quel
patrimonio di voti ed esperienze e militanze non ha trovato, in tanti anni (non solo negli ultimi due
mesi) altri dirigenti e forme di espressione? La rivolta contro la casta sembra una spiegazione
insufficiente, non si capisce come mai funzioni solo contro la sua parte sinistra, certamente
marginale. Bisogna cercare di capire più a fondo.
Intanto quei due milioni e mezzo di voti prendono varie direzioni: circa una metà cede alle sirene
del voto utile (favorendo più Di Pietro che il PD, a occhio), l’altra si divide tra l’astensione e il suo
equivalente “combattivo” (Sinistra critica, PCL, Lista per il bene comune), e la destra (con evidenza
la Lega in certe aree operaie). E’ evidente che un crollo di quelle dimensioni va al di là delle ragioni
contingenti: anche per la sinistra in qualche modo queste elezioni sono il segnale della fine di un
percorso iniziato con lo scioglimento del PCI e costellato dai diversi tentativi di raccoglierne
l’eredità. Tutte le varianti e le sfumature possibili tra gli estremi del calco del vecchio partito e lo
“scioglimento nei movimenti” (rispettivamente PDCI e la Rifondazione del 2001) sono state in
qualche modo tentate, con scarso o effimero successo, limitate da un’analisi teorica approssimativa
e strette dalla rincorsa ad una contingenza incalzante. Non che fosse facile fare chissà che cosa,
dopo una sconfitta epocale che ha azzerato molte delle bussole interpretative e allo stesso tempo
essendo attraversati da processi che azzerano, frammentano, riducono al silenzio i bacini sociali di
riferimento.
Infatti questa condizione di spaesamento strutturale non riguarda solo le forze politiche organizzate,
ma anche la sinistra diffusa dei giornali, delle riviste, dei circoli culturali, delle strutture sindacali
centrali e territoriali, nonché le ricorrenti emersioni dei movimenti, impetuose all’apparire quanto
effimere e incapaci di “fare sistema”. La crisi di identità è così ampia da travolgere la stessa
strutturazione dell’opinione pubblica di sinistra, sempre più difficile da individuare nei suoi tratti
distintivi (al di là delle raffinate ironie alla Giorgio Gaber) e soprattutto sempre più restia a farsi
coinvolgere in qualsivoglia progetto “politico”. Se è così (e per me è così, ovvio che sto parlando
prima di tutto di me), non mi sembra né utile né giusto attardarci sulle cravatte di Bertinotti o sui
festini di Pecoraro Scanio, e la categoria del tradimento è meglio seppellirla per sempre.
A conti fatti, la debacle del 13 aprile è il funerale ritardato e un po’ sciatto di un decesso per
consunzione, la scena finale di una vicenda in parte già chiusa. Posso ricordare l’ultimo scritto di
Luigi Pintor? La sinistra italiana che conosciamo è morta. Non lo ammettiamo perché si apre un
vuoto che la vita politica quotidiana non ammette. Possiamo sempre consolarci con elezioni
parziali o con una manifestazione rumorosa. Ma la sinistra rappresentativa (…) è fuori scena (“il
manifesto”, 24 aprile 2003).
Così, io credo, stanno le cose. Si tratta di vedere se vale la pena scommettere qualche lira sulla
resurrezione. Se ne vale la pena, non se ne abbiamo voglia: di quella, ce n’è poca o punto.
4. La posta in gioco. Il Che fare di Lenin e quello di Černyševskij.
Non nascondendo la propria intima soddisfazione, Galli della Loggia (“Corriere della sera”
17.04.08) collega la fine parlamentare della sinistra comunista e socialista all’estinzione vera della
prima repubblica, ovvero della forma democratica modellata dalla costituzione del 1948. Sullo
stesso giornale, il giorno prima, l’ineffabile senatore Cossiga denuncia il pericolo terrorismo in
assenza di una sinistra parlamentare (e non trascura di ricordare che la sua brillante gestione del
ministero degli interni all’epoca di Moro fu voluta e sostenuta dal PCI).
Forse non è un caso che i due illustri personaggi facciano riferimento ai due (unici) momenti in cui
la sinistra italiana novecentesca (ahimé, la moda definitoria è questa) ebbe qualche chance di
conquistare il governo del paese (né è un caso che dimentichino di dire quale furono i metodi per
impedire quella ascesa, e l’alternativa che ci toccò) sulle ali di una spinta popolare impetuosa e
speranzosa. Significa: toglietevi dalla testa anche il ricordo che il mondo possa cambiare. Prelude
anche a quello che ci aspetta: una cornice istituzionale e politica definitivamente
“postresistenziale”, in cui il conflitto sociale, e anche la sua teorizzazione, è una minaccia
dell’ordine costituito. Del resto nel 2001 il governo B esordì a Genova, e ho detto tutto. La posta in
gioco è questa (ripeto: non il posto o la pensione di Bertinotti), è su questo che occorre ragionare se
vale la pena o no.
