L'aggressione notturna dei berluskones all'abitazione di Nichi Vendola mi ha ricordato quella dei facinorosi fascisti ad Emilio Lussu. A differenza di Lussu Vendola non ha sparato agli aggressori.Le reazioni del mondo politico sono state formali e freddine o addirittura ostili. Radio Padania si rammarica del fatto che Vendola non abbia riportato danni più seri. Il presidente Napolitano avrebbe dovuto inviare a Vendola ed al suo partito un messaggio di solidarietà. Non lo ha fatto.Il fascismo continua a rotolare come una valanga.
Il fascismo cominciò con aggressioni individuali ad esponenti della opposizione liberale e socialista. Non ci fu soltanto l'assassinio di Giacomo Matteotti e dei fratelli Rosselli ma la bastonatura con esiti mortali di Amendola. Molti deputati dell'Aventino furono seviziati.
Pietro Ancona
venerdì 31 dicembre 2010
giovedì 30 dicembre 2010
Il Patto di Palazzo Vidoni (1925) rinverdito da Marchionne e Cisl ed Uil
La Confederazione generale dell'industria riconosce nella Confederazione delle corporazioni fasciste e nelle Organizzazioni sue dipendenti la rappresentanza esclusiva delle maestranze lavoratrici.
La Confederazione delle corporazioni fasciste riconosce nella Confederazione generale dell'industria e nelle Organizzazioni sue dipendenti la rappresentanza esclusiva degli industriali.
Tutti i rapporti contrattuali tra industriali e maestranze dovranno intercorrere tra le Organizzazioni dipendenti della Confederazione dell'industria e quelle dipendenti della confederazione delle corporazioni.
In conseguenza le commissioni interne di fabbrica sono abolite e loro funzioni sono demandate al sindacato locale, che le eserciterà solo nei confronti della corrispondente Organizzazione industriale.
Entro dieci giorni saranno iniziate le discussioni delle norme generali da inserirsi nei regolamenti
>http://www.storiain.net/arret/num99/artic1.asp
Ludovico d'Aragona ( la storia si ripete con qualche variante: dalla lunga barba bianca agli occhi di ghiaccio della Camusso)
Ludovico D'Aragona, nato a Cernusco sul Naviglio (Milano) nel 1876, è segretario generale della Cgdl dal 1918 al 1925. Esponente di un riformismo moderato, entra in contrasto con il movimento dei Consigli di Fabbrica durante le fasi calde del biennio rosso. Dopo la svolta del 1925-27 partecipa con Rigola all’esperienza di “Problemi del lavoro”. Deputato alla Costituente per il Psiup, dal 1947 si unisce a Saragat nella costruzione del Partito Socialdemocratico. Senatore nella prima legislatura, muore a Roma nel 1961.
Rigola e D'Aragona appoggiarono le leggi sindacali fasciste di Mussolini
http://books.google.it/books?id=i0B0pptCs4oC&pg=PA148&lpg=PA148&dq=%22problemi+del+lavoro+%22rigola+d%27aragona&source=bl&ots=SMgRY2cGfj&sig=60Dhcy4J-s3c9U2q4OYoL5HTOnI&hl=it&ei=SqkcTbSMBsWKswbWg9XyDA&sa=X&oi=book_result&ct=result&resnum=4&sqi=2&ved=0CC0Q6AEwAw#v=onepage&q=%22problemi%20del%20lavoro%20%22rigola%20d'aragona&f=false
leggi didascalia sopra
La Confederazione delle corporazioni fasciste riconosce nella Confederazione generale dell'industria e nelle Organizzazioni sue dipendenti la rappresentanza esclusiva degli industriali.
Tutti i rapporti contrattuali tra industriali e maestranze dovranno intercorrere tra le Organizzazioni dipendenti della Confederazione dell'industria e quelle dipendenti della confederazione delle corporazioni.
In conseguenza le commissioni interne di fabbrica sono abolite e loro funzioni sono demandate al sindacato locale, che le eserciterà solo nei confronti della corrispondente Organizzazione industriale.
Entro dieci giorni saranno iniziate le discussioni delle norme generali da inserirsi nei regolamenti
>http://www.storiain.net/arret/num99/artic1.asp
Ludovico d'Aragona ( la storia si ripete con qualche variante: dalla lunga barba bianca agli occhi di ghiaccio della Camusso)
Ludovico D'Aragona, nato a Cernusco sul Naviglio (Milano) nel 1876, è segretario generale della Cgdl dal 1918 al 1925. Esponente di un riformismo moderato, entra in contrasto con il movimento dei Consigli di Fabbrica durante le fasi calde del biennio rosso. Dopo la svolta del 1925-27 partecipa con Rigola all’esperienza di “Problemi del lavoro”. Deputato alla Costituente per il Psiup, dal 1947 si unisce a Saragat nella costruzione del Partito Socialdemocratico. Senatore nella prima legislatura, muore a Roma nel 1961.
Rigola e D'Aragona appoggiarono le leggi sindacali fasciste di Mussolini
http://books.google.it/books?id=i0B0pptCs4oC&pg=PA148&lpg=PA148&dq=%22problemi+del+lavoro+%22rigola+d%27aragona&source=bl&ots=SMgRY2cGfj&sig=60Dhcy4J-s3c9U2q4OYoL5HTOnI&hl=it&ei=SqkcTbSMBsWKswbWg9XyDA&sa=X&oi=book_result&ct=result&resnum=4&sqi=2&ved=0CC0Q6AEwAw#v=onepage&q=%22problemi%20del%20lavoro%20%22rigola%20d'aragona&f=false
leggi didascalia sopra
Ora abbiamo Fassino, Chiapparino, Bonanni ed altri al posto dei gerarchi fascisti.
Il PD interviene pesantemente per indurre gli operai (discendenti dai consigli di fabbrica con Gramsci) a votare a favore del si all'Ordinanza Marchionne e financo ad incitare per isolare gli operai che sono per il no.....
Il PD interviene pesantemente per indurre gli operai (discendenti dai consigli di fabbrica con Gramsci) a votare a favore del si all'Ordinanza Marchionne e financo ad incitare per isolare gli operai che sono per il no.....
mercoledì 29 dicembre 2010
Ho sentito a Rai new24 la conferenza stampa di Landini. E' una forza naturale straordinaria sorretta da viva intelligenza e da una forte capacità di ragionamento logico. Rappresenta fino in fondo la classe lavoratrice,. Ha tratti che ricordano molto Giuseppe Di Vittorio nella semplicità della esposizione e nella passione civile per ciò che incarna.
Nella palude che ha inghiottito il sindacato e parte della sinistra italiana, è un punto di riferimento forte..... dobbiamo aiutarlo a fare un grande scioper il 28 gennaio
dal PCI dei Consigli di Fabbrica di Gramsci al PD sionista e partito-fiat di Fassino
Fassino candidato sindaco di Torino si schiera apertamente con Marchionne e farà campagna per il si al referendum assieme al gruppo dirigente del PD che vuole agevolare la sua elezione a Sindaco per toglierselo di torno. La collocazione degli Oligarchi è più importante della vita e dei diritti dei lavoratori.
Fiat, Fassino su Mirafiori: “Se fossi un lavoratore voterei sì all’accordo”
www.blitzquotidiano.it
''Se fossi un lavoratore della Fiat voterei sì all'accordo, tuttavia l'azienda
Fiat, Fassino su Mirafiori: “Se fossi un lavoratore voterei sì all’accordo”
www.blitzquotidiano.it
''Se fossi un lavoratore della Fiat voterei sì all'accordo, tuttavia l'azienda
martedì 28 dicembre 2010
Una citazione a sproposito di Di Vittorio della camusso
Una citazione a sproposito della signora Camusso.
Per suffragare con una autorità moralmente indiscussa il suo attacco alla Fiom la signora Camusso cita Giuseppe Di Vittorio che avrebbe affermato: Quando c'è una sconfitta non possono non essere stati commessi degli errori. Nessuna grande sconfitta è figlia solo della controparte."
Non credo che Giuseppe Di Vittorio abbia mai fatto simile affermazione ed in ogni caso bisogna leggerla nel contesto in cui è stata scritta. Ma ammesso che Di Vittorio l'abbia mai pronunziata non è detto che sia vera e che sia giusta. La sconfitta può essere il portato di una serie infinita di variabili e metto tra queste l'isolamento della Fiom dovuto ad un atteggiamento anormale della sua stessa Confederazione ed al passaggio di quello che dovrebbe essere il partito di opposizione parlamentare dalla difesa operaia alla destra al campo della Confindustria e di Marchionne in particolare. Purtroppo il PD è erede del PCI che fu autonomo dalla Fiat fino a Berlinguer. Se oggi la Fiom è sola a fronteggiare l'attacco della tigre confindustriale fiancheggiata da numerosi sciacalli che sperano di spolpare qualcosa della sua carcassa certo questo non è addebitabile a suoi errori quanto alla sua coerenza e fedeltà agli interessi non solo dei metalmeccanici ma di tutti i lavoratori italiani.
Forse la signora Camusso non sa o finge di non sapere che la CGIL non è nuova a processi degenerativi che dal riformismo padano l'hanno condotta all'apostasia degli ideali fondativi che l'hanno animata. A causa di uno di questi processi Giuseppe Di Vittorio uscì dalla CGIL per fondare una nuova organizzazione sindacale l'USI su posizioni di autentica difesa dei lavoratori italiani. Di Vittorio era riformista e rivoluzionario. Difese con le armi la Camera del Lavoro di Bari assediata dai fascisti. Il suo riformismo era liberazione dei lavoratori dalle catene dello sfruttamento con ferma e costante gradualità senza mai cedere sui contenuti essenziali della libertà e della dignità. La stessa cosa non si può dire del "riformismo" della Camusso e del PD che è proteso alla cancellazione di tutte le conquiste realizzate nel corso del novecento.
Ieri la CGIL si è collocata apparentemente in una posizione terza tra la Fiom e la Fiat. Ha attaccato come autoritario Marchionne ma ha addebitato alla Fiom la fattura della sconfitta subita prima a Pomigliano e poi a Mirafiori e non dubito che ne esigerà il pagamento nelle prossime settimane. In effetti mi aspetto una sorta di pogrom del gruppo dirigente "ribelle"
della Fiom mentre andrà avanti la realizzazione di una parte importante del Piano Rinascita di Gelli e dei piani concordati a Bildelberg di spoliazione dei lavoratori di ogni loro diritto
fino a cambiare il giuslavorismo da garante di diritti a summa di obblighi imposti ai prestatori d'opera.
Non si farà lo sciopero generale chiesto dalla Fiom anche se Sacconi indica il carattere generale valevole per tutta l'industria italiana degli accordi fatti a Torino. Lo sciopero generale non si farà perchè ci sono patti parasociali al patto sociale stipulato a partire dagli incontri Marcegaglia- Epifani di Genova che lo vietano. Infatti la Camusso ha programmato una serie di ridicole e grottesche marcette per il lavoro di carattere territoriale per dare sfogo a quanti chiedono che si faccia qualcosa contro la crisi e contro l'attacco ai diritti.
Ha ragione Cremaschi a paragonare quanto sta succedendo in Fiat agli eventi del 1925 che cancellarono il sindacato in fabbrica a vantaggio del corporativismo padronale sostenuto da Mussolini. Ma c'è di più e di peggio. C'è la truffa della newco e cioè della Fiat che cambia pelle come un serpente e si sostituisce a se stessa con altro nome per sfuggire agli obblighi
assunti appunto come Fiat. Trattasi di un fumus, di una truffa realizzata sotto gli occhi di tutti con la complicità del mondo politico e confindustriale che ne ricava un esempio per fare altrettanto quando gli farà comodo. Ed anche della truffa del contratto aziendale, una invenzione da legulei per danneggiare i lavoratori ed imporre loro, nella continuità vera della impresa con denominazione diversa e con contratto diverso, condizioni financo anticostituzionali e del tutto illegali. La CGIL avrebbe potuto impugnare legalmente questa
truffa che non bisogna essere dimostrata perchè è palese al pubblico. Se fosse ancora un Sindacato dei lavoratori avrebbe dovuto non riconoscere le newco della fiat come entità
legittime. Ma nè la CGIL nè il PD si sognano di fare qualcosa del genere dal momento che sono inglobati sia pure con qualche apparente maldipancia nel gruppo che sta cambiando radicalmente la costituzione materiale ed il diritto del lavoro a vantaggio della imprenditoria che si è dato un programma che sta realizzando a tappe forzate dalla legge Biagi al collegato lavoro allo scippo pensionistico alla riforma della contrattazione.
Perchè la CGIL fa tutto questo? Perchè ormai non è più se stessa. Ora è una holding, una conglomerata di partecipazioni societarie a centinaia e centinaia di enti bilaterali che gestiscono un badget di miliardi di euro e dispongono di migliaia di dipendenti molti dei quali ingaggiati con la legge Biagi. Gli interessi della CGIL sono oramai simili ed omologati a quelli della Confindustria e sono entrati in conflitto con quelli dei lavoratori.
La dottrina dietro la quale si nasconde questa tumorale degenerazione è quella della sussidarietà che per prosperare ha bisogno di crisi sempre più acute del welfare. Ecco quindi che il conflitto si estende financo allo Stato sociale.
Questa è la grande patologia italiana: Sindacati che sono compromessi con il padronato con legami assai forti in centinaia e centinaia di enti bilaterali ed un Parlamento fatto tutto di partiti favorevoli o strumenti della Confindustria. Nel mondo, ad eccezione degli USA, non è così: i sindacati stanno dalla parte dei lavoratori ed in Parlamento c'è quasi dappertutto un partito socialista o socialdemocratico o comunista che non tiene il sacco alla destra al potere.
Pietro Ancona
http://medioevosociale-pietro.blogspot.com/
www.spazioamico.it
er sindacato trasformato di bruno panuccio
Evolve er monno cor progresso,
e s’adatta pure er sindacato,
chi è da tutelà n’è più lo stesso,
...er vento se sa…ormai è cambiato .
Se va a cena co ‘r padrone,
….lì se magna proprio bene,
tra gran risate e zoccolone,
che te trastulleno anche er pene.
Viemme a dì che son volgare,
che m’esprimo assai maleducato,
ma è sempre mejo che rubare,
in tasca a chi ve ci ha ‘nsediato.
Nun fanno manco i Carbonari,
chiaman pure i giornalisti,
in gran sfilata coi compari,
tant’allegri nun l’ho mai visti.
Vabbè, adesso faccio er serio,
e analizzamo la questione:
è tutta colpa de ‘n batterio,
che ha ’nfestato ‘sta nazione.
Se chiama er “virus der cojone”:
a quando annò a votà pe’ l’industriale,
or ci aripensi l’operaio pecorone,
…a chi è la causa del suo male !!!!
( Bruno Panuccio 24/06/2010 )
e s’adatta pure er sindacato,
chi è da tutelà n’è più lo stesso,
...er vento se sa…ormai è cambiato .
Se va a cena co ‘r padrone,
….lì se magna proprio bene,
tra gran risate e zoccolone,
che te trastulleno anche er pene.
Viemme a dì che son volgare,
che m’esprimo assai maleducato,
ma è sempre mejo che rubare,
in tasca a chi ve ci ha ‘nsediato.
Nun fanno manco i Carbonari,
chiaman pure i giornalisti,
in gran sfilata coi compari,
tant’allegri nun l’ho mai visti.
Vabbè, adesso faccio er serio,
e analizzamo la questione:
è tutta colpa de ‘n batterio,
che ha ’nfestato ‘sta nazione.
Se chiama er “virus der cojone”:
a quando annò a votà pe’ l’industriale,
or ci aripensi l’operaio pecorone,
…a chi è la causa del suo male !!!!
( Bruno Panuccio 24/06/2010 )
lunedì 27 dicembre 2010
NOTICINE SU FB
surreali dichiarazioni di bersani sulla Fiat e sul contratto aziendale separato. Ha detto che l'investimento ha la priorità assoluta. (tradotto: il lavoro anche senza diritti) poi ha detto qualcosa di molto anodino sulla espulsione della Fiom da Mirafiori. Non si è strappato la corona di capelli che gli restano per la fiom e per i metalmeccanici.
E' necessario ch Sel, RC, Pdci, cessino il comportamento di equidistanza tra Fiom e CGIL che nei fatti si traduce in un isolamento della Fiom dal momento che la CGIL è fortemente sostenuta dal PD. Debbono intervenire a sostegno della richiesta dello sciopero generale e contro le manovre di palazzo contro il gruppo dirigente Fiom
I Mille e passa Oligarchi della Camera e del Senato ricevono 4500 euro al mese per il loro segretario. Solo una piccola parte di questi arrivano al portaborse ed il resto viene intascato tranquillamente dall'onorevole. Credo che lavorino in nero....
Avremo mai giustizia per i precari italiani da questa gente?
pALESTINA DEL MIO CUORE
due Popoli due Stati è parola d'ordine perdente ed irrealizzabile. Meglio un solo Stato Federato con un Parlamento Comune. Ma questa soluzione che è seria rispetto ai micro-stati presuppone un Israele pacifico che l'Occidente non vuole.3 ore fa cancella
COPERTURE
per una parte delle nefandezze perpetrate da Marchionne c'è una copertura indiretta della Cgil tramite la Confindustria. Il patto sociale firmato da CGIL alla Confindustria a Cisl ed Uil ed il rifiuto di fare lo sciopero generale più la propensione di Chiapparotto, Fassino, Ichino ed altri per Marchione sono indicativi di responsabilità assai larghe....
mINUETTI DELLA VOLPE
L'ineffabile signora Camusso fa finta di attaccare Marchionne in effetti per attaccare la Fiom che, secondo lei, sarebbe corresponsabile della sconfitta subita alla Fiat. "nessuna sconfitta è figlia di una sola parte" Si cita a sproposito Di Vittorio. In effetti vuole "normalizzare la Fiom" e continuare a gestire assi...eme a Cisl Uil Cionfindustria un potere paragagovernativo in Italia
http://www.repubblica.it/economi
uno delle migliaia di enti che hanno legato mani e piedi i sindacati dei lavoratori al padronato. Interessi economici enormi e migliaia di dipendenti. Gli interessi di CGIL Cisl ed UIL sono entrati in conflitto con quelli dei lavoratori che rappresentano. Per giustificarsi inventano teorie come quelle della sussidiari...età...
http://www.foncoop.coop/
http://www.foncoop.coop/
E' necessario ch Sel, RC, Pdci, cessino il comportamento di equidistanza tra Fiom e CGIL che nei fatti si traduce in un isolamento della Fiom dal momento che la CGIL è fortemente sostenuta dal PD. Debbono intervenire a sostegno della richiesta dello sciopero generale e contro le manovre di palazzo contro il gruppo dirigente Fiom
I Mille e passa Oligarchi della Camera e del Senato ricevono 4500 euro al mese per il loro segretario. Solo una piccola parte di questi arrivano al portaborse ed il resto viene intascato tranquillamente dall'onorevole. Credo che lavorino in nero....
