venerdì 9 novembre 2007

Quando il pregiudizio diventa razzismo

Caro Professore,

non ti offenderai se ti dico che la prossima volta che ti occuperai di mafia farai bene a documentarti meglio sulla situazione del Sud specialmente sul versante
dell'analisi dei comportamenti delle popolazioni e dei partiti

hai scritto:
"Ma l’altro strumento di cui si parla assai poco e che nel lungo periodo può essere davvero decisivo è quello della mentalità collettiva, dell’acculturazione delle grandi masse popolari e piccolo-borghesi ma anche di quelle delle classi dirigenti locali.

Manca, in quelle regioni, una cultura dello stato di diritto, degli interessi generali, dello spirito di cooperazione moderno,di un superamento degli interessi individuali e familiari o del clan particolare."

Sono affermazioni del tutto prive di fondamento. Esiste un problema solo ed è quello del comportamento dei gruppi dirigenti politici e del loro rapporto con le mafie.
Nel PD ci sono importanti personaggi napoletani calabresi e siciliani che hanno asservito le amministrazioni regionali alle peggiori pratiche di favoritismo di interessi illegali che sono il terreno di coltura degli interessi malavitosi e mafiosi. Prendi la legislazione della Regione Calabria diretta dall'ineffabile Lojero o quella della regione Campania dell'inossidabile Bassolino e quella siciliana di Cuffaro e dei suoi compari bipartisan e ti renderai conto facilmente come sia necessaria una bonifica radicale dell'ambiente politico. Il delitto Fortugno è maturato in questo contesto. E' un delitto interno al quadro politico della Regione.
La cultura delle cittadinanze meridionali non abbisogna di nessuna opera di proselitismo verso lo stato di diritto. (Prova ne siano le grandi e frequenti manifestazioni e movimenti contro la mafia nel mezzogiorno e solo nel mezzogiorno). Le popolazioni meridionali non sono diverse da quelle toscane o piemontesi. Se c'è mancanza di cultura del bene comune dovresti guardare al Governo fatto da una caterva di ministri e sottosegretari e ai parassitari palazzi romani che inghiottono come pitoni le risorse del Paese. Certamente la mafia è un fenomeno interno al Mezzogiorno ma sarebbe razzistico e sbagliato darne una interpretazione etnologica o antropologica.
La mafia è il problema che l'Italia deve risolvere
a partire dall'allineamento del governo al sostegno della diffusa rivolta che è in corso specialmente in Sicilia di centinaia di imprenditori che rifiutano di pagare il pizzo.
C'è un grosso fatto nuovo: a Gela, sei imprenditori dopo aver ottenuto la condanna penale dei loro sfruttatori mafiosi, li hanno citati in sede civile per risarcimento danni!!! Quando la gente cessa di avere paura è la mafia a dover avere paura.
Se debbo essere sincero, le forze impegnate tra gli imprenditori, la magistratura, la polizia in prima linea contro la mafia non ricevano adeguato sostegno dallo Stato. Sembra quasi che si registrino i successi recenti con un certo imbarazzo.
Cordiali saluti.

Pietro Ancona

L'Unità 8.11.2007
Mafia, la battaglia continua
Nicola Tranfaglia


Non avrebbe senso mettere in dubbio che la cattura dei Lo Piccolo e degli altri «colonnelli» del gruppo erede di Provenzano ha rappresentato una vittoria delle forze dell’ordine siciliane e delle altre strutture repressive nei confronti di Cosa Nostra. Come è dimostrato dalla storia difficile sulla cattura del «capo dei capi» Provenzano, devono esserci circostanze e volontà rilevanti per raggiungere simili risultati e ha relativa importanza la disputa su quali interne rivalità o concorrenze abbiano favorito la cattura. È probabile, a mio avviso, che Lo Piccolo, padrone e controllore del traffico delle estorsioni in gran parte dell’isola, non fosse stato investito di una carica suprema sia perché la rivalità con Matteo Messina Denaro, boss della mafia trapanese, aveva trovato un accomodamento temporaneo e non un pace vera sia perché i grandi traffici internazionali di Cosa Nostra sono probabilmente in altre mani.