Siamo dunque ancora al Che fare? Scartata – se non perché sarei arrivato fin qui? - la risposta
immediata, ovvia e legittima (cioè: stai a casa e pensa alla salute), credo che il riferimento al celebre
opuscolo di Lenin, tutto calibrato sulla relazione ottimale tra organizzazione politica e movimento
di classe, possa essere utile solo “in negativo”: un legame organico è impossibile, perché la classe
“in sé” è tutta da ricercare, la classe “per sé” è dissolta nel nulla. Semmai un titolo leninista più
adatto sarebbe La catastrofe imminente e come lottare contro di essa (non tanto di malaugurio,
visto che risale all’ottobre del 1917), ma noi la catastrofe ce l’abbiamo già alle spalle (e sulle
spalle). A parte gli scherzi e i giochi di parole, le formule organizzative utili al momento sono tutte
valide se nessuna prevale. Partiti, movimenti, comitati locali, giornali, reti associative vanno bene.
Purché siano tutte sullo stesso piano, senza gruppi dirigenti, grandi vecchi, giovani demiurghi
precostituiti. Purché consentano a tutti di portare il contributo che vogliono. Purché lascino spazio e
tempo per una riflessione vera, aperta, impegnata. Purché si mettano a studiare il mondo e la società
italiana, pezzo per pezzo, territorio per territorio. Un aspetto fondamentale perché questi fili
possano diventare una rete e una forza è la capacità di fare e comunicare informazioni: l’assenza di
una riflessione minimamente aggiornata sui media non mi sembra l’ultima (tra le tante) delle
carenze della sinistra.
Ma c’è un altro Che fare? (che del resto suggerì il titolo a Vladimir I’lič), il romanzo di
Černyševskij in cui un gruppo di giovani cerca di dare un senso “rivoluzionario” alla propria vita
quotidiana. Non sto proponendo “comuni” o sedute di autocoscienza, per carità. Dico che c’è un
aspetto “esistenziale”, quotidiano, molecolare, in cui una cultura di sinistra può continuare o
riprendere a manifestarsi: quand’è che abbiamo cominciato nei ritrovi tra amici, nei bar, al lavoro,
davanti a scuola dei nostri figli, fuori dal cinema, alla fermata dell’autobus, a ritrarci spaventati o
disillusi dalla marea del senso comune reazionario, rifiutando di proporre un frammento di punto di
vista alternativo, un dubbio, un’altra immagine della memoria? Sono solo io che mi comporto così?
Quand’è che siamo diventati afoni? Forse sentiamo di aver torto proprio su tutto? Eppure, per dirne
una, il bollettino quotidiano dei morti sul lavoro e la reazione infastidita degli industriali, non è di
per sé una conferma di tante nostre idee, priorità, battaglie? Non ci dice che la dignità umana –
separata dalla materialità delle condizioni di vita e dei rapporti sociali – è un “valore”, ovvero una
schifosa ipocrisia? E allora ritroviamo la voce, riprendiamo la parola. Sono ridicolo? Dal
comunismo al passaparola? Sarà l’influenza di Černyševskij, rispolvero “l’andata al popolo” degli
studenti narodniki. Ridicolo e populista (in senso russo-ottocentesco), sì, ma io dico che vivendo in
un paese che manda al governo Berlusconi tre volte in 14 anni, non si è mai abbastanza minimalisti.
E resto minimalista anche sui temi di questa opera di “mutua rialfabetizzazione molecolare” (sfido
chiunque a trovare una definizione più astrusa): pace, lavoro, diritti civili. Mi appello al vecchio
Brecht: “Proteggete le nostre verità”, a costo di essere irritante.
Del resto chi è riuscito a leggere fin qui, è davvero un amico, da cui accetto volentieri un bel “vai a
quel paese”. Magari accompagnato da qualche riflessione. Saluti a tutti, grazie per l’attenzione.
Vicenza, 18 aprile 2008 (daje! Vai con l’anniversario di un’altra disfatta)
Roberto Monicchia (roberto.monicchia@fastwebnet.it
===================
considerazioni aggiuntive di Pietro Ancona
Caro Monicchia,
ho letto la sua intensa e profonda riflessione della sconfitta della sinistra italiana.
Condivido tutto, proprio tutto quanto ha scritto e vorrei aggiungere alcuni elementi di
giudizio derivanti dalla mia militanza politica e sindacale.
Sono stato socialista e sindacalista. Il mio capo era Fernando Santi e non mi sono mai discostato dal suo riformismo che è quanto di meglio (per me) abbia espresso il movimento operaio italiano.
La sinistra è fallita in Italia per tutte le ragioni che hai elencato ma sopratutto per i cattivi rapporti che intercorserono tra socialisti e comunisti durante tutto il primo centro.sinistra, quello di Riccardo Lombardi della nazionalizzazione dell'industria elettrica, della riforma "socialista" della scuola, fino allo Statuto dei Diritti dei Lavoratori.
Questa positiva esperienza del PSI è stata costantemente minacciata non solo dalle destre ma dal PCI che auspicava che Nenni "si rompesse anche lui l'osso del collo"
E' stato uno sfibrante logoramento da sinistra che fini con l'incattivire i socialisti e fare prevalere al loro interno i "governisti" alla Mancini, fece fallire il PSI di De Martino e
portò alla terribile metastatica mutazione craxiana frutto dell'odio accumulato dai socialisti verso i comunisti in trenta anni di collaborazione a sinistra nella CGIL, nella Cooperazione, negli Enti Locali.
L'odio socialista verso i comunisti ha alimentato tutta l'epoca craxiana fino al berlusconismo il cui nucleo originario culturale è costituito da intellettuali socialisti diventati feroci anticomunisti come Cazzola ed altri oggi collaboratori della Confindustria.