Avremo mai giustizia per i precari italiani da questa gente?
pALESTINA DEL MIO CUORE
due Popoli due Stati è parola d'ordine perdente ed irrealizzabile. Meglio un solo Stato Federato con un Parlamento Comune. Ma questa soluzione che è seria rispetto ai micro-stati presuppone un Israele pacifico che l'Occidente non vuole.3 ore fa cancella
COPERTURE
per una parte delle nefandezze perpetrate da Marchionne c'è una copertura indiretta della Cgil tramite la Confindustria. Il patto sociale firmato da CGIL alla Confindustria a Cisl ed Uil ed il rifiuto di fare lo sciopero generale più la propensione di Chiapparotto, Fassino, Ichino ed altri per Marchione sono indicativi di responsabilità assai larghe....
mINUETTI DELLA VOLPE
L'ineffabile signora Camusso fa finta di attaccare Marchionne in effetti per attaccare la Fiom che, secondo lei, sarebbe corresponsabile della sconfitta subita alla Fiat. "nessuna sconfitta è figlia di una sola parte" Si cita a sproposito Di Vittorio. In effetti vuole "normalizzare la Fiom" e continuare a gestire assi...eme a Cisl Uil Cionfindustria un potere paragagovernativo in Italia
http://www.repubblica.it/economi
uno delle migliaia di enti che hanno legato mani e piedi i sindacati dei lavoratori al padronato. Interessi economici enormi e migliaia di dipendenti. Gli interessi di CGIL Cisl ed UIL sono entrati in conflitto con quelli dei lavoratori che rappresentano. Per giustificarsi inventano teorie come quelle della sussidiari...età...
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Domenico Losurdo parla del comunismo
su l'Ernesto Online del 24/11/2010
La controrivoluzione di fase e l'esigenza sociale e politica della ricostruzione del Partito ComunistaSiamo ad Urbino, con il professor Domenico Losurdo, ordinario di storia della filosofia presso l’università “Carlo Bo” di Urbino, filosofo di fama internazionale e presidente dell’associazione Marx XXI. Ci ha gentilmente concesso il suo tempo perché è fondamentale conoscere il punto di vista di un intellettuale in questo momento di congiuntura in cui siamo di fronte ad un attacco del capitale (contro l'intero mondo del lavoro, contro la democrazia, contro la Costituzione nata dalla Resistenza) che è tra i più alti e pericolosi dell'intera nostra storia repubblicana. Di fronte a tale attacco si distende un deserto, l'assenza di un'opposizione di classe e di massa che possa in qualche modo respingere l'offensiva della reazione e rilanciare una controffensiva. Quello che io le chiedo è : come è accaduto tutto questo? Cosa manca, come ricostruire una diga, una resistenza, un contrattacco?
D. Losurdo: Possiamo fare una distinzione tra due problemi che accompagnano la storia della Repubblica in tutto il suo arco. Il primo problema è la sperequazione tra nord e sud: già Togliatti ha sottolineato che la «questione meridionale» è una questione nazionale e oggi stiamo vedendo come la mancata soluzione del sottosviluppo nel Sud rischia di mettere in pericolo l’unità nazionale.
L’altro problema è un’ingiustizia sociale che si manifesta in modo particolarmente clamoroso nel fenomeno dell’evasione fiscale. E’ appena il caso di dire che questo flagello non è stato contenuto in alcun modo, anzi, semmai è diventato più scandaloso, più esplicito. C’è stato persino l’incoraggiamento del Presidente del Consiglio: egli ne ha parlato come di qualcosa che può essere tollerato nel caso in cui il singolo individuo, cioè il ricco capitalista, ritenga di essere stato troppo colpito dalla pressione fiscale.
Se questi due problemi accompagnano la storia della Repubblica in tutto l’arco della sua evoluzione, noi possiamo aggiungere che ci sono oggi problemi nuovi, i quali fanno pensare ed una vera e propria controrivoluzione. Forse l’anno di svolta è rappresentato dal 1991, l’anno che vede la fine del Partito Comunista Italiano. Questa fine era stata propagandata con aspettative enfatiche: gli ex-comunisti sentenziavano che, facendola finita con un partito legato al discreditato «socialismo reale», tutto sarebbe diventato più facile: ci si sarebbe liberati del «piombo nelle ali» e si sarebbero sviluppati la democrazia e lo Stato sociale; insomma, tutto sarebbe andato per il meglio. E’ appena il caso di dire che in realtà noi ci troviamo dinanzi ad una controrivoluzione, che certo non è esclusiva dell’Italia dato che ha carattere internazionale, ma che nel nostro paese si manifesta con particolare virulenza.
Vediamo quali sono gli elementi di questa controrivoluzione: la Repubblica Italiana nata dalla Resistenza, e contrassegnata dalla presenza di un forte Partito Comunista all’opposizione, non si era mai impegnata direttamente in operazioni belliche; ai giorni nostri, invece, la partecipazione a guerre di carattere chiaramente coloniale è considerata come qualcosa di normale, persino di doveroso.
Si assiste inoltre ad un attacco contro lo Stato sociale, al suo smantellamento: questo è sotto gli occhi di tutti. Meno evidente è invece un fatto su cui io vorrei richiamare l’attenzione: l’attacco allo Stato sociale non è determinato in primo luogo dal problema delle compatibilità economiche, dalla necessità del risparmio perché mancherebbero i soldi (tanto per intenderci). Dobbiamo ricordare che uno dei patriarchi del neoliberismo (è stato incoronato anche del premio Nobel per l’economia), Friedrich August von Hayek già negli anni ‘70 del secolo scorso dichiarava che i diritti economico-sociali (quelli protetti evidentemente dallo Stato sociale), erano un’invenzione da lui consderata rovinosa: erano il risultato dell’nfluenza esercitat dalla «rivoluzione marxista russa». Egli chiamava dunque a sbarazzarsi di questa eredità ingombrante. Ben si comprende che, al venire meno della sfida rappresentata dall’Unione Sovietica e da un forte campo socialista, abbia corrisposto e stia corrispondendo sempre di più lo smantellamento dello Stato sociale.
C’è infine un terzo aspetto della controrivoluzione, e noi non possiamo perderlo di vista. E’ un vero e proprio attacco alla democrazia, che assume forme particolarmente clamorose in fabbrica. In questo caso la controrivoluzione è così evidente da essere quasi dichiarata: il potere padronale deve potersi esercitare senza troppi vincoli, la Costituzione non deve essere un motivo di impaccio nei rapporti di lavoro. Ma c’è un aspetto che va al di là della fabbrica e che riguarda la società nel suo complesso: è l’avanzare del «bonapartismo soft» (come l’ho definito nel mio libro Democrazia o bonapartismo) incarnato nel nostro paese dal Presidente del Consiglio. A proposito dell’ascesa di questo personaggio vorrei richiamare l’attenzione su un altro fenomeno non meno inquietante: oggi la ricchezza esercita un peso politico immediato. Fin quando c’era in Italia il sistema proporzionale, esso rendeva più agevole la formazione di partiti politici di massa, e ciò consentiva di contenere entro certi limiti il peso politico della ricchezza, che oggi invece si esprime in modo immediato e persino sfrontato. Assistiamo all’emergere e all’affermarsi di un leader politico che, a partire dalla concentrazione dei mezzi di informazione e facendo uso spregiudicato dell’enorme ricchezza a sua disposizione, pretende di esercitare, ed in effetti esercita, un potere decisivo sulle istituzioni politiche e rivela una globale capacità di corruzione e di manipolazione.
A questo punto si può tracciare un primo bilancio: la svolta del 1991, che aveva visto lo scioglimento del PCI e che avrebbe dovuto favorire il rinnovamento democratico e sociale dell’Italia, è stata in realtà il punto di partenza di una controrivoluzione che è certo di dimensioni internazionali, ma che si avverte in modo particolarmente doloroso in Italia, nel paese che, grazie alla Resistenza e alla presenza di una forte sinistra e di un forte Partito Comunista, aveva conseguito conquiste democratiche e sociali assai rilevanti.
A questo proposito le chiedo: come è stato possibile che proprio in un paese, che dovrebbe avere una memoria ancora fresca di quella che è stata la Resistenza, si sia arrivati ad un’anestetizzazione delle coscienze così forte da far sì che il nostro Presidente del Consiglio venga amato anche dal punto di vista personale, venga invidiato? Come spiegare da un lato la fascinazione per il «self made man» e dall’altro fenomeni quali l’antipolitica di Grillo? E ancora, pensando a quello che potremmo definire il terzo polo: come spiegare la fascinazione che prova la sinistra per una personalità quale quella di Vendola, che fino a ieri faceva parte di Rifondazione Comunista e che ora riempie il vuoto genericamente apertosi a sinistra del Partito Democratico?
D. Losurdo: Noi stiamo assistendo ad una controrivoluzione, di cui ho già definito gli elementi politici centrali; non dobbiamo però dimenticare che questa controrivoluzione si svolge anche a livello ideologico-culturale. Si sta riscrivendo in modo assolutamente fantasioso e vergognoso la storia non soltanto del nostro paese ma del XX secolo nel suo complesso.
Quali sono gli elementi fondamentali di questa storia? A partire dalla Rivoluzione d’ottobre sono iniziati tre giganteschi processi di emancipazione. Il primo è quello che ha investito i popoli coloniali: alla vigilia della svolta del 1917 i paesi indipendenti erano soltanto un numero assai ristretto, quasi tutti collocati in Occidente. Era una colonia l’India, era un paese semi-coloniale la Cina; tutta l’America Latina era sottoposta al controllo della dottrina Monroe e degli Usa. L’Africa era stata spartita tra le varie potenze coloniali europee. In Asia erano una colonia l’Indonesia, la Malaysia ecc. Il gigantesco processo di de-colonizzazione e di emancipazione che ha messo fine a tale situazione ha avuto il suo primo impulso dalla Rivoluzione d’ottobre.
Il secondo processo è quello dell’emancipazione femminile: è importante ricordare che il primo paese nel quale le donne hanno goduto della totalità dei diritti politici ed elettorali (attivi e passivi) è stata la Russia rivoluzionaria tra il febbraio e l’ottobre del 1917. Solo in un secondo momento sono giunti al medesimo risultato la Germania della Repubblica di Weimar, scaturita da un'altra rivoluzione, quella del novembre 1918, e successivamente gli Stati Uniti. In paesi quali l’Italia e la Francia le donne hanno conquistato l’emancipazione solo sull’onda della Resistenza antifascista.
Il terzo processo infine è stato la cancellazione della discriminazione censitaria che, in tema di diritti politici, continuava a discriminare negativamente le masse popolari: nell’Italia liberale e sabauda, piuttosto che essere eletto dal basso, il Senato era appannaggio della grande borghesia e dell’aristocrazia. La discriminazione censitaria si faceva sentire anche in Inghilterra, e non solo per la presenza della Camera dei lords; ancora nel 1948 vi erano 500.000 persone che godevano del voto plurale e dunque della facoltà di votare più volte: erano considerate più intelligenti (naturalmente, si trattava di ricchi di sesso maschile).
In conclusione. Nel corso del Novecento si è sviluppato su tre fronti un gigantesco processo di emancipazione, che è partito dalla Rivoluzione d’Ottobre e dalla lotta contro la guerra e la carneficina del primo conflitto mondiale. Tutto ciò è oggi dimenticato e rimosso sino al punto che, nell’ideologia oggi dominante, la storia del comunismo diviene la storia dell’orrore.
Il paradosso è che a questa gigantesca manipolazione non ha partecipato soltanto la destra propriamente detta; ad essa ha fornito il suo bravo contributo anche Fausto Bertinotti, di cui Vendola è l’erede e il discepolo. Non c’è dubbio, si è impegnato anche lui nel tentativo di cancelare dalla memoria storica il gigantesco e molteplice processo di emancipazione scaturito dalla rivoluzione d’ottobre: di questo grande capitolo di storia egli ha tracciato un quadro che non è molto diverso da quello tracciato dall’ideologia e dalla classe dominante.
Si è venuta così a costituire una cultura, o meglio un’«incultura», che è di grande aiuto all’ordinamento esistente. Come sul piano più propriamente politico, anche su quello ideologico è all’opera quello che io (sempre nel mo libro Democrazia o bonapartismo) ho definito il regime di «monopartitismo competitivo». Vediamo all’opera un unico partito che, con modalità diverse, rinvia alla stessa classe dominante, alla borghesia monopolistica. Certo, non manca il momento della competizione elettorale, ma si tratta di una competizione tra ceti politici ognuno dei quali cerca di realizzare le sue ambizioni di corto respiro, senza mettere in alcun mdo in discussione il quadro strategico, l’orientamento culturale di fondo e la classe sociale di riferimento, e cioè la borghesia monopolistica: su ciò non si discute neppure.
Questa è la situazione dinanzi alla quale ci troviamo: il Monopartitismo Competitivo. La cancellazione del sistema proporzionale ne ha favorito il consolidamento.
E, in assenza di una vera alternativa, si comprendono i fenomeni dell’antipolitica, del «grillismo»: nonostante le declamazioni, essi finiscono col far parte integrante del regime politico e dello stesso panorama desolante che ho cercato brevemente di descrivere.
Quei fenomeni sono quindi un’altra forma di anestetizzazione, un tentativo di imbrigliare un qualche tipo di reazione seppur appartenenti allo stesso ceppo.
D. Losurdo: E’ un dato di fatto che oggi manca una forza politica organizzata e strutturata che si contrapponga alla manipolazione ideologica e storiografica e al monopartitismo competitivo oggi imperanti. Risultano così incontrastati il dominio e l’egemonia della borghesia monopolistica nonché la controrivoluzione neoliberista e filo-imperialista di cui ho già parlato.
Un movimento comunista sarebbe necessario proprio per le questioni di fondo che investono l’Italia e il mondo nel suo complesso. Perché nel nostro paese il movimento comunista vive una crisi così profonda?
D. Losurdo: A partire dal 1989 c’è stata una vitalità rinnovata per le forze della conservazione e della reazione e questa vitalità si è manifestata anche in Italia. Ciò non deve stupirci. A dover suscitare la nostra interrogazione è un altro fatto: perché nel nostro paese questa offensiva controrivoluzionaria ha trovato così scarsa resistenza, anzi non ha trovato resistenza alcuna e in alcuni casi, come ho già detto, ha potuto godere di un incoraggiamento anche da parte di coloro che dovevano costituire la sinistra?
A partire dal 1989 anche a sinistra si è cominciato a dire che il comunismo era morto. A proposito di questa parola d’ordine, che ritorna di continuo, vorrei fare alcune considerazioni come storico e come filosofo. Essa si pretende nuova ma è in realtà assai vecchia: il comunismo è sempre stato dichiarato morto, in tutto il corso della sua storia; anzi, si potrebbe dire che il comunismo è stato dichiarato morto prima ancora che nascesse.
Non si tratta di un paradosso o di una battuta di spirito. Vediamo quel che succede nel 1917: non è ancora scoppiata la Rivoluzione d’ottobre, infuria invece la carneficina della prima guerra mondiale. Proprio in quell’anno un filosofo italiano di statura internazionale, Benedetto Croce, pubblica un libro dal titolo: Materialismo storico ed economia marxistica. La Prefazione si affetta subito a dichiarare che il marxismo e il socialismo sono morti. Il ragionamento è semplice: Marx aveva previsto e invocato la lotta di classe proletaria contro la borghesia e il capitalismo, ma dov’era in quel momento la lotta di classe? I proletari si scannavano fra di loro. Al posto della lotta di classe c’era la lotta fra gli Stati, fra le nazioni, che si affrontavano sul campo di battaglia. E, dunque, la morte del marxismo e del socialismo era sotto gli occhi di tutti. E cioè, prima ancora che emergesse e si sviluppasse il movimento comunista propriamente detto, che vedrà il suo atto di nascita con la Rivoluzione d’ottobre e poi con la fondazione dell’Internazionale comunista, prima ancora di tutto ciò quel movimento era già stato dichiarato morto ad opera di Benedetto Croce. Noi sappiamo oggi, con il senno di poi, che la contesa per l’egemonia e la guerra imperialista, considerati da Croce un fatto immodificabile, hanno costituito la spinta per la Rivoluzione d’ottobre, che si è imposta per l’appunto nella lotta contro la carneficina provocata dal sistema caputalusta e imperialista.
E’ iniziata così la storia del movimento comunista. E sono proseguite le dichiarazioni di morte… Allorché nella Russia sovietica è stata introdotta la NEP, su molti giornali europei e statunitensi sia intellettuali di primissimo piano sia politici eminenti hanno sentenziato: ecco, non c’è più la collettivizzazione totale dei mezzi di produzione che era stata proposta e sollecitata da Karl Marx; Lenin stesso è stato costretto a prendere atto della necessità della svolta; dunque il comunismo è morto. Basta leggere qualche libro di storia un po’ più ricco dei manuali consueti per rendersi conto di quanto sia ricorrente la parola d’ordine di cui stiamo discutendo. Coloro che continuano ad affermare che il comunismo è morto, credendo di dire qualcosa di nuovo, non si rendono conto, per la loro ignoranza storica ovvero per la loro adesione acritica o la loro subalternità all’ideologia dominante, che stanno semplicemente ripetendo uno slogan ricorrente nella storia della lotta della borghesia e dell’imperialismo contro il movimento comunista.
Su questo punto si potrebbe persino concludere con una battuta: c’è un proverbio secondo il quale l’individuo considerato morto, e di cui viene pronunciato l’elogio funebre mentre egli è ancora in vita, è destinato a essere baciato dalla longevità. Se questo proverbio dovesse valere anche per i movimenti politici, coloro che si richiamano al comunismo possono essere assolutamente fiduciosi per il futuro.
Partendo dal presupposto che ci sia la necessità sociale e storica per una nuova ondata rivoluzionaria e che la rinascita di un Partito Comunista sia assolutamente necessaria, quali sono le caratteristiche che esso dovrebbe avere, quali sono i passi che andrebbero compiuti e chi dovrebbe compierli e in che modo?
D. Losurdo: Occorre distinguere la dimensione ideologico-politica da quella organizzativa. Mi concentrerò sulla prima. Ebbene, che senso ha parlare di morte del comunismo, quando ci troviamo dinanzi ad una situazione per la quale la guerra è ritornata all’ordine del giorno, e si aggrava sempre di più il pericolo di un conflitto su larga scala? Sì, finora abbiamo assistito e stiamo ancora assistendo a guerre di tipo coloniale classico: esse si verificano allorché una potenza armata fino ai denti e con una netta superiorità tecnologica e bellica si scatena contro un paese, o contro un popolo, che non può opporre alcuna resistenza. Guerre coloniali sono per esempio quella che la Nato ha scatenato contro la Yugoslavia nel 1999, le diverse guerre del Golfo, la guerra contro l’Afghanistan. Per non parlare della guerra interminabile, la più infame di tutte, che continua a infuriare contro il popolo palestinese.
Ma oggi i grandi organi di informazione internazionali osservano che c’è il pericolo concreto di una guerra su larga scala, quella che si verificherebbe in seguito all’aggressione scatenata da Stati Uniti e da Israele contro l’Iran: non sappiamo quali potrebbero essere gli sviluppi e le complicazioni internazionali. Soprattutto, non dobbiamo perdere di vista la guerra (per ora fredda) che gli Usa cominciano a condurre contro la Repubblica Popolare Cinese: solamente i più provinciali non si rendono conto di ciò. Ci troviamo davanti ad una situazione che rende urgente il compito della lotta contro l’imperialismo e la sua politica di aggressione e di guerra, e ciò ci riconduce evidentemente alla storia del movimento comunista.
L’altro elemento di cui dobbiamo tener conto è la crisi economica. Chi non ricorda i discorsi trionfali, secondo i quali il capitalismo aveva ormai superato le sue crisi periodiche, le crisi di cui aveva parlato Marx? Anzi – ci veniva assicurato – si doveva parlare non solo di fine della crisi ma persino di fine della storia. Ora invece la crisi del capitalismo è sotto i nostri occhi e sono in molti ad avere la sensazione che essa è destinata a durare; non è facle predire i suoi sviluppi, ma certo non si tratta di un fenomeno puramente contingente.