Certo, la questione del rientro degli «americani» (Inzerillo ed altri) costituisce un problema ancora irrisolto e non siamo in grado di prevedere come si evolverà. È l’eredità dei corleonesi, e la scelta della linea politica della mafia siciliana, a costituire il prossimo terreno d’accordo o di scontro all’interno della commissione interprovinciale e vedremo presto che cosa succederà.

Proprio per questo non ci si può far prendere da un ottimismo eccessivo e ritenere che la mafia abbia perduto la sua guerra e che lo Stato stia per vincerla. Al contrario, le posizioni segnalano che, al di là di battaglie singole pur significative, vale la pena ricordare che, nelle tre regioni in cui il dominio territoriale delle cosche resta invasivo e il controllo economico soffocante (Sicilia, Calabria, Campania e una parte della Puglia), la mafia ha conseguito risultati imbarazzanti per una democrazia moderna.

Economia, società e istituzioni sono condizionate in maniera determinante dall’espansione dei metodi mafiosi presenti nella società politica, come in quella civile ed economica.

I politici o i magistrati che si spingono a cercare di combatterle o operano in maniera contraddittoria si trovano subito in pericolo e in casi estremi vengono eliminati (basta ricordare il caso Fortugno in Calabria). Oppure il caso opposto del presidente della regione siciliana processato, con qualche innegabile fondamento, segnala forme di penetrazione che non risparmiano neppure i vertici istituzionali.

La verità storica dimostra, almeno da centocinquant’anni, che il processo di conquista da parte delle mafie (e in questo momento sono la ’ndrangheta e la camorra a guidare la corsa grazie alla maggior disgregazione delle due regioni interessate e un numero minore di sconfitte politico-militari) procede e, sul piano economico-finanziario, ha conseguito risultati assai difficili da mettere in discussione. Le ragioni che hanno condotto a questa difficile situazione sono chiare ma le classi dirigenti italiane (parlo della coalizione che governa come di quella che è all’opposizione pur con rilevanti e note differenze) stentano ancora, pur dopo tutta l’esperienza storica ormai accumulata, a rendersi conto che la repressione di polizia e magistratura, sempre necessaria, non può da sola (anche se fosse costante e tutti sappiamo che così non è stato nell’ultimo decennio) risolvere il problema.

Mancano altri due strumenti difficili da mettere in azione ma indispensabili per mettere la mafia in crisi grave e addirittura definitiva.

Il primo è costituito dallo sviluppo economico delle tre regioni direttamente interessate che oggi è malato e, almeno in buona parte, caratterizzato da meccanismi parassitari. Penso in questo momento alla situazione campana, in cui, nelle precedenti esperienze di governo, né il centro-destra né il centro-sinistra sono riusciti a innescare regole virtuose, a livello locale come nazionale, per uscire dal sottosviluppo.

E lo stesso discorso si può applicare alla Calabria che ha visto, più o meno negli stessi anni, cambiare i governi locali senza verificare risultati positivi. Non basta cambiare le èlites di governo o gli obbiettivi enunciati per ottenere salti di qualità rilevanti. È troppo forte l’inquinamento mafioso o il processo disgregativo è andato troppo avanti nella conquista della società politica e di quella civile?

Ma l’altro strumento di cui si parla assai poco e che nel lungo periodo può essere davvero decisivo è quello della mentalità collettiva, dell’acculturazione delle grandi masse popolari e piccolo-borghesi ma anche di quelle delle classi dirigenti locali.

Manca, in quelle regioni, una cultura dello stato di diritto, degli interessi generali, dello spirito di cooperazione moderno,di un superamento degli interessi individuali e familiari o del clan particolare.

E non basta far retorica su questi problemi. È necessaria, al contrario, un’opera costante a livello nazionale e locale per inoculare, negli anni infantili e dell’adolescenza, i valori fondamentali di una convivenza civile caratterizzata dalle regole del diritto, dell’uguaglianza, della solidarietà piuttosto che quelle della prepotenza e dell’arroganza a livello individuale come a quello collettivo.

Sembra un’utopia irrealizzabile? Eppure è un obbiettivo in gran parte realizzato nei maggiori paesi europei come la Francia, la Germania, l’Inghilterra e la Spagna. Che cosa manca al nostro paese perché si vada in questa direzione? Aspettiamo risposte dal governo che sosteniamo con convinzione dal momento in cui ha iniziato la sua opera.

Pubblicato il: 08.11.07
Modificato il: 08.11.07 alle ore 15.05

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