Il ruolo della CGIL è determinante nella crisi attuale della sinistra. Dal 1993, dai famigerati accordi di concertazione, le piattaforme rivendicative per il rinnovo dei contratti hanno avuto come limite invalicabile il tasso di inflazione "programmato"
Rinnovi faticosi per poche manciate di spiccioli hanno impoverito tutte le classi lavoratrici italiane portandole in coda ai lavoratori europei. In atto, nonostanza la apparente diffusa coscienza a sinistra dell'insufficienza dei salari, per il contratto degli edili, si chiedono qualcosa come circa cento euro mensili che naturalmente (se verranno accordati) saranno rinviati nel tempo e dati in piccolissime ed insignificanti frazioni. Venti milioni di lavoratori sono quasi alla fame e nessuno dico NESSUNO alza un dito a loro difesa reale.
La CISL ha conquistato la leaderchip della allenza tra i sindacati confederali ed il tronfio e volgarissimo Bonanni ha annunziato la fine del ccnl e la trasformazione del sindacato in una sorta di strumento parastatale e paraconfindustriale che gestisce un potere non dei lavoratori ma sui lavoratori (cassa edile, società confindustria-sindacati etc...etccc..La CGIL è irriconoscibile e vive dell'immenso prestigio accumulato in anni oramai lontani.,
I lavoratori italiani sono desolatamente soli. I Cobas, unica espressione di autonomia operaia, sono discriminati ed i dirigenti spesso licenziati o processati. Tuttavia anche gli stessi Cobas stanno diventando una "maniera" come Rifondazione Comunista era diventata "una maniera"di stare nel conflitto politico e sociale.
In due anni di governo, la sinistra radicale ha inghiottito quasi senza aprire bocca quanto di peggio e di indigesto ci fosse dagli stanziamenti militari alle basi al welfare alle leggi razziali etc,... Una cosa incredibile.
Ma il cuore della crisi viene dal PCI. Dopo la Bolognina, per ridurre tutto quanto in due parole, il problema di Raicklin di D'Alema di Fassino e di Veltroni era quello di traghettare l'oligarchia del Partito oltre la sconfitta del comunismo. Di traghettare l'elettorato comunista se ne sono fottuti. Hanno accettato il liberismo nelle sue forme più selvagge ed antioperaie. Hanno lavorato intensamente a cancellare le tracce di tutti i valori di sinistra. E' stata una terribile corsa tra Prodi e Veltroni a chi si collocava più a destra dei due.
Come giustamente scrivi non prevedevano l'ampiezza della sconfitta e la scomparsa della sinistra li inquieta profondamente. Non sono nè carne nè pesce e l'esperienza del Partito Democratico americano non si può copiare senza stravolgere nel profondo tutto per non ottenere che scarsi e deludenti risultati.
Infine non hanno lottato l'oligarchismo. Fassino ha ricandidato per sesta volta la moglie. Hanno fatto i loro cavalli deputati e senatori come Caligola. Bertinotti è arrivato a giustificare Mastella per l'uso privato dell'aereo ed accettato che l'emolumento suo arrivasse a 250 mila euro l'anno. A chi gli rimproverava l'alto valore degli emolumenti dei parlamentari rispondeva
confrontando gli stipendi dei deputati a quelli dei managers privati.
Lo stipendio di Luciano Lama e dei dirigenti della CGIL era rapportato a quello del terzo livello dei metalmeccanici., Tra i due referenti c'è l'abisso e la pardita di identità che ha distrutto la sinistra italiana,
Non è moralismo. Ma la sinistra ha una sua etica perduta la quale non è più niente. Che cosa è se non etica la natura profonda del socialismo?
Pietro Ancona
www.spazioamico.it
http://pietro-ancona.blogspot.com/
http://medioevosociale-pietro.blogspot.com/
Cari amici e care amiche,
la convalescenza cui sono costretto mi consente tempi lunghi per la lettura e la riflessione. E’ in un
certo senso un privilegio, non fosse che questa parentesi comincia con la batosta elettorale del 13-14
aprile, cosa che spinge i pensieri sempre nella stessa direzione, procurando disorientamento e
angoscia, che per me si sommano all’isolamento dal circolo di discussione e condivisione politica
cui ero abituato fino a una dozzina di anni fa. Se quindi mi decido a proporvi qualche riflessione
sugli esiti elettorali, vi prego di non considerarlo un atto di superbia intellettuale, né la richiesta di
un impegno politico (figurarsi), quanto uno sfogo e un appello per aiutarmi nella comprensione di
fenomeni che in gran parte mi sfuggono.
La premessa, che per molti di voi sarà superflua, è che ho votato per “la sinistra l’arcobaleno” e
indipendentemente dal giudizio su di essa (su cui tornerò dopo), considero l’esito più grave di
queste elezioni la scomparsa dalle scene parlamentari di ogni riferimento (simbolico, ideale,
politico) alla sinistra “storica”, nelle sue varie componenti. Con ciò chiarisco l’angolazione del mio
ragionamento a scanso di equivoci: proprio alla luce dei risultati elettorali non posso dare per
scontato che per tutti i miei interlocutori il dato abbia lo stesso valore negativo.