Dunque, chiara è la permanenza di quei problemi, di quelle questioni centrali per rispondere alle quali è sorto il movimento politico comunista.
Veniamo ora al secondo aspetto: che senso ha parlare di fine del comunismo quando vediamo un paese come la Cina, che rappresenta un quinto della popolazione mondiale, essere diretta da un partito comunista? Possiamo e dobbiamo discutere le scelte politiche dei gruppi dirigenti, ma non può non suscitare ammirazione l’ascesa prodigiosa di un paese di dimensioni continentali che libera dalla fame centinaia di milioni di persone e che al tempo stesso muta in profondità (in senso sfavorevole all’imperialismo) la geografia politica del mondo.
A questo punto è necessario porsi una domanda: quale è stato il contenuto politico centrale del XX secolo? Ho già parlato dei tre movimenti di emancipazione che caratterizzano la storia del Novecento. Soffermiamoci su quello che ha avuto lo sviluppo planetario più ampio: tutto il Novecento è attraversato da gigantesche lotte di emancipazione, condotte dai popoli coloniali o che minacciavano di subire l’assoggettamento coloniale: basti pensare alla Cina, al Vietnam, a Cuba, alla stessa Unione Sovietica che, nella lotta contro il tentativo hitleriano di creare un impero coloniale nella stessa Europa Orientale, ha dovuto condurre la Grande guerra patriottica. Questo gigantesco processo si è dileguato nel XXI secolo, nel secolo in cui viviamo? No, non è così, esso continua. C’è però una novità. A parte casi tragici, come quello del popolo palestinese che è costretto a subire il colonialismo nella sua forma classica e più brutale, negli altri paesi la lotta anti-coloniale è passata dalla fase propriamente politico-militare alla fase politico-economica. Questi paesi cercano di assicurarsi non più soltanto l’indipendenza politica, ma anche quella economica; sono quindi impegnati a rompere il monopolio tecnologico che gli Stati Uniti e l’imperialismo avevano creduto di conquistare una volta per sempre. In altre parole, siamo dinanzi alla continuazione della lotta contro il colonialismo e l’imperialismo che ha costituito il contenuto principale del Novecento. E come nel secolo ormai trascorso sono stati i partiti comunisti a stimolare e dirigere questo movimento, così oggi noi vediamo paesi quali la Cina, il Vietnam o Cuba guidare nel XXI secolo questa nuova fase del processo di emancipazione anticoloniale. Non è certo un caso che tutti e tre questi paesi siano diretti da partiti comunisti. Chi dichiara morto il movimento comunista, e ritiene persino di dire una cosa ovvia, non si rende conto di ripetere una scemenza macroscopica.
Quindi esistono le condizioni oggettive materiali, per un rilancio anche in Italia di un Partito Comunista di quadri e con una linea di massa?
D. Losurdo: Credo proprio di sì, anzi ne sono convinto: non si capisce perché l’Italia dovrebbe costituire un’anomalia rispetto al quadro internazionale. Se è vero che in Europa orientale tra il 1989 e il 1991 il movimento comunista ha subito una dura sconfitta, di cui occorre ovviamente prendere atto e tener conto, è anche vero che la situazione mondiale complessiva presenta un quadro assai più variegato e decisamente più incoraggiante. I partiti comunisti dirigono paesi e realtà di una crescente importanza economica e geopolitica. In altre parti del mondo assistiamo a un processo di riorganizzazione ovvero di consolidamento. Per fare un esempio: sono reduce da un viaggio in Portogallo, dove ho avuto modo di apprezzare la presenza del Partito Comunista. È chiaro che in Italia abbiamo una grande tradizione comunista alle spalle e non c’è motivo per non riappropriarsene, ovviamente in maniera critica. Credo che ci siano anche i presupposti non soltanto ideali ma anche politici per mettere fine al frazionamento delle forze comuniste. Andando in giro nel nostro paese, per manifestazioni culturali più ancora che politiche, ho notato che il potenziale comunista è reale. I comunisti sono semplicemente frantumati in diverse organizzazioni, talvolta anche in piccoli circoli: occorre rimboccarsi le maniche e mettersi al lavoro per l’unità, facendo leva in primo luogo sulle forze comuniste che sono presenti già in modo più o meno organizzato a livello nazionale. Penso all’Ernesto, che opera nell’ambito di Rifondazione Comunista, e al PdCI: unendosi, queste due forze dovrebbero essere in grado di lanciare un segnale ai circoli comunisti diffusi sul territorio nazionale, un invito ad abbandonare la rassegnazione e il settarismo per mettersi a lavorare al fine di dare concretezza alle idee e ad un progetto comunista.
Quindi quello che impedisce il costruirsi di un Partito Comunista unico in Italia è a suo parere questa frantumazione, questa stanchezza nell’affrontare nuovamente lotte che molti compagni hanno già fatto?
D. Losurdo: In Italia si fa sentire il peso di una situazione particolare: agisce negativamente l’esperienza di un Partito, quello della Rifondazione Comunista, a lungo guidato da dirigenti con una visione sostanzialmente anticomunista, da dirigenti che si sono impegnati attivamente a liquidare l’eredità della tradizione comunista nel mondo e in Italia. E’ chiaro che dobbiamo liberarci di questa fase tragica e grottesca della storia che abbiamo alle spalle; da questo punto di vista la ricostruzione del Partito non è soltanto un compito organizzativo, ma è un compito in primo luogo teorico e culturale. Io credo che questi problemi possano essere affrontati e risolti positivamente.
Oggi siamo in una situazione in cui abbiamo assistito ad un cambio sostanziale anche dal punto di vista culturale. Mentre nel Novecento l’egemonia culturale era appannaggio del movimento comunista, oggi come oggi il termine comunista viene vissuto quasi con imbarazzo se non con palese vergogna, addirittura fino ad arrivare alle dichiarazioni bertinottiane sull’impronunciabilità del termine comunismo o sulla riduzione del suo significato, nella migliore delle ipotesi, a qualcosa di meramente culturale. Come siamo arrivati a questo e come possiamo affrancarci da tutto ciò?
D. Losurdo: Il termine comunismo sarebbe impronunciabile? Come storico devo subito osservare che allora dovremmo rinunciare ai termini che fanno riferimento ai movimenti politici in genere. Come si chiamava negli Usa il partito che fino all’ultimo ha difeso l’istituto della schiavitù dei neri? Si chiamava Partito democratico. E come si chiamava sempre negli Usa il partito che, anche dopo l’abolizione formale della schiavitù, ha difeso il regime della supremazia bianca, la segregazione razziale, il linciaggio dei neri organizzato come tortura lenta e interminable e come spettacolo di massa? Si chiamava, ancora una volta, Partito democratico. Sì, i campioni dello schiavismo e del razzismo più bieco hanno fatto professione di democrazia. Dovremmo concludere che «democrazia» è impronunciabile? Pensare che il termine democrazia abbia una storia più bella, più levigata, più immacolata, del termine comunismo significa non conoscere nulla della storia. Quello che ho detto a proposito del termine democrazia si potrebbe tranquillamente ripetere in relazione ad altri termini che sono parte essenziale del patrimonio della sinistra. Come si chiamava il partito di Hitler? Si chiamava Partito nazional-socialista: è da considerare tabù anche il termine socialismo? Per essere esatti, il partito di Hitler si chiamava Partito nazional-socialista degli operai tedeschi. Sarebbe dunque sconveniente e inaccettabile far riferimento agli operai e alla classe operaia? Non c’è parola che possa esibire lo statuto della purezza. Hitler e Mussolini pretendevano di essere i promotori e protagonisti di una rivoluzione; ecco un altro termine che, in base alla logica di Bertinotti, dovrebbe risultare impronunciabile.
In realtà, il discorso sulla impronunciabilità del termine «comunismo» presuppone non solo la totale subalternità rispetto all’ideologia dominante ma anche un’incapacità di giudizio storico e politico. Per chiarire quest’ultimo punto faccio leva su un confronto che ho illustrato nella mia Controstoria del liberalismo. Negli anni ‘30 del 1800 due illustri personalità francesi visitano gli Usa. Una è Alexis de Tocqueville, il grande teorico liberale; l’altra è Victor Schoelcher, colui che dopo la rivoluzione del febbraio del 1848 abolirà definitivamente la schiavitù nelle colonie francesi. I due visitano gli Usa nello stesso periodo ma indipendentemente l’uno dall’altro. Essi constatano gli stessi fenomeni: il governo della legge e la democrazia vigono nell’ambito della comunità bianca; ma i neri subiscono la schiavitù e un’oppressione feroce mentre i pellerossa vengono progressivamente e sistematicamente cancellati dalla faccia della terra. Al momento di giungere alla conclusione, già nel titolo del suo libro (La democrazia in America), Tocqueville parla degli Usa come di un paese autenticamente democratico, anzi come del paese più democratico al mondo; Schoelcher invece vede gli Usa come il paese dove infuria il dispotismo più feroce. Chi dei due ha ragone?
Immaginiamo che nel Novecento Tocqueville redivivo e Scholcher redivivo abbiano fatto il giro del mondo. Il primo avrebbe finito col celebrare il governo della legge e la democrazia vigenti negli Usa e nel «mondo libero» e col considerare scarsamente rilevanti l’oppressione e le pratiche genocide imposte da Washington e dal «mondo libero» nelle colonie e semicolonie (in Algeria, in Kenia, in America Latina ecc.), l’assassinio sistematico di centinaia di migliaia di comunisti organizzato dalla Cia in un paese come l’Indonesia, la discrimninazione, l’umiliazione e l’oppressione inflitte nella stessa metropoli capitalistica e «democratica» a danno dei popoli di origine coloniale (i neri negli Usa, gli algerini in Francia ecc.). Scholecher redivivo invece avrebbe concentrato la sua attenzione per l’appunto su tutto ciò e avrebbe concluso che ad esprimere il peggior dispostismo era il sedicente «mondo libero». Ben si comprende che l’ideologia dominante si identifichi senza riserve con il Tocqueville storico e con il Tocqueville redivivo. Nulla conta la sorte riservata ai popoli coloniali e di origine coloniale
Contro questa visione ribadisco quanto ho già detto: i comunisti devono certo saper guardare autocriticamente alla loro storia ma non hanno da vergognarsi e non devono abbandonarsi all’autofobia; è stato il movimento comunista a porre fine agli orrori che hanno caratterizzato la tradizione coloniale (sfociata poi nell’orrore del Terzo Reich, nell’orrore del regime che ha subito la sua prima e decisiva disfatta ad opera dell’Unione Sovetica).
Quindi possiamo dire che la via per la ricostruzione di un Partito comunista passa inevitabilmente per la scelta di riappropriarsi di quelle che sono state le proprie radici, di quello che è stato l’orgoglio comunista e anche del linguaggio che ne fa parte?
D. Losurdo: Non c’è dubbio. Questa riappropriazione deve tuttavia essere critica, ma anche questo ateggiamento non è una novità. Quando Lenin ha dato vita al movimento comunista, per un verso si è riallacciato alla tradizione socialista precedente, per un altro verso ha saputo reinterpretare tale tradizione in senso critico, tenendo ben presenti gli sviluppi della storia del suo tempo. Ai giorni nostri non si tratta in alcun modo di evitare il bilancio autocritico, che assolutamente s’impone. Ma ciò non ha nulla a che fare con l’accettazione del quadro manicheo proposto o imposto dall’ideologia dominante. Tale quadro non corrisponde in nessun modo alla verità storica ma solo al bisogno politico e ideologico delle classi dominanti e sfruttatrici di mettere a tacere qualsiasi opposizione rilevante.
Quindi in pratica come dovremmo lavorare per riconsegnare alla classe un Partito Comunista che sia all’altezza dei temi e dello scontro di classe. Come ci possiamo interfacciare con lo stesso cittadino italiano?
D. Losurdo: Ritengo valido il modello di Partito comunista elaborato in particolare da Lenin; ovviamente, occorre tener presente che il Che fare? aveva in mente la Russia zarista e quindi anche le condizioni di clandestinità in cui era costretto a muoversi il partito. In ogni caso, si tratta di costruire un partito, che non sia un partito d’opinione e che non sia caratterizzato dal culto della personalità, come a lungo è avvenuto in Rifondazione Comunista. Occorre un partito capace di costruire un sapere collettivo alternativo alle manipolazioni dell’ideologia dominante, un partito che deve saper essere presente nei luoghi del conflitto e deve saper costruire anche quotidianamente un’alternativa sia sul piano ideologico sia su quello politico–organizzativo.
Vorrei concludere con due osservazioni. La prima: l’esempio della Lega (di un partito che ha caratteri reazionari e che ci mette in presenza di scenari assai inquietanti) dimostra che era paurosamente errata la visione secondo cui non c’era più spazio per un partito radicato sul territorio e sul luogo del conflitto.
La seconda osservazione mi riconduce proprio all’inizio dell’intervista, allorché richiamavo l’insegnamento di Togliatti relativo alla questione meridionale come questione nazionale. Oggi si impone una constatazione amara: la mancata soluzione della questione meridionale sta mettendo in crisi, o rischia di mettere in crisi, l’unità nazionale del nostro paese: in un paese caratterizzato da forti squilibri regionali lo smantellamento definitivo dello Stato sociale pasa attraverso la liquidazione dello Stato nazionale e dell’unità nazionale. Il partito comunista che in Italia siamo chiamati a ricostituire dimostrerà il suo concreto internazionalismo anche nella misura in cui saprà affrontare e risolvere la questione nazionale. Aderire ai movimenti secessionisti o anche solo non combatterli fino in fondo significherebbe rompere con la migliore tradizione comunista. Occorre tener sempre presente la lezione della Resistenza: il Partito comunista è diventato un forte partito di massa nella misura in cui ha saputo collegare la lotta sociale alla lotta nazionale, ha saputo interpretare i bisogni delle classi popolari e al tempo stesso prendere la direzione di un movimento che lottava per la salvezza dell’Italia.
http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=19905
La controrivoluzione di fase e l'esigenza sociale e politica della ricostruzione del Partito ComunistaSiamo ad Urbino, con il professor Domenico Losurdo, ordinario di storia della filosofia presso l’università “Carlo Bo” di Urbino, filosofo di fama internazionale e presidente dell’associazione Marx XXI. Ci ha gentilmente concesso il suo tempo perché è fondamentale conoscere il punto di vista di un intellettuale in questo momento di congiuntura in cui siamo di fronte ad un attacco del capitale (contro l'intero mondo del lavoro, contro la democrazia, contro la Costituzione nata dalla Resistenza) che è tra i più alti e pericolosi dell'intera nostra storia repubblicana. Di fronte a tale attacco si distende un deserto, l'assenza di un'opposizione di classe e di massa che possa in qualche modo respingere l'offensiva della reazione e rilanciare una controffensiva. Quello che io le chiedo è : come è accaduto tutto questo? Cosa manca, come ricostruire una diga, una resistenza, un contrattacco?
D. Losurdo: Possiamo fare una distinzione tra due problemi che accompagnano la storia della Repubblica in tutto il suo arco. Il primo problema è la sperequazione tra nord e sud: già Togliatti ha sottolineato che la «questione meridionale» è una questione nazionale e oggi stiamo vedendo come la mancata soluzione del sottosviluppo nel Sud rischia di mettere in pericolo l’unità nazionale.
L’altro problema è un’ingiustizia sociale che si manifesta in modo particolarmente clamoroso nel fenomeno dell’evasione fiscale. E’ appena il caso di dire che questo flagello non è stato contenuto in alcun modo, anzi, semmai è diventato più scandaloso, più esplicito. C’è stato persino l’incoraggiamento del Presidente del Consiglio: egli ne ha parlato come di qualcosa che può essere tollerato nel caso in cui il singolo individuo, cioè il ricco capitalista, ritenga di essere stato troppo colpito dalla pressione fiscale.
Se questi due problemi accompagnano la storia della Repubblica in tutto l’arco della sua evoluzione, noi possiamo aggiungere che ci sono oggi problemi nuovi, i quali fanno pensare ed una vera e propria controrivoluzione. Forse l’anno di svolta è rappresentato dal 1991, l’anno che vede la fine del Partito Comunista Italiano. Questa fine era stata propagandata con aspettative enfatiche: gli ex-comunisti sentenziavano che, facendola finita con un partito legato al discreditato «socialismo reale», tutto sarebbe diventato più facile: ci si sarebbe liberati del «piombo nelle ali» e si sarebbero sviluppati la democrazia e lo Stato sociale; insomma, tutto sarebbe andato per il meglio. E’ appena il caso di dire che in realtà noi ci troviamo dinanzi ad una controrivoluzione, che certo non è esclusiva dell’Italia dato che ha carattere internazionale, ma che nel nostro paese si manifesta con particolare virulenza.
Vediamo quali sono gli elementi di questa controrivoluzione: la Repubblica Italiana nata dalla Resistenza, e contrassegnata dalla presenza di un forte Partito Comunista all’opposizione, non si era mai impegnata direttamente in operazioni belliche; ai giorni nostri, invece, la partecipazione a guerre di carattere chiaramente coloniale è considerata come qualcosa di normale, persino di doveroso.
Si assiste inoltre ad un attacco contro lo Stato sociale, al suo smantellamento: questo è sotto gli occhi di tutti. Meno evidente è invece un fatto su cui io vorrei richiamare l’attenzione: l’attacco allo Stato sociale non è determinato in primo luogo dal problema delle compatibilità economiche, dalla necessità del risparmio perché mancherebbero i soldi (tanto per intenderci). Dobbiamo ricordare che uno dei patriarchi del neoliberismo (è stato incoronato anche del premio Nobel per l’economia), Friedrich August von Hayek già negli anni ‘70 del secolo scorso dichiarava che i diritti economico-sociali (quelli protetti evidentemente dallo Stato sociale), erano un’invenzione da lui consderata rovinosa: erano il risultato dell’nfluenza esercitat dalla «rivoluzione marxista russa». Egli chiamava dunque a sbarazzarsi di questa eredità ingombrante. Ben si comprende che, al venire meno della sfida rappresentata dall’Unione Sovietica e da un forte campo socialista, abbia corrisposto e stia corrispondendo sempre di più lo smantellamento dello Stato sociale.
C’è infine un terzo aspetto della controrivoluzione, e noi non possiamo perderlo di vista. E’ un vero e proprio attacco alla democrazia, che assume forme particolarmente clamorose in fabbrica. In questo caso la controrivoluzione è così evidente da essere quasi dichiarata: il potere padronale deve potersi esercitare senza troppi vincoli, la Costituzione non deve essere un motivo di impaccio nei rapporti di lavoro. Ma c’è un aspetto che va al di là della fabbrica e che riguarda la società nel suo complesso: è l’avanzare del «bonapartismo soft» (come l’ho definito nel mio libro Democrazia o bonapartismo) incarnato nel nostro paese dal Presidente del Consiglio. A proposito dell’ascesa di questo personaggio vorrei richiamare l’attenzione su un altro fenomeno non meno inquietante: oggi la ricchezza esercita un peso politico immediato. Fin quando c’era in Italia il sistema proporzionale, esso rendeva più agevole la formazione di partiti politici di massa, e ciò consentiva di contenere entro certi limiti il peso politico della ricchezza, che oggi invece si esprime in modo immediato e persino sfrontato. Assistiamo all’emergere e all’affermarsi di un leader politico che, a partire dalla concentrazione dei mezzi di informazione e facendo uso spregiudicato dell’enorme ricchezza a sua disposizione, pretende di esercitare, ed in effetti esercita, un potere decisivo sulle istituzioni politiche e rivela una globale capacità di corruzione e di manipolazione.
A questo punto si può tracciare un primo bilancio: la svolta del 1991, che aveva visto lo scioglimento del PCI e che avrebbe dovuto favorire il rinnovamento democratico e sociale dell’Italia, è stata in realtà il punto di partenza di una controrivoluzione che è certo di dimensioni internazionali, ma che si avverte in modo particolarmente doloroso in Italia, nel paese che, grazie alla Resistenza e alla presenza di una forte sinistra e di un forte Partito Comunista, aveva conseguito conquiste democratiche e sociali assai rilevanti.
A questo proposito le chiedo: come è stato possibile che proprio in un paese, che dovrebbe avere una memoria ancora fresca di quella che è stata la Resistenza, si sia arrivati ad un’anestetizzazione delle coscienze così forte da far sì che il nostro Presidente del Consiglio venga amato anche dal punto di vista personale, venga invidiato? Come spiegare da un lato la fascinazione per il «self made man» e dall’altro fenomeni quali l’antipolitica di Grillo? E ancora, pensando a quello che potremmo definire il terzo polo: come spiegare la fascinazione che prova la sinistra per una personalità quale quella di Vendola, che fino a ieri faceva parte di Rifondazione Comunista e che ora riempie il vuoto genericamente apertosi a sinistra del Partito Democratico?
D. Losurdo: Noi stiamo assistendo ad una controrivoluzione, di cui ho già definito gli elementi politici centrali; non dobbiamo però dimenticare che questa controrivoluzione si svolge anche a livello ideologico-culturale. Si sta riscrivendo in modo assolutamente fantasioso e vergognoso la storia non soltanto del nostro paese ma del XX secolo nel suo complesso.
Quali sono gli elementi fondamentali di questa storia? A partire dalla Rivoluzione d’ottobre sono iniziati tre giganteschi processi di emancipazione. Il primo è quello che ha investito i popoli coloniali: alla vigilia della svolta del 1917 i paesi indipendenti erano soltanto un numero assai ristretto, quasi tutti collocati in Occidente. Era una colonia l’India, era un paese semi-coloniale la Cina; tutta l’America Latina era sottoposta al controllo della dottrina Monroe e degli Usa. L’Africa era stata spartita tra le varie potenze coloniali europee. In Asia erano una colonia l’Indonesia, la Malaysia ecc. Il gigantesco processo di de-colonizzazione e di emancipazione che ha messo fine a tale situazione ha avuto il suo primo impulso dalla Rivoluzione d’ottobre.
Il secondo processo è quello dell’emancipazione femminile: è importante ricordare che il primo paese nel quale le donne hanno goduto della totalità dei diritti politici ed elettorali (attivi e passivi) è stata la Russia rivoluzionaria tra il febbraio e l’ottobre del 1917. Solo in un secondo momento sono giunti al medesimo risultato la Germania della Repubblica di Weimar, scaturita da un'altra rivoluzione, quella del novembre 1918, e successivamente gli Stati Uniti. In paesi quali l’Italia e la Francia le donne hanno conquistato l’emancipazione solo sull’onda della Resistenza antifascista.
Il terzo processo infine è stato la cancellazione della discriminazione censitaria che, in tema di diritti politici, continuava a discriminare negativamente le masse popolari: nell’Italia liberale e sabauda, piuttosto che essere eletto dal basso, il Senato era appannaggio della grande borghesia e dell’aristocrazia. La discriminazione censitaria si faceva sentire anche in Inghilterra, e non solo per la presenza della Camera dei lords; ancora nel 1948 vi erano 500.000 persone che godevano del voto plurale e dunque della facoltà di votare più volte: erano considerate più intelligenti (naturalmente, si trattava di ricchi di sesso maschile).
In conclusione. Nel corso del Novecento si è sviluppato su tre fronti un gigantesco processo di emancipazione, che è partito dalla Rivoluzione d’Ottobre e dalla lotta contro la guerra e la carneficina del primo conflitto mondiale. Tutto ciò è oggi dimenticato e rimosso sino al punto che, nell’ideologia oggi dominante, la storia del comunismo diviene la storia dell’orrore.
Il paradosso è che a questa gigantesca manipolazione non ha partecipato soltanto la destra propriamente detta; ad essa ha fornito il suo bravo contributo anche Fausto Bertinotti, di cui Vendola è l’erede e il discepolo. Non c’è dubbio, si è impegnato anche lui nel tentativo di cancelare dalla memoria storica il gigantesco e molteplice processo di emancipazione scaturito dalla rivoluzione d’ottobre: di questo grande capitolo di storia egli ha tracciato un quadro che non è molto diverso da quello tracciato dall’ideologia e dalla classe dominante.
Si è venuta così a costituire una cultura, o meglio un’«incultura», che è di grande aiuto all’ordinamento esistente. Come sul piano più propriamente politico, anche su quello ideologico è all’opera quello che io (sempre nel mo libro Democrazia o bonapartismo) ho definito il regime di «monopartitismo competitivo». Vediamo all’opera un unico partito che, con modalità diverse, rinvia alla stessa classe dominante, alla borghesia monopolistica. Certo, non manca il momento della competizione elettorale, ma si tratta di una competizione tra ceti politici ognuno dei quali cerca di realizzare le sue ambizioni di corto respiro, senza mettere in alcun mdo in discussione il quadro strategico, l’orientamento culturale di fondo e la classe sociale di riferimento, e cioè la borghesia monopolistica: su ciò non si discute neppure.
Questa è la situazione dinanzi alla quale ci troviamo: il Monopartitismo Competitivo. La cancellazione del sistema proporzionale ne ha favorito il consolidamento.
E, in assenza di una vera alternativa, si comprendono i fenomeni dell’antipolitica, del «grillismo»: nonostante le declamazioni, essi finiscono col far parte integrante del regime politico e dello stesso panorama desolante che ho cercato brevemente di descrivere.
Quei fenomeni sono quindi un’altra forma di anestetizzazione, un tentativo di imbrigliare un qualche tipo di reazione seppur appartenenti allo stesso ceppo.
D. Losurdo: E’ un dato di fatto che oggi manca una forza politica organizzata e strutturata che si contrapponga alla manipolazione ideologica e storiografica e al monopartitismo competitivo oggi imperanti. Risultano così incontrastati il dominio e l’egemonia della borghesia monopolistica nonché la controrivoluzione neoliberista e filo-imperialista di cui ho già parlato.
Un movimento comunista sarebbe necessario proprio per le questioni di fondo che investono l’Italia e il mondo nel suo complesso. Perché nel nostro paese il movimento comunista vive una crisi così profonda?
D. Losurdo: A partire dal 1989 c’è stata una vitalità rinnovata per le forze della conservazione e della reazione e questa vitalità si è manifestata anche in Italia. Ciò non deve stupirci. A dover suscitare la nostra interrogazione è un altro fatto: perché nel nostro paese questa offensiva controrivoluzionaria ha trovato così scarsa resistenza, anzi non ha trovato resistenza alcuna e in alcuni casi, come ho già detto, ha potuto godere di un incoraggiamento anche da parte di coloro che dovevano costituire la sinistra?
A partire dal 1989 anche a sinistra si è cominciato a dire che il comunismo era morto. A proposito di questa parola d’ordine, che ritorna di continuo, vorrei fare alcune considerazioni come storico e come filosofo. Essa si pretende nuova ma è in realtà assai vecchia: il comunismo è sempre stato dichiarato morto, in tutto il corso della sua storia; anzi, si potrebbe dire che il comunismo è stato dichiarato morto prima ancora che nascesse.
Non si tratta di un paradosso o di una battuta di spirito. Vediamo quel che succede nel 1917: non è ancora scoppiata la Rivoluzione d’ottobre, infuria invece la carneficina della prima guerra mondiale. Proprio in quell’anno un filosofo italiano di statura internazionale, Benedetto Croce, pubblica un libro dal titolo: Materialismo storico ed economia marxistica. La Prefazione si affetta subito a dichiarare che il marxismo e il socialismo sono morti. Il ragionamento è semplice: Marx aveva previsto e invocato la lotta di classe proletaria contro la borghesia e il capitalismo, ma dov’era in quel momento la lotta di classe? I proletari si scannavano fra di loro. Al posto della lotta di classe c’era la lotta fra gli Stati, fra le nazioni, che si affrontavano sul campo di battaglia. E, dunque, la morte del marxismo e del socialismo era sotto gli occhi di tutti. E cioè, prima ancora che emergesse e si sviluppasse il movimento comunista propriamente detto, che vedrà il suo atto di nascita con la Rivoluzione d’ottobre e poi con la fondazione dell’Internazionale comunista, prima ancora di tutto ciò quel movimento era già stato dichiarato morto ad opera di Benedetto Croce. Noi sappiamo oggi, con il senno di poi, che la contesa per l’egemonia e la guerra imperialista, considerati da Croce un fatto immodificabile, hanno costituito la spinta per la Rivoluzione d’ottobre, che si è imposta per l’appunto nella lotta contro la carneficina provocata dal sistema caputalusta e imperialista.
E’ iniziata così la storia del movimento comunista. E sono proseguite le dichiarazioni di morte… Allorché nella Russia sovietica è stata introdotta la NEP, su molti giornali europei e statunitensi sia intellettuali di primissimo piano sia politici eminenti hanno sentenziato: ecco, non c’è più la collettivizzazione totale dei mezzi di produzione che era stata proposta e sollecitata da Karl Marx; Lenin stesso è stato costretto a prendere atto della necessità della svolta; dunque il comunismo è morto. Basta leggere qualche libro di storia un po’ più ricco dei manuali consueti per rendersi conto di quanto sia ricorrente la parola d’ordine di cui stiamo discutendo. Coloro che continuano ad affermare che il comunismo è morto, credendo di dire qualcosa di nuovo, non si rendono conto, per la loro ignoranza storica ovvero per la loro adesione acritica o la loro subalternità all’ideologia dominante, che stanno semplicemente ripetendo uno slogan ricorrente nella storia della lotta della borghesia e dell’imperialismo contro il movimento comunista.
Su questo punto si potrebbe persino concludere con una battuta: c’è un proverbio secondo il quale l’individuo considerato morto, e di cui viene pronunciato l’elogio funebre mentre egli è ancora in vita, è destinato a essere baciato dalla longevità. Se questo proverbio dovesse valere anche per i movimenti politici, coloro che si richiamano al comunismo possono essere assolutamente fiduciosi per il futuro.
Partendo dal presupposto che ci sia la necessità sociale e storica per una nuova ondata rivoluzionaria e che la rinascita di un Partito Comunista sia assolutamente necessaria, quali sono le caratteristiche che esso dovrebbe avere, quali sono i passi che andrebbero compiuti e chi dovrebbe compierli e in che modo?
D. Losurdo: Occorre distinguere la dimensione ideologico-politica da quella organizzativa. Mi concentrerò sulla prima. Ebbene, che senso ha parlare di morte del comunismo, quando ci troviamo dinanzi ad una situazione per la quale la guerra è ritornata all’ordine del giorno, e si aggrava sempre di più il pericolo di un conflitto su larga scala? Sì, finora abbiamo assistito e stiamo ancora assistendo a guerre di tipo coloniale classico: esse si verificano allorché una potenza armata fino ai denti e con una netta superiorità tecnologica e bellica si scatena contro un paese, o contro un popolo, che non può opporre alcuna resistenza. Guerre coloniali sono per esempio quella che la Nato ha scatenato contro la Yugoslavia nel 1999, le diverse guerre del Golfo, la guerra contro l’Afghanistan. Per non parlare della guerra interminabile, la più infame di tutte, che continua a infuriare contro il popolo palestinese.
Ma oggi i grandi organi di informazione internazionali osservano che c’è il pericolo concreto di una guerra su larga scala, quella che si verificherebbe in seguito all’aggressione scatenata da Stati Uniti e da Israele contro l’Iran: non sappiamo quali potrebbero essere gli sviluppi e le complicazioni internazionali. Soprattutto, non dobbiamo perdere di vista la guerra (per ora fredda) che gli Usa cominciano a condurre contro la Repubblica Popolare Cinese: solamente i più provinciali non si rendono conto di ciò. Ci troviamo davanti ad una situazione che rende urgente il compito della lotta contro l’imperialismo e la sua politica di aggressione e di guerra, e ciò ci riconduce evidentemente alla storia del movimento comunista.
L’altro elemento di cui dobbiamo tener conto è la crisi economica. Chi non ricorda i discorsi trionfali, secondo i quali il capitalismo aveva ormai superato le sue crisi periodiche, le crisi di cui aveva parlato Marx? Anzi – ci veniva assicurato – si doveva parlare non solo di fine della crisi ma persino di fine della storia. Ora invece la crisi del capitalismo è sotto i nostri occhi e sono in molti ad avere la sensazione che essa è destinata a durare; non è facle predire i suoi sviluppi, ma certo non si tratta di un fenomeno puramente contingente.
Dunque, chiara è la permanenza di quei problemi, di quelle questioni centrali per rispondere alle quali è sorto il movimento politico comunista.
Veniamo ora al secondo aspetto: che senso ha parlare di fine del comunismo quando vediamo un paese come la Cina, che rappresenta un quinto della popolazione mondiale, essere diretta da un partito comunista? Possiamo e dobbiamo discutere le scelte politiche dei gruppi dirigenti, ma non può non suscitare ammirazione l’ascesa prodigiosa di un paese di dimensioni continentali che libera dalla fame centinaia di milioni di persone e che al tempo stesso muta in profondità (in senso sfavorevole all’imperialismo) la geografia politica del mondo.
A questo punto è necessario porsi una domanda: quale è stato il contenuto politico centrale del XX secolo? Ho già parlato dei tre movimenti di emancipazione che caratterizzano la storia del Novecento. Soffermiamoci su quello che ha avuto lo sviluppo planetario più ampio: tutto il Novecento è attraversato da gigantesche lotte di emancipazione, condotte dai popoli coloniali o che minacciavano di subire l’assoggettamento coloniale: basti pensare alla Cina, al Vietnam, a Cuba, alla stessa Unione Sovietica che, nella lotta contro il tentativo hitleriano di creare un impero coloniale nella stessa Europa Orientale, ha dovuto condurre la Grande guerra patriottica. Questo gigantesco processo si è dileguato nel XXI secolo, nel secolo in cui viviamo? No, non è così, esso continua. C’è però una novità. A parte casi tragici, come quello del popolo palestinese che è costretto a subire il colonialismo nella sua forma classica e più brutale, negli altri paesi la lotta anti-coloniale è passata dalla fase propriamente politico-militare alla fase politico-economica. Questi paesi cercano di assicurarsi non più soltanto l’indipendenza politica, ma anche quella economica; sono quindi impegnati a rompere il monopolio tecnologico che gli Stati Uniti e l’imperialismo avevano creduto di conquistare una volta per sempre. In altre parole, siamo dinanzi alla continuazione della lotta contro il colonialismo e l’imperialismo che ha costituito il contenuto principale del Novecento. E come nel secolo ormai trascorso sono stati i partiti comunisti a stimolare e dirigere questo movimento, così oggi noi vediamo paesi quali la Cina, il Vietnam o Cuba guidare nel XXI secolo questa nuova fase del processo di emancipazione anticoloniale. Non è certo un caso che tutti e tre questi paesi siano diretti da partiti comunisti. Chi dichiara morto il movimento comunista, e ritiene persino di dire una cosa ovvia, non si rende conto di ripetere una scemenza macroscopica.
Quindi esistono le condizioni oggettive materiali, per un rilancio anche in Italia di un Partito Comunista di quadri e con una linea di massa?
D. Losurdo: Credo proprio di sì, anzi ne sono convinto: non si capisce perché l’Italia dovrebbe costituire un’anomalia rispetto al quadro internazionale. Se è vero che in Europa orientale tra il 1989 e il 1991 il movimento comunista ha subito una dura sconfitta, di cui occorre ovviamente prendere atto e tener conto, è anche vero che la situazione mondiale complessiva presenta un quadro assai più variegato e decisamente più incoraggiante. I partiti comunisti dirigono paesi e realtà di una crescente importanza economica e geopolitica. In altre parti del mondo assistiamo a un processo di riorganizzazione ovvero di consolidamento. Per fare un esempio: sono reduce da un viaggio in Portogallo, dove ho avuto modo di apprezzare la presenza del Partito Comunista. È chiaro che in Italia abbiamo una grande tradizione comunista alle spalle e non c’è motivo per non riappropriarsene, ovviamente in maniera critica. Credo che ci siano anche i presupposti non soltanto ideali ma anche politici per mettere fine al frazionamento delle forze comuniste. Andando in giro nel nostro paese, per manifestazioni culturali più ancora che politiche, ho notato che il potenziale comunista è reale. I comunisti sono semplicemente frantumati in diverse organizzazioni, talvolta anche in piccoli circoli: occorre rimboccarsi le maniche e mettersi al lavoro per l’unità, facendo leva in primo luogo sulle forze comuniste che sono presenti già in modo più o meno organizzato a livello nazionale. Penso all’Ernesto, che opera nell’ambito di Rifondazione Comunista, e al PdCI: unendosi, queste due forze dovrebbero essere in grado di lanciare un segnale ai circoli comunisti diffusi sul territorio nazionale, un invito ad abbandonare la rassegnazione e il settarismo per mettersi a lavorare al fine di dare concretezza alle idee e ad un progetto comunista.
Quindi quello che impedisce il costruirsi di un Partito Comunista unico in Italia è a suo parere questa frantumazione, questa stanchezza nell’affrontare nuovamente lotte che molti compagni hanno già fatto?
D. Losurdo: In Italia si fa sentire il peso di una situazione particolare: agisce negativamente l’esperienza di un Partito, quello della Rifondazione Comunista, a lungo guidato da dirigenti con una visione sostanzialmente anticomunista, da dirigenti che si sono impegnati attivamente a liquidare l’eredità della tradizione comunista nel mondo e in Italia. E’ chiaro che dobbiamo liberarci di questa fase tragica e grottesca della storia che abbiamo alle spalle; da questo punto di vista la ricostruzione del Partito non è soltanto un compito organizzativo, ma è un compito in primo luogo teorico e culturale. Io credo che questi problemi possano essere affrontati e risolti positivamente.
Oggi siamo in una situazione in cui abbiamo assistito ad un cambio sostanziale anche dal punto di vista culturale. Mentre nel Novecento l’egemonia culturale era appannaggio del movimento comunista, oggi come oggi il termine comunista viene vissuto quasi con imbarazzo se non con palese vergogna, addirittura fino ad arrivare alle dichiarazioni bertinottiane sull’impronunciabilità del termine comunismo o sulla riduzione del suo significato, nella migliore delle ipotesi, a qualcosa di meramente culturale. Come siamo arrivati a questo e come possiamo affrancarci da tutto ciò?
D. Losurdo: Il termine comunismo sarebbe impronunciabile? Come storico devo subito osservare che allora dovremmo rinunciare ai termini che fanno riferimento ai movimenti politici in genere. Come si chiamava negli Usa il partito che fino all’ultimo ha difeso l’istituto della schiavitù dei neri? Si chiamava Partito democratico. E come si chiamava sempre negli Usa il partito che, anche dopo l’abolizione formale della schiavitù, ha difeso il regime della supremazia bianca, la segregazione razziale, il linciaggio dei neri organizzato come tortura lenta e interminable e come spettacolo di massa? Si chiamava, ancora una volta, Partito democratico. Sì, i campioni dello schiavismo e del razzismo più bieco hanno fatto professione di democrazia. Dovremmo concludere che «democrazia» è impronunciabile? Pensare che il termine democrazia abbia una storia più bella, più levigata, più immacolata, del termine comunismo significa non conoscere nulla della storia. Quello che ho detto a proposito del termine democrazia si potrebbe tranquillamente ripetere in relazione ad altri termini che sono parte essenziale del patrimonio della sinistra. Come si chiamava il partito di Hitler? Si chiamava Partito nazional-socialista: è da considerare tabù anche il termine socialismo? Per essere esatti, il partito di Hitler si chiamava Partito nazional-socialista degli operai tedeschi. Sarebbe dunque sconveniente e inaccettabile far riferimento agli operai e alla classe operaia? Non c’è parola che possa esibire lo statuto della purezza. Hitler e Mussolini pretendevano di essere i promotori e protagonisti di una rivoluzione; ecco un altro termine che, in base alla logica di Bertinotti, dovrebbe risultare impronunciabile.