Forse una sola cosa ho imparato nella trentennale frequentazione della politica (nell’autunno 1978
ho cominciato a partecipare alle riunioni di DP), costellata da innumerevoli sconfitte e disillusioni
(“Quante battaglie! Tutte perse…” ho sentito dire una volta da una mia amica vicentina:
sottoscrivo): bisogna ragionare con distacco sui fatti, non considerare ogni battuta d’arresto come la
fine di tutto, non scambiare la propria stanchezza e delusione con la morte della storia, della
sinistra, della politica, ecc. Quanto poi a praticare questa virtù, è un altro paio di maniche. Però il
nichilismo è solo una forma di assoluzione del proprio mancato impegno, uguale e contraria, però
più chiusa e inutile, della militanza “a prescindere”.
Poco utile mi sembra nella situazione attuale anche l’altro atteggiamento vagamente snob, fondato
sulla generalizzazione approssimativa dei “caratteri morali e civili degli Italiani”, che universalizza
i tratti di un paese egoista e plebeo, concludendo che non resta che l’emigrazione (in Spagna? Se è
per questo, suggerisco il Nepal: paesaggi unici, e in più il PC maoista ha appena stravinto le
elezioni). Non che io non sia un assiduo praticante di questa forma di accettazione passiva della
realtà: come potrei evitarlo, vivendo a Vicenza, una delle province più cattive, fasciste e leghiste
d’Italia? Ma è un espediente dialettico da dopocena, comodo per chi – come me – ha le spalle
economicamente coperte. Certo che l’Italia è così, berlusconismo e leghismo li conosciamo da
quindici anni, si tratta però di capire perché e come è diventata così, e anche come evolverà domani.
Insisto sul fatto del divenire perché certe affermazioni sul “destino nazionale” provengono da molti
di coloro che a lungo hanno esaltato l’anomalia italiana degli anni ’70: se l’anomalia è finita, o
piuttosto ha cambiato politicamente e socialmente di segno, dobbiamo non solo spiegarlo ma anche
ritenere che anche questa conformazione della società e della sua immagine, con la sua dura corazza
di paura e intolleranza, non è immutabile o inattaccabile. Dunque teniamo pure sullo sfondo
Leopardi, Guicciardini o Ferruccio Parri (la sua e altre interviste contenute nel recente libro di
Davide Lajolo Maestri e infedeli, risalenti a fine anni ’60, hanno già una severa e disillusa
intonazione “antitaliana”), riprendiamo in mano le profezie di Pasolini sulla “scomparsa del
popolo”, però colleghiamole ad un’osservazione dei fatti con spirito più dialettico e meno
fatalistico.
Sto divagando, vengo al tema e a considerazioni più ravvicinate e analitiche, che cerco di
organizzare per punti.
1. La destra. Peggio del 1994, peggio del 2001: è finita la transizione?
Della vittoria della destra colpiscono le dimensioni addirittura superiori a quelle del 1994 e del
2001, tanto da assorbire agevolmente la diaspora dell’UDC, nonostante l’appoggio abbastanza
esplicito che Casini ha ricevuto dal partito dei vescovi. Passato l’effetto novità (e tangentopoli) del
1994, passato lo spirito di rivalsa maturato in cinque anni di opposizione del 2001, la destra
conferma (come del resto nel 2006) di essere stabilmente e diffusamente radicata. La fulminea e
apparentemente abborracciata operazione PDL ha permesso a Berlusconi di inglobare AN –
pagando nulla a destra, poco verso l’UDC – e rafforzare l’asse privilegiato con la Lega nord –
guadagnando al Sud i voti spostati verso la Lega al nord. L’exploit della Lega ha reso travolgente e
particolarmente inquietante la vittoria: occorre del resto ricordare che l’unica sconfitta netta della
destra, nel 1996, fu causata da un’analoga performance leghista (addirittura superiore di un paio di
punti), la cui corsa solitaria determinò la maggioranza di seggi per Ulivo e compagnia desistente. Il
bacino elettorale della destra, in termini assoluti, è pressoché costante, semmai in crescita.
Insomma, nonostante alcuni segnali negativi, trascurabili sul breve periodo (ad esempio il travaso di
voti dal PDL alla Lega con conseguente esclusione di alcun big locali anche molto vicini a B, come
il sindaco uscente di Vicenza Hullweck) il cerchio delle due destre – il populismo tele-finanziario di
Berlusconi e quello manifatturiero-razzista di Bossi – sembra trovare la definitiva quadratura.