In realtà, il discorso sulla impronunciabilità del termine «comunismo» presuppone non solo la totale subalternità rispetto all’ideologia dominante ma anche un’incapacità di giudizio storico e politico. Per chiarire quest’ultimo punto faccio leva su un confronto che ho illustrato nella mia Controstoria del liberalismo. Negli anni ‘30 del 1800 due illustri personalità francesi visitano gli Usa. Una è Alexis de Tocqueville, il grande teorico liberale; l’altra è Victor Schoelcher, colui che dopo la rivoluzione del febbraio del 1848 abolirà definitivamente la schiavitù nelle colonie francesi. I due visitano gli Usa nello stesso periodo ma indipendentemente l’uno dall’altro. Essi constatano gli stessi fenomeni: il governo della legge e la democrazia vigono nell’ambito della comunità bianca; ma i neri subiscono la schiavitù e un’oppressione feroce mentre i pellerossa vengono progressivamente e sistematicamente cancellati dalla faccia della terra. Al momento di giungere alla conclusione, già nel titolo del suo libro (La democrazia in America), Tocqueville parla degli Usa come di un paese autenticamente democratico, anzi come del paese più democratico al mondo; Schoelcher invece vede gli Usa come il paese dove infuria il dispotismo più feroce. Chi dei due ha ragone?
Immaginiamo che nel Novecento Tocqueville redivivo e Scholcher redivivo abbiano fatto il giro del mondo. Il primo avrebbe finito col celebrare il governo della legge e la democrazia vigenti negli Usa e nel «mondo libero» e col considerare scarsamente rilevanti l’oppressione e le pratiche genocide imposte da Washington e dal «mondo libero» nelle colonie e semicolonie (in Algeria, in Kenia, in America Latina ecc.), l’assassinio sistematico di centinaia di migliaia di comunisti organizzato dalla Cia in un paese come l’Indonesia, la discrimninazione, l’umiliazione e l’oppressione inflitte nella stessa metropoli capitalistica e «democratica» a danno dei popoli di origine coloniale (i neri negli Usa, gli algerini in Francia ecc.). Scholecher redivivo invece avrebbe concentrato la sua attenzione per l’appunto su tutto ciò e avrebbe concluso che ad esprimere il peggior dispostismo era il sedicente «mondo libero». Ben si comprende che l’ideologia dominante si identifichi senza riserve con il Tocqueville storico e con il Tocqueville redivivo. Nulla conta la sorte riservata ai popoli coloniali e di origine coloniale
Contro questa visione ribadisco quanto ho già detto: i comunisti devono certo saper guardare autocriticamente alla loro storia ma non hanno da vergognarsi e non devono abbandonarsi all’autofobia; è stato il movimento comunista a porre fine agli orrori che hanno caratterizzato la tradizione coloniale (sfociata poi nell’orrore del Terzo Reich, nell’orrore del regime che ha subito la sua prima e decisiva disfatta ad opera dell’Unione Sovetica).
Quindi possiamo dire che la via per la ricostruzione di un Partito comunista passa inevitabilmente per la scelta di riappropriarsi di quelle che sono state le proprie radici, di quello che è stato l’orgoglio comunista e anche del linguaggio che ne fa parte?
D. Losurdo: Non c’è dubbio. Questa riappropriazione deve tuttavia essere critica, ma anche questo ateggiamento non è una novità. Quando Lenin ha dato vita al movimento comunista, per un verso si è riallacciato alla tradizione socialista precedente, per un altro verso ha saputo reinterpretare tale tradizione in senso critico, tenendo ben presenti gli sviluppi della storia del suo tempo. Ai giorni nostri non si tratta in alcun modo di evitare il bilancio autocritico, che assolutamente s’impone. Ma ciò non ha nulla a che fare con l’accettazione del quadro manicheo proposto o imposto dall’ideologia dominante. Tale quadro non corrisponde in nessun modo alla verità storica ma solo al bisogno politico e ideologico delle classi dominanti e sfruttatrici di mettere a tacere qualsiasi opposizione rilevante.
Quindi in pratica come dovremmo lavorare per riconsegnare alla classe un Partito Comunista che sia all’altezza dei temi e dello scontro di classe. Come ci possiamo interfacciare con lo stesso cittadino italiano?
D. Losurdo: Ritengo valido il modello di Partito comunista elaborato in particolare da Lenin; ovviamente, occorre tener presente che il Che fare? aveva in mente la Russia zarista e quindi anche le condizioni di clandestinità in cui era costretto a muoversi il partito. In ogni caso, si tratta di costruire un partito, che non sia un partito d’opinione e che non sia caratterizzato dal culto della personalità, come a lungo è avvenuto in Rifondazione Comunista. Occorre un partito capace di costruire un sapere collettivo alternativo alle manipolazioni dell’ideologia dominante, un partito che deve saper essere presente nei luoghi del conflitto e deve saper costruire anche quotidianamente un’alternativa sia sul piano ideologico sia su quello politico–organizzativo.
Vorrei concludere con due osservazioni. La prima: l’esempio della Lega (di un partito che ha caratteri reazionari e che ci mette in presenza di scenari assai inquietanti) dimostra che era paurosamente errata la visione secondo cui non c’era più spazio per un partito radicato sul territorio e sul luogo del conflitto.
La seconda osservazione mi riconduce proprio all’inizio dell’intervista, allorché richiamavo l’insegnamento di Togliatti relativo alla questione meridionale come questione nazionale. Oggi si impone una constatazione amara: la mancata soluzione della questione meridionale sta mettendo in crisi, o rischia di mettere in crisi, l’unità nazionale del nostro paese: in un paese caratterizzato da forti squilibri regionali lo smantellamento definitivo dello Stato sociale pasa attraverso la liquidazione dello Stato nazionale e dell’unità nazionale. Il partito comunista che in Italia siamo chiamati a ricostituire dimostrerà il suo concreto internazionalismo anche nella misura in cui saprà affrontare e risolvere la questione nazionale. Aderire ai movimenti secessionisti o anche solo non combatterli fino in fondo significherebbe rompere con la migliore tradizione comunista. Occorre tener sempre presente la lezione della Resistenza: il Partito comunista è diventato un forte partito di massa nella misura in cui ha saputo collegare la lotta sociale alla lotta nazionale, ha saputo interpretare i bisogni delle classi popolari e al tempo stesso prendere la direzione di un movimento che lottava per la salvezza dell’Italia.
http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=19905
sabato 25 dicembre 2010
Socialismo e libertà di Giancarlo Iacchini
Lelio Basso: socialismo è libertà
Scritto da Giancarlo Iacchini
domenica 25 marzo 2007
La vita, il pensiero e le lotte di Lelio Basso esprimono nel modo più esemplare non soltanto l’essenza del radicalsocialismo, ma più in generale quel comune denominatore libertario che si può enucleare da tutti i filoni della sinistra italiana ed europea (socialista, radicale, comunista, anarchico, ecologista, pacifista) in una straordinaria sintesi dialettica che ha animato per quasi sei decenni sia la teoria che la prassi politica del rivoluzionario ligure.
Rivoluzionario, abbiamo detto, perché Lelio Basso – sia nella lotta clandestina antifascista che sugli scranni parlamentari – non ha mai dimenticato il suo stesso inequivocabile monito: «Se si oscura nell’azione di ogni giorno la presenza dell’ideale rivoluzionario, il movimento rischia di essere facile preda di un empirismo che lo rende subalterno ai meccanismi della società capitalistica e che è alla radice dei processi di integrazione».
E l’ideale rivoluzionario, sulla scia dell’intuizione libertaria di Karl Marx, è «una società socialista che segni definitivamente la fine dello sfruttamento, dell’oppressione e dell’alienazione e dia a ciascuno le più alte possibilità di sviluppo come condizione del massimo sviluppo di tutti», il che «richiede l’ascesa al potere di una classe lavoratrice ricca di esperienza democratica, di maturità politica e di senso di responsabilità, e al tempo stesso il più alto livello di forze produttive che faccia del tempo libero, e non del tempo di lavoro necessario, l’aspetto principale della vita dell’uomo».
Pertanto la maniera migliore di illustrare la figura ideale del grande combattente per la libertà degli individui e dei popoli è ripercorrere l’impegno intenso e infaticabile di un’intera vita.
Basso nasce a Varazze (Savona) nel 1903. A 18 anni si iscrive al Partito Socialista, proprio mentre se ne va la frazione comunista guidata da Gramsci e Bordiga: «Era proprio il Pcd’I il partito che soddisfaceva meglio il mio temperamento, ma non potevo accettare l’idea di una rivoluzione fatta sul modello sovietico». Ed in proposito Fausto Bertinotti osserva: «Basso ha trasmesso a noi l’idea della rivoluzione come processo storico, non semplicemente come assalto al Palazzo d’Inverno, non come presa del potere dalla quale poi sarebbe discesa, più o meno meccanicamente, la trasformazione della società civile e persino la creazione dell’uomo nuovo».
Comincia a collaborare con riviste come Critica sociale, La libertà e in seguito Il quarto Stato di Carlo Rosselli. Nel 1925, mentre il governo Mussolini instaura la dittatura vera e propria, si laurea in legge con una tesi significativamente intitolata La concezione della libertà in Marx, e viene aggredito da un squadraccia fascista subito dopo la discussione della tesi.
Entra nel comitato direttivo della Rivoluzione liberale e diventa amico di Piero Gobetti, suo quasi coetaneo. Arrestato nel ’28, insieme a tanti altri antifascisti, viene confinato per cinque anni a Ponza. Tornato in libertà cerca di svolgere la sua professione di avvocato, ma avendo rifiutato l’iscrizione al Pnf e al sindacato fascista di categoria viene ostacolato e perseguitato in tutti i modi, con gli sgherri della polizia politica praticamente dentro casa. Nonostante ciò, non smette di lavorare per l’ormai disciolto (e disperso) partito socialista, che cerca di riorganizzare clandestinamente.
Basso immagina un nuovo Psi aperto alla collaborazione (ed eventuale fusione) sia col Pci che col nuovo movimento Giustizia e Libertà. Poco prima dell’entrata in guerra dell’Italia viene nuovamente arrestato, rinchiuso nel campo di concentramento di Colfiorito (Perugia) e poi inviato al confino a Piobbico (Pesaro). Senza mai perdersi d’animo, continua a teorizzare un partito della classe operaia forte, unito, radicale, intransigente. E nel ’43 fonda il Movimento di Unità Proletaria, che poi si fonde col Psi per formare il Psiup, dando vita anche al giornale clandestino “Bandiera rossa”. E’ finalmente l’ora della Resistenza, che lo vede protagonista a Milano a stretto contatto con Sandro Pertini. E’ tra gli organizzatori dell’insurrezione generale del 25 aprile, e contribuisce a negare a Mussolini ogni spiraglio di compromesso con le ali più moderate del CLN.
Nel dopoguerra le sue capacità vengono subito valorizzate, con l’elezione all’Assemblea Costituente e la nomina nella Commissione dei 75 incaricata di scrivere la Costituzione Repubblicana. Si batte accanitamente, ma senza fortuna, contro l’articolo 7 che recepisce il “concordato” con la Chiesa cattolica. Scrive l’articolo 49 sul “diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere a determinare democraticamente la politica nazionale”, e soprattutto il mitico articolo 3, che sancisce la “pari dignità sociale” e l’eguaglianza dei cittadini “senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali” e che contiene il comma più avanzato di tutta la Carta costituzionale, quello che avrebbe dovuto segnare il passaggio dalla democrazia formale a quella sostanziale: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Articolo che potrebbe essere definito a buon diritto il manifesto del radicalsocialismo; e che più tardi lo stesso Basso, deluso dalla grigia fase politica seguita a quella esaltante della Costituente (trionfo elettorale della Dc e pesante involuzione conservatrice), commenterà piuttosto amaramente: «Questa norma in un certo senso smentisce la Costituzione, dice che tutto è una menzogna nella Costituzione fino a che questo capoverso dell’articolo 3 non sarà attuato. Non solo non c’è l’eguaglianza del primo comma, ma non è vero neanche l’articolo 1, non è vero che l’Italia sia una repubblica democratica, non è vero che ci sia la sovranità popolare finché non è realizzato il capoverso dell’articolo 3 che deve mettere tutti in grado di parteciparvi».
In piena polemica con la deriva reazionaria e autoritaria imposta dalla guerra fredda, dall’adesione dell’Italia alla Nato e al Piano Marshall, scrive nel ’51 un libro che dice tutto già nel titolo: Due totalitarismi, fascismo e democrazia cristiana. Osserva Stefano Rodotà: «E’ bene sottolineare come il nostro articolo 3 non parli della rimozione degli ostacoli di fatto solo nella direzione dell’eguaglianza: lo fa pure per la libertà, modificando radicalmente la logica secondo la quale dev’essere letto lo stesso catalogo dei diritti tradizionali. Affiora così una versione dell’eguaglianza che si tinge inequivocabilmente di colori libertari, e che è particolarmente visibile nella lunga battaglia anticoncordataria di Lelio Basso, nella sua opposizione intransigente ad ogni limitazione dei diritti di libertà».
Dal ’46 al ’68 è deputato, dal ’72 al ’76 senatore. Segretario del Psi quando rompe col partito la minoranza socialdemocratica (e filoamericana) di Saragat (’47). L’alleanza con i comunisti nel Fronte Popolare non è premiata alle elezioni del ’48, ma Basso continua a sognare il “partito unico della classe operaia”, anche se la sua ferma condanna dello stalinismo lo isola persino nel Psi.
Nel ’58 fonda la gloriosa rivista Problemi del socialismo, più attiva di qualsiasi partito di sinistra nei rapporti internazionalisti col socialismo europeo e i movimenti di liberazione del Terzo Mondo, la cui lotta anticolonialista appassionerà da questo momento Lelio Basso, il quale scrive in quello stesso anno una delle sue opere più importanti, Il principe senza scettro, libro-denuncia sulla restaurazione politica e sociale imposta dal regime democristiano e sulla mancata applicazione dei più importanti articoli della Costituzione: per tutti gli anni Cinquanta, durante i governi della repressione scelbiana, agisce nel suo ruolo di intrepido avvocato difendendo sindacalisti, operai, braccianti ed ex partigiani presi di mira dalla politica antipopolare dei governi centristi. Eppure quando nel ’63 nasce il centrosinistra, con l’aggregazione del suo partito nella maggioranza, Basso a nome di un gruppo di deputati socialisti e radicali vota coraggiosamente contro la fiducia al nuovo governo, pagando il gesto con l’espulsione dal Psi. Così nel ’64 rifonda il Psiup, insieme a Vittorio Foa, mentre Riccardo Lombardi resta solo alla guida della corrente di sinistra del Psi, in posizione fortemente critica.
Da questo momento Basso si dedica anima e corpo ai diritti dei popoli, oltre a quelli degli individui. E’ tra le grandi personalità mondiali chiamate a far parte del Tribunale Russell che condanna i crimini americani in Vietnam, e ne è il relatore finale.
Gira il mondo per incontrare i capi dei vari movimenti di liberazione, e conosce personalmente il leader vietnamita Ho-Chi-Minh, mito della lotta antimperialista e della contestazione studentesca che si stava avvicinando. Nel ’68 infatti troviamo Basso dalla parte degli studenti, per “svegliare” la sinistra tradizionale dal suo torpore e “imborghesimento”, ma ciò non gli impedisce di criticare gli esiti politici della contestazione.
Si oppone con sdegno all’invasione sovietica della Cecoslovacchia. Realizza la “Fondazione Lelio e Lisli Basso” e comincia a lavorare alla creazione del Tribunale Permanente dei Popoli. Incontra Salvador Allende, mobilitandosi contro il golpe militare durante il quale il presidente socialista cileno viene barbaramente assassinato.
Fonda allora e presiede il secondo Tribunale Russell “per l’America Latina”, segnalando tutte le violazioni della democrazia da parte dei regimi filo-Usa. Nel maggio del ’76, promuove a Ginevra una riunione di giuristi chiamati a redigere la “Dichiarazione universale dei diritti dei popoli”, sottoscritta il 4 luglio (simbolicamente, due secoli dopo la Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America) ad Algeri dai delegati dei movimenti di liberazione di tutto il mondo: in essa si enunciano i diritti fondamentali dei popoli all’autodeterminazione, al controllo delle proprie risorse, al progresso culturale, alla tutela dell’ambiente naturale. Nello stesso anno, Basso dà vita alla Lega internazionale dei Diritti dei Popoli, e nel ’78 – anno della morte (che lo coglie il 16 dicembre) – riesce pur malato a presiedere sia la Conferenza di San Paolo per l’amnistia che la Conferenza di Tokio per la riunificazione delle due Coree. Dal ’72 aveva accettato di rientrare in Parlamento come senatore indipendente, eletto nelle liste del PCI. Nell’80 esce postumo il suo capolavoro teorico: Socialismo e rivoluzione.
Basso resterà sempre marxista, anzi marxiano, perché considerava il marxismo, in buona parte, una degenerazione delle idee del suo fondatore.
Scrisse di lui Norberto Bobbio: «Era quindi d’accordo con le mie critiche al socialismo reale, solo che lui quello non lo considerava marxismo. E la crisi del marxismo non lo preoccupava più di tanto, perché non scalfiva minimamente il pensiero originale di Marx. Concludeva con questa frase che meglio di un lungo discorso dà la misura della serietà del suo impegno e della fermezza dei suoi ideali: “Riprendere il genuino pensiero di Marx è stato lo scopo della mia vita di militante anche se, in questa come in tante altre cose, sono andato incontro a sconfitte, che non mi hanno disanimato, sicché intendo ancora continuare questa battaglia”».
Era la sua “passione” per Rosa Luxemburg, la grande rivoluzionaria tedesca, a ravvivare in lui la concezione di un marxismo critico e libertario: «La dialettica storica – aveva scritto Rosa – si compiace per l’appunto di contraddizioni e pone nel mondo per ogni necessità anche il suo contrario. Il dominio di classe borghese è senza dubbio una necessità storica, ma anche la sollevazione della classe lavoratrice contro di esso; il capitale è una necessità storica, ma anche la sua caduta, per opera dell’internazionale proletaria. Ad ogni passo si incontrano due necessità storiche, che sono in contraddizione l’una con l’altra».
Commenta Basso: «Nessuno studioso di Marx, ma neppure lo stesso Marx, ci aveva descritto prima di allora il processo storico globale come l’arena dove si svolge ogni giorno questo conflitto, e dove perciò ogni aspetto della società, ogni istituzione, ogni avvenimento risente della presenza contemporanea, al proprio interno, delle due tendenze opposte che dilacerano la società, delle due necessità storiche che si contendono il sopravvento». E questo lascia spazio alla volontà, alla soggettività, alla coscienza rivoluzionaria, ad un concetto di liberazione come “possibilità” e non come determinismo storico o paralizzante fatalità, secondo lo schema falsamente “ortodosso” della seconda Internazionale.
Perché due sono i pericoli da evitare, secondo Basso: la passiva rassegnazione di fronte all’esistente, certo, ma anche l’ingenua fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive” di una umanità in marcia verso il “sol dell’avvenire”, positivismo ottocentesco spazzato letteralmente via dalle tragedie del ventesimo secolo. «In una fase in cui imperavano i catechismi – chiosa Bertinotti – aver avuto non dico il coraggio ma la forza intellettuale di mettere in luce la straordinaria esperienza, la straordinaria forza di comunicazione, la straordinaria modernità del pensiero di Rosa Luxemburg, ha costituito un potente fattore di svecchiamento delle culture del movimento operaio e marxista italiani». E Luciana Castellina conferma: «Per noi è stato un marxismo svelato, rivelato, nuovo, diverso da come l’avevamo conosciuto e da come l’avevamo imparato; ha rimesso in contatto molti di noi con le sorgenti vive del marxismo spezzando le catene del dogmatismo».
Come per il suo vecchio amico Gobetti, la democrazia nasce e vive nel conflitto, scevra da insani trasformismi e torbidi compromessi. L’intransigenza e il rigore morale accomunano Basso ai suoi amici azionisti, con i quali però non sempre andava d’accordo. Anche con lo stesso Lombardi, che aveva portato nel Psi di Basso la maggior parte di loro dopo lo scioglimento del Partito d’Azione, i rapporti furono assai difficili: più concreto e pragmatico Lombardi, più radicale e idealista Basso, che però rifiutava la falsa contrapposizione tra “riformisti” e “massimalisti”: «Anche la mia via è fatta di riforme, ma - e questo mi pare il punto essenziale di differenziazione dal “riformismo” - di riforme che siano sempre nella linea di un accrescimento di potere delle masse lavoratrici e quindi di una modifica strutturale del sistema, e non, come accade per il riformismo, nella linea di un appoggio al rafforzamento del sistema».
Parole più che mai attuali, alla vigilia della nascita del “partito democratico” nel segno di un riformismo assai ambiguo. Lo stesso Bobbio ricorda, in modo anche simpatico, le continue frecciate che gli riservava l’amico: «Diceva che di Marx non dovevo aver letto neppure una riga, e mi è accaduto spesso di sentir iniziare un suo intervento con queste parole: “Mi dispiace di non essere mai d’accordo con l’amico Norberto”. Ma io sono sempre stato un moderato. Ritenevo che i modelli di socialismo per il nostro paese dovessero essere il laburismo inglese e la socialdemocrazia svedese, e che il marxismo avesse fatto il suo tempo. Basso invece era un marxista convinto, seppure alieno, da quello spirito libero che era, da ogni forma di bigottismo».
Nessuno più di lui si è battuto per la causa dei diritti umani, estesi in seguito (come si è visto) ai diritti dei popoli su scala planetaria. «Potremmo citare ad esempio – scrive Salvatore Senese – la questione del debito estero, che egli con grande lungimiranza additò come una delle cause dello squilibrio mondiale; e ancora la visione lucida dell’interdipendenza, che in qualche modo anticipava l’attuale scenario della globalizzazione».
E al pacifismo affiancava la causa ambientalista: fu infatti tra i primi a denunciare, oltre 30 anni fa, il saccheggio iniziato ai danni della foresta amazzonica. Non c’era causa libertaria, sociale, ecologista e internazionalista che non faceva propria, incrociando spesso la sua voce con quella, altrettanto autorevole, del filosofo francese Jean-Paul Sartre. Due uomini accomunati da un’unica suggestione: l’idea di una democrazia radicale e globale; di una liberazione integrale dell’umanità.
E’ ancora Bertinotti a cercare di interpretarne la lezione politica: «Una delle cose più importanti che dovremmo aver imparato (e non è detto che ci siamo riusciti) da Lelio Basso è la capacità di coniugare un pensiero radicale, una prospettiva che aspira al superamento radicale dell’organizzazione sociale esistente e alla liberazione delle donne e degli uomini, con l’azione quotidiana volta a individuare ogni possibilità di condizionamento in senso migliorativo della realtà. Lui ci ha proposto una critica molto severa della democrazia rappresentativa e dei suoi limiti, ha indicato la possibilità di alimentare forme di democrazia diretta e una nuova idea di organizzazione dei rapporti statuali ma, al tempo stesso, ci ha proposto di valorizzare ogni elemento contenuto proprio in quella democrazia rappresentativa, in uno stato di diritto in grado di costruire le garanzie per il cittadino o per una minoranza, qualunque essa sia. Dunque questa radicalità, coniugata alla capacità di pensare la politica come intervento nel reale, credo sia stata l’esperienza e la lezione più significativa di Lelio Basso».
Che sul ruolo dello stato così si pronunciava: «Noi pensiamo che la libertà e la democrazia si difendano non diminuendo i poteri pubblici, non cercando di impedire o di ostacolare l’attività dello stato, ma al contrario facendo partecipare tutti i cittadini alla vita dello stato. Solo se otterremo che tutti siano effettivamente messi in condizione di partecipare alla gestione economica e sociale della vita collettiva, noi realizzeremo veramente una democrazia».
Con l’avvertenza tuttavia di non consegnare troppo potere ai partiti, il cui ruolo peraltro aveva energicamente voluto inserire nella Costituzione: «Basso aveva in mente – spiega Stefano Rodotà – partiti forti, veri motori della vita politica, ma rigorosamente limitati nell’ambito della loro azione, lontanissimi da una gestione economica e sociale che, conformemente alle sue premesse, vedeva affidata alla più larga partecipazione dei. cittadini. Dei partiti, dunque, che non dovevano occupare né la società, né lo Stato; che, lungo la via delle istituzioni, dovevano essere fattori costituenti della società politica, senza mortificare in nulla la società civile». Al che lo stesso Basso poteva amaramente concludere che «mezzo secolo di vita partitica è stata per me quasi sempre una vita di minoritario o addirittura di solitario».
La democrazia, nella sua visione politica e ideale, non può che esprimersi in un capillare sistema di autogestione, cogestione e autonomie, da quella dei sindacati rispetto alla politica a quella dei comuni rispetto all’amministrazione centrale. Fino alla piena autonomia dello stato dalle interferenze ecclesiastiche: in tema di laicità, Spadolini definiva Basso «il più appassionato sostenitore dell’abrogazione delle norme concordatarie, l’uomo che per vent’anni ha richiamato nelle aule parlamentari l’esigenza di rivedere radicalmente ed anzi di stracciare i Patti lateranensi».
E Salvatore Senese afferma: «Basso fu fin nel profondo “uomo di sinistra”. Poche personalità politiche ebbero così forte il senso della laicità, una laicità anche nei confronti degli schemi consolidati, delle vulgate di scuola o di partito, delle dottrine politiche; egli fu portatore di una inquietudine intellettuale di fondo che gli impedì sempre di rimanere intrappolato entro gabbie concettuali».
Il tutto in una lungimirante visione del socialismo come umanesimo integrale, cosa che il “moderato” Norberto Bobbio fu ben disposto a riconoscere con generosità all’amico “radicale” che tanto spesso lo bacchettava: «Il socialismo gli si è presentato come un grande moto di redenzione umana; a questo moto diede per tutta la vita un contributo di lucida intelligenza e di irrefrenabile azione, con un’energia vitale e con una passione che gli anni e le delusioni politiche non diminuirono. Lelio Basso non si faceva illusioni, ma non si abbandonava mai allo sconforto, aveva ferma la convinzione che questo grande moto di redenzione umana che è il socialismo era più vivo che mai nei paesi del Terzo Mondo che combattevano per la propria indipendenza. Aveva capito che in una prospettiva mondiale la storia del socialismo, contrariamente a quello che pensano coloro cui la paura di perdere il potere ha reso la vista corta, era appena cominciata».
1. 26-12-2010 07:02
Scritto da Giancarlo Iacchini
domenica 25 marzo 2007
La vita, il pensiero e le lotte di Lelio Basso esprimono nel modo più esemplare non soltanto l’essenza del radicalsocialismo, ma più in generale quel comune denominatore libertario che si può enucleare da tutti i filoni della sinistra italiana ed europea (socialista, radicale, comunista, anarchico, ecologista, pacifista) in una straordinaria sintesi dialettica che ha animato per quasi sei decenni sia la teoria che la prassi politica del rivoluzionario ligure.
Rivoluzionario, abbiamo detto, perché Lelio Basso – sia nella lotta clandestina antifascista che sugli scranni parlamentari – non ha mai dimenticato il suo stesso inequivocabile monito: «Se si oscura nell’azione di ogni giorno la presenza dell’ideale rivoluzionario, il movimento rischia di essere facile preda di un empirismo che lo rende subalterno ai meccanismi della società capitalistica e che è alla radice dei processi di integrazione».
E l’ideale rivoluzionario, sulla scia dell’intuizione libertaria di Karl Marx, è «una società socialista che segni definitivamente la fine dello sfruttamento, dell’oppressione e dell’alienazione e dia a ciascuno le più alte possibilità di sviluppo come condizione del massimo sviluppo di tutti», il che «richiede l’ascesa al potere di una classe lavoratrice ricca di esperienza democratica, di maturità politica e di senso di responsabilità, e al tempo stesso il più alto livello di forze produttive che faccia del tempo libero, e non del tempo di lavoro necessario, l’aspetto principale della vita dell’uomo».
Pertanto la maniera migliore di illustrare la figura ideale del grande combattente per la libertà degli individui e dei popoli è ripercorrere l’impegno intenso e infaticabile di un’intera vita.
Basso nasce a Varazze (Savona) nel 1903. A 18 anni si iscrive al Partito Socialista, proprio mentre se ne va la frazione comunista guidata da Gramsci e Bordiga: «Era proprio il Pcd’I il partito che soddisfaceva meglio il mio temperamento, ma non potevo accettare l’idea di una rivoluzione fatta sul modello sovietico». Ed in proposito Fausto Bertinotti osserva: «Basso ha trasmesso a noi l’idea della rivoluzione come processo storico, non semplicemente come assalto al Palazzo d’Inverno, non come presa del potere dalla quale poi sarebbe discesa, più o meno meccanicamente, la trasformazione della società civile e persino la creazione dell’uomo nuovo».
Comincia a collaborare con riviste come Critica sociale, La libertà e in seguito Il quarto Stato di Carlo Rosselli. Nel 1925, mentre il governo Mussolini instaura la dittatura vera e propria, si laurea in legge con una tesi significativamente intitolata La concezione della libertà in Marx, e viene aggredito da un squadraccia fascista subito dopo la discussione della tesi.
Entra nel comitato direttivo della Rivoluzione liberale e diventa amico di Piero Gobetti, suo quasi coetaneo. Arrestato nel ’28, insieme a tanti altri antifascisti, viene confinato per cinque anni a Ponza. Tornato in libertà cerca di svolgere la sua professione di avvocato, ma avendo rifiutato l’iscrizione al Pnf e al sindacato fascista di categoria viene ostacolato e perseguitato in tutti i modi, con gli sgherri della polizia politica praticamente dentro casa. Nonostante ciò, non smette di lavorare per l’ormai disciolto (e disperso) partito socialista, che cerca di riorganizzare clandestinamente.
Basso immagina un nuovo Psi aperto alla collaborazione (ed eventuale fusione) sia col Pci che col nuovo movimento Giustizia e Libertà. Poco prima dell’entrata in guerra dell’Italia viene nuovamente arrestato, rinchiuso nel campo di concentramento di Colfiorito (Perugia) e poi inviato al confino a Piobbico (Pesaro). Senza mai perdersi d’animo, continua a teorizzare un partito della classe operaia forte, unito, radicale, intransigente. E nel ’43 fonda il Movimento di Unità Proletaria, che poi si fonde col Psi per formare il Psiup, dando vita anche al giornale clandestino “Bandiera rossa”. E’ finalmente l’ora della Resistenza, che lo vede protagonista a Milano a stretto contatto con Sandro Pertini. E’ tra gli organizzatori dell’insurrezione generale del 25 aprile, e contribuisce a negare a Mussolini ogni spiraglio di compromesso con le ali più moderate del CLN.
Nel dopoguerra le sue capacità vengono subito valorizzate, con l’elezione all’Assemblea Costituente e la nomina nella Commissione dei 75 incaricata di scrivere la Costituzione Repubblicana. Si batte accanitamente, ma senza fortuna, contro l’articolo 7 che recepisce il “concordato” con la Chiesa cattolica. Scrive l’articolo 49 sul “diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere a determinare democraticamente la politica nazionale”, e soprattutto il mitico articolo 3, che sancisce la “pari dignità sociale” e l’eguaglianza dei cittadini “senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali” e che contiene il comma più avanzato di tutta la Carta costituzionale, quello che avrebbe dovuto segnare il passaggio dalla democrazia formale a quella sostanziale: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Articolo che potrebbe essere definito a buon diritto il manifesto del radicalsocialismo; e che più tardi lo stesso Basso, deluso dalla grigia fase politica seguita a quella esaltante della Costituente (trionfo elettorale della Dc e pesante involuzione conservatrice), commenterà piuttosto amaramente: «Questa norma in un certo senso smentisce la Costituzione, dice che tutto è una menzogna nella Costituzione fino a che questo capoverso dell’articolo 3 non sarà attuato. Non solo non c’è l’eguaglianza del primo comma, ma non è vero neanche l’articolo 1, non è vero che l’Italia sia una repubblica democratica, non è vero che ci sia la sovranità popolare finché non è realizzato il capoverso dell’articolo 3 che deve mettere tutti in grado di parteciparvi».
In piena polemica con la deriva reazionaria e autoritaria imposta dalla guerra fredda, dall’adesione dell’Italia alla Nato e al Piano Marshall, scrive nel ’51 un libro che dice tutto già nel titolo: Due totalitarismi, fascismo e democrazia cristiana. Osserva Stefano Rodotà: «E’ bene sottolineare come il nostro articolo 3 non parli della rimozione degli ostacoli di fatto solo nella direzione dell’eguaglianza: lo fa pure per la libertà, modificando radicalmente la logica secondo la quale dev’essere letto lo stesso catalogo dei diritti tradizionali. Affiora così una versione dell’eguaglianza che si tinge inequivocabilmente di colori libertari, e che è particolarmente visibile nella lunga battaglia anticoncordataria di Lelio Basso, nella sua opposizione intransigente ad ogni limitazione dei diritti di libertà».
Dal ’46 al ’68 è deputato, dal ’72 al ’76 senatore. Segretario del Psi quando rompe col partito la minoranza socialdemocratica (e filoamericana) di Saragat (’47). L’alleanza con i comunisti nel Fronte Popolare non è premiata alle elezioni del ’48, ma Basso continua a sognare il “partito unico della classe operaia”, anche se la sua ferma condanna dello stalinismo lo isola persino nel Psi.
Nel ’58 fonda la gloriosa rivista Problemi del socialismo, più attiva di qualsiasi partito di sinistra nei rapporti internazionalisti col socialismo europeo e i movimenti di liberazione del Terzo Mondo, la cui lotta anticolonialista appassionerà da questo momento Lelio Basso, il quale scrive in quello stesso anno una delle sue opere più importanti, Il principe senza scettro, libro-denuncia sulla restaurazione politica e sociale imposta dal regime democristiano e sulla mancata applicazione dei più importanti articoli della Costituzione: per tutti gli anni Cinquanta, durante i governi della repressione scelbiana, agisce nel suo ruolo di intrepido avvocato difendendo sindacalisti, operai, braccianti ed ex partigiani presi di mira dalla politica antipopolare dei governi centristi. Eppure quando nel ’63 nasce il centrosinistra, con l’aggregazione del suo partito nella maggioranza, Basso a nome di un gruppo di deputati socialisti e radicali vota coraggiosamente contro la fiducia al nuovo governo, pagando il gesto con l’espulsione dal Psi. Così nel ’64 rifonda il Psiup, insieme a Vittorio Foa, mentre Riccardo Lombardi resta solo alla guida della corrente di sinistra del Psi, in posizione fortemente critica.
Da questo momento Basso si dedica anima e corpo ai diritti dei popoli, oltre a quelli degli individui. E’ tra le grandi personalità mondiali chiamate a far parte del Tribunale Russell che condanna i crimini americani in Vietnam, e ne è il relatore finale.
Gira il mondo per incontrare i capi dei vari movimenti di liberazione, e conosce personalmente il leader vietnamita Ho-Chi-Minh, mito della lotta antimperialista e della contestazione studentesca che si stava avvicinando. Nel ’68 infatti troviamo Basso dalla parte degli studenti, per “svegliare” la sinistra tradizionale dal suo torpore e “imborghesimento”, ma ciò non gli impedisce di criticare gli esiti politici della contestazione.
Si oppone con sdegno all’invasione sovietica della Cecoslovacchia. Realizza la “Fondazione Lelio e Lisli Basso” e comincia a lavorare alla creazione del Tribunale Permanente dei Popoli. Incontra Salvador Allende, mobilitandosi contro il golpe militare durante il quale il presidente socialista cileno viene barbaramente assassinato.
Fonda allora e presiede il secondo Tribunale Russell “per l’America Latina”, segnalando tutte le violazioni della democrazia da parte dei regimi filo-Usa. Nel maggio del ’76, promuove a Ginevra una riunione di giuristi chiamati a redigere la “Dichiarazione universale dei diritti dei popoli”, sottoscritta il 4 luglio (simbolicamente, due secoli dopo la Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America) ad Algeri dai delegati dei movimenti di liberazione di tutto il mondo: in essa si enunciano i diritti fondamentali dei popoli all’autodeterminazione, al controllo delle proprie risorse, al progresso culturale, alla tutela dell’ambiente naturale. Nello stesso anno, Basso dà vita alla Lega internazionale dei Diritti dei Popoli, e nel ’78 – anno della morte (che lo coglie il 16 dicembre) – riesce pur malato a presiedere sia la Conferenza di San Paolo per l’amnistia che la Conferenza di Tokio per la riunificazione delle due Coree. Dal ’72 aveva accettato di rientrare in Parlamento come senatore indipendente, eletto nelle liste del PCI. Nell’80 esce postumo il suo capolavoro teorico: Socialismo e rivoluzione.
Basso resterà sempre marxista, anzi marxiano, perché considerava il marxismo, in buona parte, una degenerazione delle idee del suo fondatore.
Scrisse di lui Norberto Bobbio: «Era quindi d’accordo con le mie critiche al socialismo reale, solo che lui quello non lo considerava marxismo. E la crisi del marxismo non lo preoccupava più di tanto, perché non scalfiva minimamente il pensiero originale di Marx. Concludeva con questa frase che meglio di un lungo discorso dà la misura della serietà del suo impegno e della fermezza dei suoi ideali: “Riprendere il genuino pensiero di Marx è stato lo scopo della mia vita di militante anche se, in questa come in tante altre cose, sono andato incontro a sconfitte, che non mi hanno disanimato, sicché intendo ancora continuare questa battaglia”».
Era la sua “passione” per Rosa Luxemburg, la grande rivoluzionaria tedesca, a ravvivare in lui la concezione di un marxismo critico e libertario: «La dialettica storica – aveva scritto Rosa – si compiace per l’appunto di contraddizioni e pone nel mondo per ogni necessità anche il suo contrario. Il dominio di classe borghese è senza dubbio una necessità storica, ma anche la sollevazione della classe lavoratrice contro di esso; il capitale è una necessità storica, ma anche la sua caduta, per opera dell’internazionale proletaria. Ad ogni passo si incontrano due necessità storiche, che sono in contraddizione l’una con l’altra».