Parlare ancora – come ho sentito - di voto di protesta nel caso della Lega significa non capire nulla:
il territorio per la Lega non è tanto un concreto spazio da salvaguardare e valorizzare
(l’inquinamento e le basi americane non sono oggetto di particolari mobilitazioni, anzi), ma un vero
e proprio soggetto politico e un simbolo di appartenenza, che dà luogo a un modo di essere, un
corredo ideologico sempre più completo e coerente che sembra capace di mettere insieme la
riedizione di interclassismo cattolico (specialmente veneto) e le nuove forme di “sovversivismo
delle classi dirigenti”, come la rivolta antifiscale guidata dagli evasori. L’aspetto “difensivo” di
questa cultura diffusa offre una protezione dagli aspetti meno controllabili del mercato globale
anche a settori delle classi lavoratrici, per i quali l’identificazione col parón contro Stato, Europa e
Cina è un’alternativa al deserto di altre strutture, non solo politico-sindacali ma anche relazionali, in
territori il cui tessuto sociale è tanto cangiante da risultare inafferrabile. Ma la “società
mucillaggine” non è inafferrabile da parte della politica, anzi: nell’indebolimento (o scomparsa) di
strutture di relazione “tradizionali”, come la militanza politico-sindacale, certi messaggi forti fanno
breccia e compattano in maniera meno episodica e superficiale di quanto pensassimo. In
conclusione la destra ha saputo interpretare e rappresentare quasi tutte le insofferenze, le paure, le
solitudini sociali, anche molte di quelle che di solito sfociavano a sinistra: berlusconismo e
territorialismo dominano quasi incontrastate, dettano la logica del ragionamento, la formazione e
l’espressione del “senso comune”. Dico cose più volte ripetute, eppure mi sembra che tutti noi ci
fossimo illusi che quella forza di attrazione fosse in declino. Chi non ha pensato, ad esempio, che il
dominio mediatico del Cav fosse un po’ meno determinante di un tempo? O che il radicamento
della Lega sul territorio si fosse un po’ appannato per l’abitudine alle cariche istituzionali e il
declino fisico del suo principale leader? Evidentemente non è così, e a questo punto, visti i numeri e
la situazione, non si può escludere nemmeno la realizzazione anche istituzionale (ovvero con
adeguamento della costituzione formale alla già mutata costituzione materiale del paese) di un
regime con qualche tratto di stabilità: lasciando da parte per ora gli ostacoli interni, l’argine
“europeo” alla realizzazione di un populismo moderno non sembra insormontabile come nel 1994:
la stessa UE è un’altra cosa, più vasta e composita, e la prospettiva di recessione economica
spingerà a risposte divaricate da più punti di vista. In altri termini si può ipotizzare che la “lunga
transizione” italiana (o la ancor più lunga “crisi di regime”, ricorrendo all’antica tesi di Mario
Mineo) può aver trovato uno sbocco stabile e organico a destra.
2. La strategia del PD: ancora una volta in mezzo al guado?
La prova elettorale del PD è in qualche modo a sua volta la prima verifica di un percorso lungo e
tormentato, di cui il partito è l’esito, anche se, a differenza della destra, è presto per parlare di
stabilizzazione. L’ultimo tratto del percorso parallelo dei pezzi maggiori o comunque consistenti dei
due principali partiti del periodo 1943-1989 è nato con una dichiarazione di intenti netta:
impostazione maggioritaria da estendere a tutte le istituzioni, rottura e distacco a sinistra,
interlocuzione privilegiata con “il principale leader dello schieramento a noi avverso”: l’aspetto
congiunturale era importante (la crisi latente del governo Prodi), più importante il balzo strategico:
infatti la dichiarazione di autosufficienza elettorale ha innescato ipso facto la crisi di governo e le
elezioni, scenario che indubbiamente era stato messo in conto. Al di là delle ovvie dichiarazioni
propagandistiche degli ultimi giorni (“siamo a un’incollatura” … no comment) è ragionevole
pensare che sul breve lo schema ipotizzato fosse: vittoria non nettissima della destra,
ridimensionamento secco della sinistra, affermazione del PD come centro dello schieramento
politico, disponibile e indispensabile per le riforme. La prima ipotesi è saltata, la seconda ha
ottenuto troppo successo, la terza si è materializzata in una forma molto diversa dal previsto: il PD è
in campo (al limite del 35%, considerata la soglia minima) ma è poco centrale, resta disponibile ma
forse non è indispensabile per “le riforme”. La coperta resta corta: il massacro della sinistra – voluto
o meno – costringe a cercare di coprire una parte almeno delle sue istanze, ma in questo modo la
rincorsa al centro (verso l’UDC il PD perde voti piuttosto che guadagnarne) subirà battute d’arresto.
Restano indeterminati anche alcuni dei caratteri distintivi della nuova formazione politica, che non
può limitarsi al “si può fare” per affermare una identità. Questa dovrà crescere all’opposizione
piuttosto che nella “naturale” collocazione di governo, scontando una presenza ridotta sia in larga
parte del nord che in regioni fondamentali del sud. Oltre all’arroccamento nelle vecchie regioni
rosse, come dice Diamanti, il PD sembra non rappresentare né i ceti imprenditoriali dinamici né il
disagio del lavoro, né i ricchi né i poveri. In queste condizioni è prevedibile una rapida ripresa delle
contrapposizioni interne ed una lunga fase di assestamento: mi sembra di poter dire che se il PCI
negli anni ’70 era finito in mezzo al guado, il PD in mezzo al guado ci nasce, mentre la corrente è
piuttosto impetuosa. Staremo a vedere, per ora il completamento della lunga marcia di
avvicinamento tra post-PCI e cattolicesimo democratico è solo nelle strategie comunicative e nei
“non più essere” (ovviamente non più comunisti, non più socialisti, forse non più sinistra), mentre
l’idea di una riedizione aggiornata della DC manca dell’elemento chiave: il governo nazionale e
buona parte delle reti locali. Ritenuto modesto (o non più attuabile) il progetto prodiano di un
“liberismo temperato” gestito da un’ampia coalizione, il PD ha rilanciato, proponendosi come guida
della rielaborazione della struttura politica italiana, da adeguare ad un modello economico-sociale
ritenuto (forse anche più che a destra) intoccabile. Su questo ha, per ora, fallito.
3. Il funerale di terza classe della sinistra
Alzi la mano chi aveva previsto un’affermazione consistente per la lista della sinistra arcobaleno;
alzi la mano chi ne prevedeva la disfatta: l’ipotesi peggiore su cui si ragionava (qualche mio
corrispondente può essermi testimone a riguardo) era la vittoria di B accompagnata da una
rappresentanza parlamentare della sinistra scarsa, forse nulla al Senato; i miei cattivi pensieri si
spingevano a ritenere che questo scenario fosse quello auspicato e per cui lavorava il PD:
l’insistenza sul voto utile non mirava certo verso l’elettorato centrista. Ma che in due anni si
perdessero 2,6 milioni di voti era francamente imprevedibile.
Certo ci sono gli errori macroscopici della affrettata costruzione della lista, compiuta obtorto collo
(sto portando il collare rigido, vi garantisco che non è agevole) e con molti retropensieri. Né ci si
può consolare (almeno io non mi consolo) con la resa dei conti per leader (e gruppi dirigenti)
palesemente inadeguati, stancamente attaccati ai loro micropoteri, tossicodipendenti da salotto
televisivo. Meglio: da questo punto di vista qualcuno (per esempio i giornalisti di Repubblica che
irridono a Diliberto e Berti-nights) dovrebbe spiegare dove sta la maggiore dignità (per non parlare
della lunghezza della carriera politica) di personaggi come Fassino e D’Alema, sempre con l’aria di
aver capito tutto, pieni di trovate e scoperte straordinarie, e sempre anche loro sconfitti. Comunque
i conti non tornano: se tutto dipende dalla scarsa statura politica dei dirigenti, come mai quel
patrimonio di voti ed esperienze e militanze non ha trovato, in tanti anni (non solo negli ultimi due
mesi) altri dirigenti e forme di espressione? La rivolta contro la casta sembra una spiegazione
insufficiente, non si capisce come mai funzioni solo contro la sua parte sinistra, certamente
marginale. Bisogna cercare di capire più a fondo.
Intanto quei due milioni e mezzo di voti prendono varie direzioni: circa una metà cede alle sirene
del voto utile (favorendo più Di Pietro che il PD, a occhio), l’altra si divide tra l’astensione e il suo
equivalente “combattivo” (Sinistra critica, PCL, Lista per il bene comune), e la destra (con evidenza
la Lega in certe aree operaie). E’ evidente che un crollo di quelle dimensioni va al di là delle ragioni
contingenti: anche per la sinistra in qualche modo queste elezioni sono il segnale della fine di un
percorso iniziato con lo scioglimento del PCI e costellato dai diversi tentativi di raccoglierne
l’eredità. Tutte le varianti e le sfumature possibili tra gli estremi del calco del vecchio partito e lo
“scioglimento nei movimenti” (rispettivamente PDCI e la Rifondazione del 2001) sono state in
qualche modo tentate, con scarso o effimero successo, limitate da un’analisi teorica approssimativa
e strette dalla rincorsa ad una contingenza incalzante. Non che fosse facile fare chissà che cosa,
dopo una sconfitta epocale che ha azzerato molte delle bussole interpretative e allo stesso tempo
essendo attraversati da processi che azzerano, frammentano, riducono al silenzio i bacini sociali di
riferimento.
Infatti questa condizione di spaesamento strutturale non riguarda solo le forze politiche organizzate,
ma anche la sinistra diffusa dei giornali, delle riviste, dei circoli culturali, delle strutture sindacali
centrali e territoriali, nonché le ricorrenti emersioni dei movimenti, impetuose all’apparire quanto
effimere e incapaci di “fare sistema”. La crisi di identità è così ampia da travolgere la stessa
strutturazione dell’opinione pubblica di sinistra, sempre più difficile da individuare nei suoi tratti
distintivi (al di là delle raffinate ironie alla Giorgio Gaber) e soprattutto sempre più restia a farsi
coinvolgere in qualsivoglia progetto “politico”. Se è così (e per me è così, ovvio che sto parlando
prima di tutto di me), non mi sembra né utile né giusto attardarci sulle cravatte di Bertinotti o sui
festini di Pecoraro Scanio, e la categoria del tradimento è meglio seppellirla per sempre.
A conti fatti, la debacle del 13 aprile è il funerale ritardato e un po’ sciatto di un decesso per
consunzione, la scena finale di una vicenda in parte già chiusa. Posso ricordare l’ultimo scritto di
Luigi Pintor? La sinistra italiana che conosciamo è morta. Non lo ammettiamo perché si apre un
vuoto che la vita politica quotidiana non ammette. Possiamo sempre consolarci con elezioni
parziali o con una manifestazione rumorosa. Ma la sinistra rappresentativa (…) è fuori scena (“il
manifesto”, 24 aprile 2003).
Così, io credo, stanno le cose. Si tratta di vedere se vale la pena scommettere qualche lira sulla
resurrezione. Se ne vale la pena, non se ne abbiamo voglia: di quella, ce n’è poca o punto.
4. La posta in gioco. Il Che fare di Lenin e quello di Černyševskij.
Non nascondendo la propria intima soddisfazione, Galli della Loggia (“Corriere della sera”
17.04.08) collega la fine parlamentare della sinistra comunista e socialista all’estinzione vera della
prima repubblica, ovvero della forma democratica modellata dalla costituzione del 1948. Sullo
stesso giornale, il giorno prima, l’ineffabile senatore Cossiga denuncia il pericolo terrorismo in
assenza di una sinistra parlamentare (e non trascura di ricordare che la sua brillante gestione del
ministero degli interni all’epoca di Moro fu voluta e sostenuta dal PCI).