Commenta Basso: «Nessuno studioso di Marx, ma neppure lo stesso Marx, ci aveva descritto prima di allora il processo storico globale come l’arena dove si svolge ogni giorno questo conflitto, e dove perciò ogni aspetto della società, ogni istituzione, ogni avvenimento risente della presenza contemporanea, al proprio interno, delle due tendenze opposte che dilacerano la società, delle due necessità storiche che si contendono il sopravvento». E questo lascia spazio alla volontà, alla soggettività, alla coscienza rivoluzionaria, ad un concetto di liberazione come “possibilità” e non come determinismo storico o paralizzante fatalità, secondo lo schema falsamente “ortodosso” della seconda Internazionale.
Perché due sono i pericoli da evitare, secondo Basso: la passiva rassegnazione di fronte all’esistente, certo, ma anche l’ingenua fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive” di una umanità in marcia verso il “sol dell’avvenire”, positivismo ottocentesco spazzato letteralmente via dalle tragedie del ventesimo secolo. «In una fase in cui imperavano i catechismi – chiosa Bertinotti – aver avuto non dico il coraggio ma la forza intellettuale di mettere in luce la straordinaria esperienza, la straordinaria forza di comunicazione, la straordinaria modernità del pensiero di Rosa Luxemburg, ha costituito un potente fattore di svecchiamento delle culture del movimento operaio e marxista italiani». E Luciana Castellina conferma: «Per noi è stato un marxismo svelato, rivelato, nuovo, diverso da come l’avevamo conosciuto e da come l’avevamo imparato; ha rimesso in contatto molti di noi con le sorgenti vive del marxismo spezzando le catene del dogmatismo».
Come per il suo vecchio amico Gobetti, la democrazia nasce e vive nel conflitto, scevra da insani trasformismi e torbidi compromessi. L’intransigenza e il rigore morale accomunano Basso ai suoi amici azionisti, con i quali però non sempre andava d’accordo. Anche con lo stesso Lombardi, che aveva portato nel Psi di Basso la maggior parte di loro dopo lo scioglimento del Partito d’Azione, i rapporti furono assai difficili: più concreto e pragmatico Lombardi, più radicale e idealista Basso, che però rifiutava la falsa contrapposizione tra “riformisti” e “massimalisti”: «Anche la mia via è fatta di riforme, ma - e questo mi pare il punto essenziale di differenziazione dal “riformismo” - di riforme che siano sempre nella linea di un accrescimento di potere delle masse lavoratrici e quindi di una modifica strutturale del sistema, e non, come accade per il riformismo, nella linea di un appoggio al rafforzamento del sistema».
Parole più che mai attuali, alla vigilia della nascita del “partito democratico” nel segno di un riformismo assai ambiguo. Lo stesso Bobbio ricorda, in modo anche simpatico, le continue frecciate che gli riservava l’amico: «Diceva che di Marx non dovevo aver letto neppure una riga, e mi è accaduto spesso di sentir iniziare un suo intervento con queste parole: “Mi dispiace di non essere mai d’accordo con l’amico Norberto”. Ma io sono sempre stato un moderato. Ritenevo che i modelli di socialismo per il nostro paese dovessero essere il laburismo inglese e la socialdemocrazia svedese, e che il marxismo avesse fatto il suo tempo. Basso invece era un marxista convinto, seppure alieno, da quello spirito libero che era, da ogni forma di bigottismo».
Nessuno più di lui si è battuto per la causa dei diritti umani, estesi in seguito (come si è visto) ai diritti dei popoli su scala planetaria. «Potremmo citare ad esempio – scrive Salvatore Senese – la questione del debito estero, che egli con grande lungimiranza additò come una delle cause dello squilibrio mondiale; e ancora la visione lucida dell’interdipendenza, che in qualche modo anticipava l’attuale scenario della globalizzazione».
E al pacifismo affiancava la causa ambientalista: fu infatti tra i primi a denunciare, oltre 30 anni fa, il saccheggio iniziato ai danni della foresta amazzonica. Non c’era causa libertaria, sociale, ecologista e internazionalista che non faceva propria, incrociando spesso la sua voce con quella, altrettanto autorevole, del filosofo francese Jean-Paul Sartre. Due uomini accomunati da un’unica suggestione: l’idea di una democrazia radicale e globale; di una liberazione integrale dell’umanità.
E’ ancora Bertinotti a cercare di interpretarne la lezione politica: «Una delle cose più importanti che dovremmo aver imparato (e non è detto che ci siamo riusciti) da Lelio Basso è la capacità di coniugare un pensiero radicale, una prospettiva che aspira al superamento radicale dell’organizzazione sociale esistente e alla liberazione delle donne e degli uomini, con l’azione quotidiana volta a individuare ogni possibilità di condizionamento in senso migliorativo della realtà. Lui ci ha proposto una critica molto severa della democrazia rappresentativa e dei suoi limiti, ha indicato la possibilità di alimentare forme di democrazia diretta e una nuova idea di organizzazione dei rapporti statuali ma, al tempo stesso, ci ha proposto di valorizzare ogni elemento contenuto proprio in quella democrazia rappresentativa, in uno stato di diritto in grado di costruire le garanzie per il cittadino o per una minoranza, qualunque essa sia. Dunque questa radicalità, coniugata alla capacità di pensare la politica come intervento nel reale, credo sia stata l’esperienza e la lezione più significativa di Lelio Basso».
Che sul ruolo dello stato così si pronunciava: «Noi pensiamo che la libertà e la democrazia si difendano non diminuendo i poteri pubblici, non cercando di impedire o di ostacolare l’attività dello stato, ma al contrario facendo partecipare tutti i cittadini alla vita dello stato. Solo se otterremo che tutti siano effettivamente messi in condizione di partecipare alla gestione economica e sociale della vita collettiva, noi realizzeremo veramente una democrazia».
Con l’avvertenza tuttavia di non consegnare troppo potere ai partiti, il cui ruolo peraltro aveva energicamente voluto inserire nella Costituzione: «Basso aveva in mente – spiega Stefano Rodotà – partiti forti, veri motori della vita politica, ma rigorosamente limitati nell’ambito della loro azione, lontanissimi da una gestione economica e sociale che, conformemente alle sue premesse, vedeva affidata alla più larga partecipazione dei. cittadini. Dei partiti, dunque, che non dovevano occupare né la società, né lo Stato; che, lungo la via delle istituzioni, dovevano essere fattori costituenti della società politica, senza mortificare in nulla la società civile». Al che lo stesso Basso poteva amaramente concludere che «mezzo secolo di vita partitica è stata per me quasi sempre una vita di minoritario o addirittura di solitario».
La democrazia, nella sua visione politica e ideale, non può che esprimersi in un capillare sistema di autogestione, cogestione e autonomie, da quella dei sindacati rispetto alla politica a quella dei comuni rispetto all’amministrazione centrale. Fino alla piena autonomia dello stato dalle interferenze ecclesiastiche: in tema di laicità, Spadolini definiva Basso «il più appassionato sostenitore dell’abrogazione delle norme concordatarie, l’uomo che per vent’anni ha richiamato nelle aule parlamentari l’esigenza di rivedere radicalmente ed anzi di stracciare i Patti lateranensi».
E Salvatore Senese afferma: «Basso fu fin nel profondo “uomo di sinistra”. Poche personalità politiche ebbero così forte il senso della laicità, una laicità anche nei confronti degli schemi consolidati, delle vulgate di scuola o di partito, delle dottrine politiche; egli fu portatore di una inquietudine intellettuale di fondo che gli impedì sempre di rimanere intrappolato entro gabbie concettuali».
Il tutto in una lungimirante visione del socialismo come umanesimo integrale, cosa che il “moderato” Norberto Bobbio fu ben disposto a riconoscere con generosità all’amico “radicale” che tanto spesso lo bacchettava: «Il socialismo gli si è presentato come un grande moto di redenzione umana; a questo moto diede per tutta la vita un contributo di lucida intelligenza e di irrefrenabile azione, con un’energia vitale e con una passione che gli anni e le delusioni politiche non diminuirono. Lelio Basso non si faceva illusioni, ma non si abbandonava mai allo sconforto, aveva ferma la convinzione che questo grande moto di redenzione umana che è il socialismo era più vivo che mai nei paesi del Terzo Mondo che combattevano per la propria indipendenza. Aveva capito che in una prospettiva mondiale la storia del socialismo, contrariamente a quello che pensano coloro cui la paura di perdere il potere ha reso la vista corta, era appena cominciata».
1. 26-12-2010 07:02
Lo scandalo delle privatizzazioni imposte dagli squali liberisti
Vergogna, vergogna, vergogna per i liberisti ed i loro ruffiani che proclamano la superiorità del privato sul pubblico. Dieci ore senza possibilità di fruire dei bagni peggio che in una remota regione indiana durante il dominio coloniale. Trattavasi di Milano-Reggio Calabria. Tutto quello che i privati toccano degrada e costa di più. Con le Ferrovie dello Stato non è mai successo niente di simile prima dell'arrivo degli squali capeggiati da Moretti
lo stesso accade per l'acqua privatizzata, per le poste, per la telecom,
per le banche, per le scuole, per i servizi ceduti ai privati dal ssn etc..
pietro ancona
24/12/2010Dieci ore senza wc su un Intercity
Viaggio da incubo Milano-Reggio C.
Pessimo inizio delle vacanze di Natale per i passeggeri dell'Intercity 1589 in viaggio da Milano e Reggio Calabria i quali si sono ritrovati per tutto il viaggio senza la possibilità di andare in bagno. Secondo le testimonianze dirette pare che nelle toilette manchi l'acqua e il personale viaggiante abbia consigliato ai passeggeri di usufruire dei bagni durante le fermate. Ad accentuare il disagio c'è il ritardo con cui viaggia il convoglio: 80 minuti.
"Chi vuole usufruire delle ritirate si rechi al binario uno". E' questo l'annuncio diretto ai passeggeri dell'Intercity partito alle 7:05 da Milano e diretto a in Calabria. Il treno attraversa la penisola e i servizi a bordo non sono agibili.
Così, gli utenti sono invitati a scendere, a Roma e a Formia per utilizzare i servizi. "Io ho avuto paura di scendere rischiando che il treno partisse - dice Daniela - e quindi da dieci ore non bevo e non mangio sapendo di non poter contare su una toilette. E' vergognoso, sono partita da Milano e devo andare a Palermo: una vigilia di Natale in queste condizioni proprio non me l'aspettavo".
"A Formia abbiamo sentito questo annuncio anni '20 - aggiunge Maria Lucia - ci invitavano a 'usufruire delle ritirate' lasciando il treno. E' pazzesco. E nei bagni non c'è nemmeno acqua". A Napoli il treno giunge con un'ora e venti di ritardo e con i passeggeri ormai rassegnati: "Ci sono state due lunghe soste - dice Salvatore - una di cinquanta minuti a Roma, l'altra di quaranta a Formia, e ora siamo fermi qui, dove finalmente hanno ripristinato l'agibilità di un bagno, uno solo!".
Sul treno, ovviamente, viaggiano anche bambini e anziani: "Mio marito è cardiopatico, ha subito tre operazioni di ernia - dice Maria - e sono un po' spaventata all'idea di continuare il viaggio in queste condizioni. Noi siamo diretti a Lamezia". Indignata anche una madre con le sue due figlie giovanissime: "Viaggiare così con due bambine piccole non è da paese civile". Il capotreno prova a giustificarsi mentre i passeggeri, ormai esausti, si lamentano: "Il problema è provocato proprio dagli utenti: se i servizi sono inaccessibili è forse anche perché vengono utilizzati male".
lo stesso accade per l'acqua privatizzata, per le poste, per la telecom,
per le banche, per le scuole, per i servizi ceduti ai privati dal ssn etc..
pietro ancona
24/12/2010Dieci ore senza wc su un Intercity
Viaggio da incubo Milano-Reggio C.
Pessimo inizio delle vacanze di Natale per i passeggeri dell'Intercity 1589 in viaggio da Milano e Reggio Calabria i quali si sono ritrovati per tutto il viaggio senza la possibilità di andare in bagno. Secondo le testimonianze dirette pare che nelle toilette manchi l'acqua e il personale viaggiante abbia consigliato ai passeggeri di usufruire dei bagni durante le fermate. Ad accentuare il disagio c'è il ritardo con cui viaggia il convoglio: 80 minuti.
"Chi vuole usufruire delle ritirate si rechi al binario uno". E' questo l'annuncio diretto ai passeggeri dell'Intercity partito alle 7:05 da Milano e diretto a in Calabria. Il treno attraversa la penisola e i servizi a bordo non sono agibili.
Così, gli utenti sono invitati a scendere, a Roma e a Formia per utilizzare i servizi. "Io ho avuto paura di scendere rischiando che il treno partisse - dice Daniela - e quindi da dieci ore non bevo e non mangio sapendo di non poter contare su una toilette. E' vergognoso, sono partita da Milano e devo andare a Palermo: una vigilia di Natale in queste condizioni proprio non me l'aspettavo".
"A Formia abbiamo sentito questo annuncio anni '20 - aggiunge Maria Lucia - ci invitavano a 'usufruire delle ritirate' lasciando il treno. E' pazzesco. E nei bagni non c'è nemmeno acqua". A Napoli il treno giunge con un'ora e venti di ritardo e con i passeggeri ormai rassegnati: "Ci sono state due lunghe soste - dice Salvatore - una di cinquanta minuti a Roma, l'altra di quaranta a Formia, e ora siamo fermi qui, dove finalmente hanno ripristinato l'agibilità di un bagno, uno solo!".
Sul treno, ovviamente, viaggiano anche bambini e anziani: "Mio marito è cardiopatico, ha subito tre operazioni di ernia - dice Maria - e sono un po' spaventata all'idea di continuare il viaggio in queste condizioni. Noi siamo diretti a Lamezia". Indignata anche una madre con le sue due figlie giovanissime: "Viaggiare così con due bambine piccole non è da paese civile". Il capotreno prova a giustificarsi mentre i passeggeri, ormai esausti, si lamentano: "Il problema è provocato proprio dagli utenti: se i servizi sono inaccessibili è forse anche perché vengono utilizzati male".
lelio Basso, resistente, socialista, rivoluzionario, giurista, padre della costituzione, difensore dei popoli
SCHEDA BIOGRAFIA PERSONE
Istituto: FONDAZIONE LELIO E LISLI BASSO - ISSOCO
Basso Lelio (Varazze (SV), 25/12/1903 - Roma, 16/12/1978)
ANAGRAFE
Altre denominazioni Filodemo Prometeo
Spartaco
Lebas
BIOGRAFIA
Cariche Deputato all'Assemblea costituente (1946); vicesegretario del Psiup <1942-1947>; Deputato (1946-1968); Senatore (1972-1978); Segretario del Psi (gen. 1947-llug. 1948); Presidente del Psiup (1965-1968).
Biografia Lelio Basso nacque a Varazze (SV), il 25 dicembre 1903 da una famiglia della borghesia liberale. Frequentò il liceo Berchet a Milano, dove la famiglia si era trasferita nel 1916. Nel 1921 si iscrisse alla facoltà di legge dell'Università di Pavia e al Partito socialista italiano. Studioso di dottrina marxista, fu vicino a Piero Gobetti durante l'esperienza di «Rivoluzione Liberale»; oltre a questa rivista collaborò, negli anni giovanili, con «Critica sociale», «Il Caffè», «Avanti!», «Coscientia», «Quarto Stato» e «Pietre», rivista da lui diretta nel 1928, prima a Genova, poi a Milano. Nel 1925 si laureò in giurisprudenza con una tesi sulla concezione della libertà in Marx. Il 13 aprile 1928 venne arrestato a Milano e inviato al confino a Ponza, dove studiò per la futura laurea in filosofia. Tornato a Milano nel 1931, mentre esercitava la professione forense, si laureò con una tesi su Rudolf Otto. Nel 1934 riprese l'attività illegale, dirigendo il Centro interno socialista, con Rodolfo Morandi, Lucio Luzzatto, Eugenio Colorni; attività interrotta per l'internamento nel campo di concentramento di Colfiorito (PG) dal 1939 al 1940 e poi ripresa. Dopo una lunga preparazione clandestina, il 10 gennaio 1943 partecipò alla costituzione del Movimento di unità proletaria (Mup), il cui gruppo dirigente era formato da Basso, Lucio Luzzatto, Roberto Verrati, Umberto Recalcati; movimento che dopo il 25 luglio si fonderà con il Psi nel Psiup, della cui direzione Basso entrò a far parte. Nel 1945 fondò il giornale clandestino «Bandiera rossa» e fino alla Liberazione partecipò attivamente alla Resistenza, fondando con Sandro Pertini e Rodolfo Morandi l'esecutivo clandestino Alta Italia del Psiup, di cui assunse la responsabilità organizzativa. Dopo la liberazione fu eletto vicesegretario del Psiup e nel 1946 deputato all'Assemblea costituente; fece parte della Commissione dei 75 per la redazione della Costituzione, contribuendo in particolare alla formulazione degli artt. 3 e 49. Deputato in tutte le legislature dal 1946 fino al 1968; fu poi eletto senatore nel 1972 e nel 1976. Nello stesso 1946 fondò la rivista «Quarto Stato», che verrà pubblicata fino al 1950. All'atto della scissione saragattiana (1947), Basso assunse la segreteria del Psi, carica che conservò fino al congresso di Genova del giugno 1949. Nel 1951, in opposizione con la linea staliniana del partito, non venne rieletto nella Direzione; nel Congresso di Milano del 1953 non entrò nel Comitato centrale, dove fu riammesso nel 1955, mentre nel 1957, al Congresso di Venezia, rientrò nella Direzione e nella Segreteria. L'anno successivo diede vita a «Problemi del socialismo». Esponente della corrente di sinistra del Psi dal 1959, nel dicembre 1963 pronunciò alla Camera dei Deputati la dichiarazione di rifiuto, da parte dei 25 deputati dalla minoranza del gruppo parlamentare socialista, di votare a favore del governo di centro-sinistra, annunciando la scissione da cui sarebbe sorto il Psiup, nel gennaio 1964. Membro della direzione del nuovo partito, ne fu presidente dal 1965 al 1968, fino all'entrata delle truppe del Patto di Varsavia in Cecoslovacchia. Fondatore e collaboratore di riviste internazionali (fu direttore di «Revue international du socialisme»/«International socialist journal» - la documentazione della rivista è conservata nel fondo omonimo in Fondazione Lelio e Lisli Basso - Issoco - ), penalista di fama europea, fu membro del Tribunale internazionale presieduto da Bertrand Russell, creato per giudicare i crimini americani nel Vietnam. Nel 1973 promosse la costituzione di un secondo Tribunale Russell (documentazione relativa all'attività di Lelio Basso come membro del Tribunale Russell I e II nel Fondo Tribunale Russell in Fondazione Lelio e Lisli Basso - Issoco), sulle repressioni in America latina e lavorò per la preparazione del Tribunale permanente dei popoli (costituito nel 1979, dopo la sua morte). Nello stesso 1973 diede vita a Roma alla Fondazione Lelio e Lisli Basso; nel 1976 alla Fondazione internazionale e alla Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli. Morì a Roma il 16 dicembre 1978.