Forse non è un caso che i due illustri personaggi facciano riferimento ai due (unici) momenti in cui
la sinistra italiana novecentesca (ahimé, la moda definitoria è questa) ebbe qualche chance di
conquistare il governo del paese (né è un caso che dimentichino di dire quale furono i metodi per
impedire quella ascesa, e l’alternativa che ci toccò) sulle ali di una spinta popolare impetuosa e
speranzosa. Significa: toglietevi dalla testa anche il ricordo che il mondo possa cambiare. Prelude
anche a quello che ci aspetta: una cornice istituzionale e politica definitivamente
“postresistenziale”, in cui il conflitto sociale, e anche la sua teorizzazione, è una minaccia
dell’ordine costituito. Del resto nel 2001 il governo B esordì a Genova, e ho detto tutto. La posta in
gioco è questa (ripeto: non il posto o la pensione di Bertinotti), è su questo che occorre ragionare se
vale la pena o no.
Siamo dunque ancora al Che fare? Scartata – se non perché sarei arrivato fin qui? - la risposta
immediata, ovvia e legittima (cioè: stai a casa e pensa alla salute), credo che il riferimento al celebre
opuscolo di Lenin, tutto calibrato sulla relazione ottimale tra organizzazione politica e movimento
di classe, possa essere utile solo “in negativo”: un legame organico è impossibile, perché la classe
“in sé” è tutta da ricercare, la classe “per sé” è dissolta nel nulla. Semmai un titolo leninista più
adatto sarebbe La catastrofe imminente e come lottare contro di essa (non tanto di malaugurio,
visto che risale all’ottobre del 1917), ma noi la catastrofe ce l’abbiamo già alle spalle (e sulle
spalle). A parte gli scherzi e i giochi di parole, le formule organizzative utili al momento sono tutte
valide se nessuna prevale. Partiti, movimenti, comitati locali, giornali, reti associative vanno bene.
Purché siano tutte sullo stesso piano, senza gruppi dirigenti, grandi vecchi, giovani demiurghi
precostituiti. Purché consentano a tutti di portare il contributo che vogliono. Purché lascino spazio e
tempo per una riflessione vera, aperta, impegnata. Purché si mettano a studiare il mondo e la società
italiana, pezzo per pezzo, territorio per territorio. Un aspetto fondamentale perché questi fili
possano diventare una rete e una forza è la capacità di fare e comunicare informazioni: l’assenza di
una riflessione minimamente aggiornata sui media non mi sembra l’ultima (tra le tante) delle
carenze della sinistra.
Ma c’è un altro Che fare? (che del resto suggerì il titolo a Vladimir I’lič), il romanzo di
Černyševskij in cui un gruppo di giovani cerca di dare un senso “rivoluzionario” alla propria vita
quotidiana. Non sto proponendo “comuni” o sedute di autocoscienza, per carità. Dico che c’è un
aspetto “esistenziale”, quotidiano, molecolare, in cui una cultura di sinistra può continuare o
riprendere a manifestarsi: quand’è che abbiamo cominciato nei ritrovi tra amici, nei bar, al lavoro,
davanti a scuola dei nostri figli, fuori dal cinema, alla fermata dell’autobus, a ritrarci spaventati o
disillusi dalla marea del senso comune reazionario, rifiutando di proporre un frammento di punto di
vista alternativo, un dubbio, un’altra immagine della memoria? Sono solo io che mi comporto così?
Quand’è che siamo diventati afoni? Forse sentiamo di aver torto proprio su tutto? Eppure, per dirne
una, il bollettino quotidiano dei morti sul lavoro e la reazione infastidita degli industriali, non è di
per sé una conferma di tante nostre idee, priorità, battaglie? Non ci dice che la dignità umana –
separata dalla materialità delle condizioni di vita e dei rapporti sociali – è un “valore”, ovvero una
schifosa ipocrisia? E allora ritroviamo la voce, riprendiamo la parola. Sono ridicolo? Dal
comunismo al passaparola? Sarà l’influenza di Černyševskij, rispolvero “l’andata al popolo” degli
studenti narodniki. Ridicolo e populista (in senso russo-ottocentesco), sì, ma io dico che vivendo in
un paese che manda al governo Berlusconi tre volte in 14 anni, non si è mai abbastanza minimalisti.
E resto minimalista anche sui temi di questa opera di “mutua rialfabetizzazione molecolare” (sfido
chiunque a trovare una definizione più astrusa): pace, lavoro, diritti civili. Mi appello al vecchio
Brecht: “Proteggete le nostre verità”, a costo di essere irritante.
Del resto chi è riuscito a leggere fin qui, è davvero un amico, da cui accetto volentieri un bel “vai a
quel paese”. Magari accompagnato da qualche riflessione. Saluti a tutti, grazie per l’attenzione.
Vicenza, 18 aprile 2008 (daje! Vai con l’anniversario di un’altra disfatta)
Roberto Monicchia (roberto.monicchia@fastwebnet.it
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considerazioni aggiuntive di Pietro Ancona
Caro Monicchia,
ho letto la sua intensa e profonda riflessione della sconfitta della sinistra italiana.
Condivido tutto, proprio tutto quanto ha scritto e vorrei aggiungere alcuni elementi di
giudizio derivanti dalla mia militanza politica e sindacale.
Sono stato socialista e sindacalista. Il mio capo era Fernando Santi e non mi sono mai discostato dal suo riformismo che è quanto di meglio (per me) abbia espresso il movimento operaio italiano.
La sinistra è fallita in Italia per tutte le ragioni che hai elencato ma sopratutto per i cattivi rapporti che intercorserono tra socialisti e comunisti durante tutto il primo centro.sinistra, quello di Riccardo Lombardi della nazionalizzazione dell'industria elettrica, della riforma "socialista" della scuola, fino allo Statuto dei Diritti dei Lavoratori.
Questa positiva esperienza del PSI è stata costantemente minacciata non solo dalle destre ma dal PCI che auspicava che Nenni "si rompesse anche lui l'osso del collo"
E' stato uno sfibrante logoramento da sinistra che fini con l'incattivire i socialisti e fare prevalere al loro interno i "governisti" alla Mancini, fece fallire il PSI di De Martino e
portò alla terribile metastatica mutazione craxiana frutto dell'odio accumulato dai socialisti verso i comunisti in trenta anni di collaborazione a sinistra nella CGIL, nella Cooperazione, negli Enti Locali.
L'odio socialista verso i comunisti ha alimentato tutta l'epoca craxiana fino al berlusconismo il cui nucleo originario culturale è costituito da intellettuali socialisti diventati feroci anticomunisti come Cazzola ed altri oggi collaboratori della Confindustria.
Il ruolo della CGIL è determinante nella crisi attuale della sinistra. Dal 1993, dai famigerati accordi di concertazione, le piattaforme rivendicative per il rinnovo dei contratti hanno avuto come limite invalicabile il tasso di inflazione "programmato"
Rinnovi faticosi per poche manciate di spiccioli hanno impoverito tutte le classi lavoratrici italiane portandole in coda ai lavoratori europei. In atto, nonostanza la apparente diffusa coscienza a sinistra dell'insufficienza dei salari, per il contratto degli edili, si chiedono qualcosa come circa cento euro mensili che naturalmente (se verranno accordati) saranno rinviati nel tempo e dati in piccolissime ed insignificanti frazioni. Venti milioni di lavoratori sono quasi alla fame e nessuno dico NESSUNO alza un dito a loro difesa reale.
La CISL ha conquistato la leaderchip della allenza tra i sindacati confederali ed il tronfio e volgarissimo Bonanni ha annunziato la fine del ccnl e la trasformazione del sindacato in una sorta di strumento parastatale e paraconfindustriale che gestisce un potere non dei lavoratori ma sui lavoratori (cassa edile, società confindustria-sindacati etc...etccc..La CGIL è irriconoscibile e vive dell'immenso prestigio accumulato in anni oramai lontani.,
I lavoratori italiani sono desolatamente soli. I Cobas, unica espressione di autonomia operaia, sono discriminati ed i dirigenti spesso licenziati o processati. Tuttavia anche gli stessi Cobas stanno diventando una "maniera" come Rifondazione Comunista era diventata "una maniera"di stare nel conflitto politico e sociale.
In due anni di governo, la sinistra radicale ha inghiottito quasi senza aprire bocca quanto di peggio e di indigesto ci fosse dagli stanziamenti militari alle basi al welfare alle leggi razziali etc,... Una cosa incredibile.
Ma il cuore della crisi viene dal PCI. Dopo la Bolognina, per ridurre tutto quanto in due parole, il problema di Raicklin di D'Alema di Fassino e di Veltroni era quello di traghettare l'oligarchia del Partito oltre la sconfitta del comunismo. Di traghettare l'elettorato comunista se ne sono fottuti. Hanno accettato il liberismo nelle sue forme più selvagge ed antioperaie. Hanno lavorato intensamente a cancellare le tracce di tutti i valori di sinistra. E' stata una terribile corsa tra Prodi e Veltroni a chi si collocava più a destra dei due.
Come giustamente scrivi non prevedevano l'ampiezza della sconfitta e la scomparsa della sinistra li inquieta profondamente. Non sono nè carne nè pesce e l'esperienza del Partito Democratico americano non si può copiare senza stravolgere nel profondo tutto per non ottenere che scarsi e deludenti risultati.
Infine non hanno lottato l'oligarchismo. Fassino ha ricandidato per sesta volta la moglie. Hanno fatto i loro cavalli deputati e senatori come Caligola. Bertinotti è arrivato a giustificare Mastella per l'uso privato dell'aereo ed accettato che l'emolumento suo arrivasse a 250 mila euro l'anno. A chi gli rimproverava l'alto valore degli emolumenti dei parlamentari rispondeva
confrontando gli stipendi dei deputati a quelli dei managers privati.
Lo stipendio di Luciano Lama e dei dirigenti della CGIL era rapportato a quello del terzo livello dei metalmeccanici., Tra i due referenti c'è l'abisso e la pardita di identità che ha distrutto la sinistra italiana,
Non è moralismo. Ma la sinistra ha una sua etica perduta la quale non è più niente. Che cosa è se non etica la natura profonda del socialismo?
Pietro Ancona
www.spazioamico.it
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