DOCUMENTAZIONE
Bibliografia OPERE: si rimanda alla pagina web: http://www.leliobasso.it/testi.aspx
BIBLIOGRAFIA: si rimanda alla pagina web: http://www.leliobasso.it/biblio.htm
CONTROLLO D'AUTORITA'
Altre forme del nome Filodemo Prometeo; Spartaco; Lebas
http://www.leliobasso.it/vita.htm
http://www.internazionaleleliobasso.it/
Istituto: FONDAZIONE LELIO E LISLI BASSO - ISSOCO
Basso Lelio (Varazze (SV), 25/12/1903 - Roma, 16/12/1978)
ANAGRAFE
Altre denominazioni Filodemo Prometeo
Spartaco
Lebas
BIOGRAFIA
Cariche Deputato all'Assemblea costituente (1946); vicesegretario del Psiup <1942-1947>; Deputato (1946-1968); Senatore (1972-1978); Segretario del Psi (gen. 1947-llug. 1948); Presidente del Psiup (1965-1968).
Biografia Lelio Basso nacque a Varazze (SV), il 25 dicembre 1903 da una famiglia della borghesia liberale. Frequentò il liceo Berchet a Milano, dove la famiglia si era trasferita nel 1916. Nel 1921 si iscrisse alla facoltà di legge dell'Università di Pavia e al Partito socialista italiano. Studioso di dottrina marxista, fu vicino a Piero Gobetti durante l'esperienza di «Rivoluzione Liberale»; oltre a questa rivista collaborò, negli anni giovanili, con «Critica sociale», «Il Caffè», «Avanti!», «Coscientia», «Quarto Stato» e «Pietre», rivista da lui diretta nel 1928, prima a Genova, poi a Milano. Nel 1925 si laureò in giurisprudenza con una tesi sulla concezione della libertà in Marx. Il 13 aprile 1928 venne arrestato a Milano e inviato al confino a Ponza, dove studiò per la futura laurea in filosofia. Tornato a Milano nel 1931, mentre esercitava la professione forense, si laureò con una tesi su Rudolf Otto. Nel 1934 riprese l'attività illegale, dirigendo il Centro interno socialista, con Rodolfo Morandi, Lucio Luzzatto, Eugenio Colorni; attività interrotta per l'internamento nel campo di concentramento di Colfiorito (PG) dal 1939 al 1940 e poi ripresa. Dopo una lunga preparazione clandestina, il 10 gennaio 1943 partecipò alla costituzione del Movimento di unità proletaria (Mup), il cui gruppo dirigente era formato da Basso, Lucio Luzzatto, Roberto Verrati, Umberto Recalcati; movimento che dopo il 25 luglio si fonderà con il Psi nel Psiup, della cui direzione Basso entrò a far parte. Nel 1945 fondò il giornale clandestino «Bandiera rossa» e fino alla Liberazione partecipò attivamente alla Resistenza, fondando con Sandro Pertini e Rodolfo Morandi l'esecutivo clandestino Alta Italia del Psiup, di cui assunse la responsabilità organizzativa. Dopo la liberazione fu eletto vicesegretario del Psiup e nel 1946 deputato all'Assemblea costituente; fece parte della Commissione dei 75 per la redazione della Costituzione, contribuendo in particolare alla formulazione degli artt. 3 e 49. Deputato in tutte le legislature dal 1946 fino al 1968; fu poi eletto senatore nel 1972 e nel 1976. Nello stesso 1946 fondò la rivista «Quarto Stato», che verrà pubblicata fino al 1950. All'atto della scissione saragattiana (1947), Basso assunse la segreteria del Psi, carica che conservò fino al congresso di Genova del giugno 1949. Nel 1951, in opposizione con la linea staliniana del partito, non venne rieletto nella Direzione; nel Congresso di Milano del 1953 non entrò nel Comitato centrale, dove fu riammesso nel 1955, mentre nel 1957, al Congresso di Venezia, rientrò nella Direzione e nella Segreteria. L'anno successivo diede vita a «Problemi del socialismo». Esponente della corrente di sinistra del Psi dal 1959, nel dicembre 1963 pronunciò alla Camera dei Deputati la dichiarazione di rifiuto, da parte dei 25 deputati dalla minoranza del gruppo parlamentare socialista, di votare a favore del governo di centro-sinistra, annunciando la scissione da cui sarebbe sorto il Psiup, nel gennaio 1964. Membro della direzione del nuovo partito, ne fu presidente dal 1965 al 1968, fino all'entrata delle truppe del Patto di Varsavia in Cecoslovacchia. Fondatore e collaboratore di riviste internazionali (fu direttore di «Revue international du socialisme»/«International socialist journal» - la documentazione della rivista è conservata nel fondo omonimo in Fondazione Lelio e Lisli Basso - Issoco - ), penalista di fama europea, fu membro del Tribunale internazionale presieduto da Bertrand Russell, creato per giudicare i crimini americani nel Vietnam. Nel 1973 promosse la costituzione di un secondo Tribunale Russell (documentazione relativa all'attività di Lelio Basso come membro del Tribunale Russell I e II nel Fondo Tribunale Russell in Fondazione Lelio e Lisli Basso - Issoco), sulle repressioni in America latina e lavorò per la preparazione del Tribunale permanente dei popoli (costituito nel 1979, dopo la sua morte). Nello stesso 1973 diede vita a Roma alla Fondazione Lelio e Lisli Basso; nel 1976 alla Fondazione internazionale e alla Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli. Morì a Roma il 16 dicembre 1978.
DOCUMENTAZIONE
Bibliografia OPERE: si rimanda alla pagina web: http://www.leliobasso.it/testi.aspx
BIBLIOGRAFIA: si rimanda alla pagina web: http://www.leliobasso.it/biblio.htm
CONTROLLO D'AUTORITA'
Altre forme del nome Filodemo Prometeo; Spartaco; Lebas
http://www.leliobasso.it/vita.htm
http://www.internazionaleleliobasso.it/
venerdì 24 dicembre 2010
Cretinismo politico
Cretinismo politico
Ci avviciniamo rapidamente alla fine di questo altro anno orribilis per le classi povere della società italiana. La destra sta realizzando, uno dopo l'altro i suoi obiettivi, forte della esperienza fatta in Inghilterra e negli USA di dismissione del welfare e di compressione dei redditi da lavoro. Ieri la destra ha messo nel carniere due fondamentali prede: l'università pubblica ed il contratto collettivo di lavoro infischiandosene della protesta di centinaia di migliaia di studenti e professori ed ignorando l'opposizione della Fiom. La Gelmini ha generosamente annunziato che incontrerà gli studenti dopo averli sbaragliati con la truffaldina approvazione della legge al Senato. Magari farà cadere qualche briciola dal tavolo, ma nulla di più. L'impianto neocon della riforma universitaria resterà intatto e comincerà subito ad escludere molti sulla base del metodo "meritocratico" che premia i provenienti dalle famiglie benestanti ed integrate. La Fiom, sindacato di gran lunga maggioritario tra i metalmeccanici, in conseguenza del suo rifiuto a firmare il patto aziendale proposto dalla Fiat, sarà emarginata e forse esclusa dalla rappresentanza interna
riservata solo ai sindacati organici alla ideologia Fiat come la Cisl, l'Uil e la Fismic. La linea è quella di andare oltre l'isolamento della Fiom addirittura criminalizzandone la presenza dentro lo stabilimento Mirafiori dal momento che, come scrive "Il Sole 24 Ore", non sarebbe più consentita dalla legge. Il colpo inferto da Marchionne e dalla Marcegaglia, con la solerte copertura del "complice" Sacconi, ai lavoratori italiani è durissimo. Si è alzata la forca dove impiccare la Fiom che la CGIL ha abbandonato al suo destino dal momento che contemporaneamente stringe accordi di ferro con la Confindustria e con la Cisl e l'Uil.
Insomma ieri sè è chiuso l'anno orribilis per il patto sociale italiano che aveva consentito il mantenimento di un certo equilibrio sociale ed aveva assicurato dignità ed una qualche sicurezza alla popolazione. Nel 2011 approderà una Italia diversa in cui anche lo Stato e le sue istituzioni vengono occupate dal gruppo economico e politico dominante. Lo Stato viene "liberato" di cinquecentomila dipendenti a vantaggio di gruppi dirigenziali di supermanagers che per quanto nell'ordine delle migliaia non costeranno di meno. Le famiglie dei lavoratori dovranno rinunziare a fare laureare i figli e non avranno i soldi per pagare gli asili nido. La fetta di Pil destinata al profitto ed alle rendite si ingigantisce, mentre viene erosa e ridotta quella del lavoro dipendente.
> Bisogna dare atto a Berlusconi (che ieri ha lodato Marchionne ed approvato gli accordi di Mirafiori) che è stato abile e capace di guidare il passaggio dell'Italia dall'interclassismo alla dittatura della destra e della sua maggioranza. E' stato più bravo di tanti suoi colleghi che affollano le riunioni di Bildelberg. Ha destrutturato lo stato sociale e sta strutturando lo stato dei padroni confrontandosi con le questioni fondamentali del lavoro, dei diritti, della scuola, della sanità, della politica estera. La sua politica, la politica della destra italiana è rivolta alla costruzione di uno Stato ideologico impregnato dai valori del liberismo. Sbaglia di molto Bersani ed il PD ad attaccare Berlusconi ed il suo governo
sulla base della efficienza e spingendosi financo a parlare di fallimento di un decennio. Ma quale fallimento? La destra ha realizzato quasi tutto quello che voleva. Le sue "riforme" sono state in grande parte fatte. Dalla legge Biagi all'accordo di Mirafiori si sviluppa il più poderoso attacco che fosse mai stato sferrato alla condizione esistenziale di venti milioni di lavoratori italiani e delle loro famiglie. E' ridicola e grottesca la pretesa di Bersani di dire che il centro-sinistra farebbe meglio del centro-destra. Meglio che cosa? Bersani è d'accordo su tutte le cose che la destra italiana ha realizzato per umiliare il blocco sociale progressista: è d'accordo sulla legge Biagi, sul collegato lavoro, sulle riforme Gelmini, su Marchionne e sulla politica estera della quale accetta le guerre coloniali e rimprovera a Berlusconi le cose sulle quali dovrebbe essere d'accordo: i rapporti con Putin e con la Libia!!.
Questa politica del PD non è alternativa al berlusconismo perchè ne condivide le scelte fondamentali. Bersani ed i suoi vorrebbero soltanto dimostrare alla borghesia italiana di essere più bravi nella tutela dei suoi interessi della destra. Il suo errore é quello di non essere comunista e di volere ad ogni costo rassicurare che non lo é.
Berlusconi ha già dato tutto quello che il suo blocco sociale sempre più asociale e barbaro chiedeva. Si illude Bersani se pensa che la Marcegaglia e la Confindustria, allettate dalla resa della CGIL, cambieranno campo e si illude di diventare la guida di un blocco moderato diverso da quello attuale. Prima del PD la destra potrà scegliere Casini o Fini ammesso che abbia voglia ed interesse a farlo.
Ecco perchè considero cretinismo politico la linea del PD e di Bersani. In Italia c'è un vuoto enorme in Parlamento che aspetta di essere riempito: manca un forte partito socialista o comunista che abbia un pensiero forte, una ideologia più forte di quella reaganiana della destra. Questo Partito è il solo che possa recuperare lo Stato voluto dalla Costituzione ma deve essere attivo nel Paese spingendo la lotta sociale oltre il recupero delle posizioni perdute in questi anni. Ponendosi come obiettivi l'abrogazione della legge Biagi, del collegato lavoro, delle riforme della scuola e dell'università, della politica estera.
Ripristinare il contratto a tempo indeterminato per tutti ed alzare i salari di almeno il venti per cento. Sono obiettivi che anche la parte più responsabile dei "moderati" italiani potrebbe condividere.
> Pietro Ancona
http://medioevosociale-pietro.blogspot.com/
www.spazioamico.it
Ci avviciniamo rapidamente alla fine di questo altro anno orribilis per le classi povere della società italiana. La destra sta realizzando, uno dopo l'altro i suoi obiettivi, forte della esperienza fatta in Inghilterra e negli USA di dismissione del welfare e di compressione dei redditi da lavoro. Ieri la destra ha messo nel carniere due fondamentali prede: l'università pubblica ed il contratto collettivo di lavoro infischiandosene della protesta di centinaia di migliaia di studenti e professori ed ignorando l'opposizione della Fiom. La Gelmini ha generosamente annunziato che incontrerà gli studenti dopo averli sbaragliati con la truffaldina approvazione della legge al Senato. Magari farà cadere qualche briciola dal tavolo, ma nulla di più. L'impianto neocon della riforma universitaria resterà intatto e comincerà subito ad escludere molti sulla base del metodo "meritocratico" che premia i provenienti dalle famiglie benestanti ed integrate. La Fiom, sindacato di gran lunga maggioritario tra i metalmeccanici, in conseguenza del suo rifiuto a firmare il patto aziendale proposto dalla Fiat, sarà emarginata e forse esclusa dalla rappresentanza interna
riservata solo ai sindacati organici alla ideologia Fiat come la Cisl, l'Uil e la Fismic. La linea è quella di andare oltre l'isolamento della Fiom addirittura criminalizzandone la presenza dentro lo stabilimento Mirafiori dal momento che, come scrive "Il Sole 24 Ore", non sarebbe più consentita dalla legge. Il colpo inferto da Marchionne e dalla Marcegaglia, con la solerte copertura del "complice" Sacconi, ai lavoratori italiani è durissimo. Si è alzata la forca dove impiccare la Fiom che la CGIL ha abbandonato al suo destino dal momento che contemporaneamente stringe accordi di ferro con la Confindustria e con la Cisl e l'Uil.
Insomma ieri sè è chiuso l'anno orribilis per il patto sociale italiano che aveva consentito il mantenimento di un certo equilibrio sociale ed aveva assicurato dignità ed una qualche sicurezza alla popolazione. Nel 2011 approderà una Italia diversa in cui anche lo Stato e le sue istituzioni vengono occupate dal gruppo economico e politico dominante. Lo Stato viene "liberato" di cinquecentomila dipendenti a vantaggio di gruppi dirigenziali di supermanagers che per quanto nell'ordine delle migliaia non costeranno di meno. Le famiglie dei lavoratori dovranno rinunziare a fare laureare i figli e non avranno i soldi per pagare gli asili nido. La fetta di Pil destinata al profitto ed alle rendite si ingigantisce, mentre viene erosa e ridotta quella del lavoro dipendente.
> Bisogna dare atto a Berlusconi (che ieri ha lodato Marchionne ed approvato gli accordi di Mirafiori) che è stato abile e capace di guidare il passaggio dell'Italia dall'interclassismo alla dittatura della destra e della sua maggioranza. E' stato più bravo di tanti suoi colleghi che affollano le riunioni di Bildelberg. Ha destrutturato lo stato sociale e sta strutturando lo stato dei padroni confrontandosi con le questioni fondamentali del lavoro, dei diritti, della scuola, della sanità, della politica estera. La sua politica, la politica della destra italiana è rivolta alla costruzione di uno Stato ideologico impregnato dai valori del liberismo. Sbaglia di molto Bersani ed il PD ad attaccare Berlusconi ed il suo governo
sulla base della efficienza e spingendosi financo a parlare di fallimento di un decennio. Ma quale fallimento? La destra ha realizzato quasi tutto quello che voleva. Le sue "riforme" sono state in grande parte fatte. Dalla legge Biagi all'accordo di Mirafiori si sviluppa il più poderoso attacco che fosse mai stato sferrato alla condizione esistenziale di venti milioni di lavoratori italiani e delle loro famiglie. E' ridicola e grottesca la pretesa di Bersani di dire che il centro-sinistra farebbe meglio del centro-destra. Meglio che cosa? Bersani è d'accordo su tutte le cose che la destra italiana ha realizzato per umiliare il blocco sociale progressista: è d'accordo sulla legge Biagi, sul collegato lavoro, sulle riforme Gelmini, su Marchionne e sulla politica estera della quale accetta le guerre coloniali e rimprovera a Berlusconi le cose sulle quali dovrebbe essere d'accordo: i rapporti con Putin e con la Libia!!.
Questa politica del PD non è alternativa al berlusconismo perchè ne condivide le scelte fondamentali. Bersani ed i suoi vorrebbero soltanto dimostrare alla borghesia italiana di essere più bravi nella tutela dei suoi interessi della destra. Il suo errore é quello di non essere comunista e di volere ad ogni costo rassicurare che non lo é.
Berlusconi ha già dato tutto quello che il suo blocco sociale sempre più asociale e barbaro chiedeva. Si illude Bersani se pensa che la Marcegaglia e la Confindustria, allettate dalla resa della CGIL, cambieranno campo e si illude di diventare la guida di un blocco moderato diverso da quello attuale. Prima del PD la destra potrà scegliere Casini o Fini ammesso che abbia voglia ed interesse a farlo.
Ecco perchè considero cretinismo politico la linea del PD e di Bersani. In Italia c'è un vuoto enorme in Parlamento che aspetta di essere riempito: manca un forte partito socialista o comunista che abbia un pensiero forte, una ideologia più forte di quella reaganiana della destra. Questo Partito è il solo che possa recuperare lo Stato voluto dalla Costituzione ma deve essere attivo nel Paese spingendo la lotta sociale oltre il recupero delle posizioni perdute in questi anni. Ponendosi come obiettivi l'abrogazione della legge Biagi, del collegato lavoro, delle riforme della scuola e dell'università, della politica estera.
Ripristinare il contratto a tempo indeterminato per tutti ed alzare i salari di almeno il venti per cento. Sono obiettivi che anche la parte più responsabile dei "moderati" italiani potrebbe condividere.
> Pietro Ancona
http://medioevosociale-pietro.blogspot.com/
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giovedì 23 dicembre 2010
cinque milioni della Gelmini per il Talmud italiano
Mentre le scuole italiane si impoveriscono di sussidi didattici, aule, insegnanti ed i bambini sono costretti a portarsi da casa i soldi per riparare un vetro rotto o per la carta igienica vengono elargiti milioni a scopi soltanto eminentemente politici e di dominio culturale. Che bisogno ha la scuola italiana del Talmud tradotto? La comunità ebraica ha soldi quanto ne vuole dall'otto per mille. Bisogna spremere alla povera scuola italiana per dare a chi non ha bisogno.
Ma forse, questo è uno dei prezzi che si pagano al gruppo di cervelli che ha pensato elaborato e scritto in caratteri neocon la riforma della scuola italiana
Pietro Ancona
http://it.peacereporter.net/articolo/25960/Gelmini,+5+milioni+per+tradurre+il+Talmud
Peace Reporter
22/12/2010Gelmini, 5 milioni per tradurre il Talmud
Tra i tagli alla scuola e all'università, il ministro dell'Istruzione trova 5 milioni per finanziare, tramite il Cnr, la traduzione in italiano del testo sacro ebraico
Nel pomeriggio del 14 dicembre, il giorno della fiducia a Berlusconi, mentre Roma bruciava e gli studenti assediavano i palazzi della politica, la commissione Cultura del Senato approvava a maggioranza lo 'schema di decreto ministeriale recante ripartizione del Fondo ordinario per gli enti e le istituzioni di ricerca, per l'anno 2010'.
Tra gli stanziamenti previsti da questo decreto a firma del ministro Mariastella Gelmini - che all'inizio di gennaio verrà sottoposto al parere della commissione Cultura della Camera - figurano ben 5 milioni di euro ''a sostegno del progetto pluriennale 'Talmud', che vede il Cnr collaborare con l'Unione delle comunità ebraiche italiane - Collegio rabbinico italiano (Ucei-Cri) per la traduzione integrale in lingua italiana, con commento e testo originale a fronte, del Talmud, opera fondamentale e testo esclusivo della cultura ebraica''.
Mentre con una mano la Gelmini cala la pesante scure dei tagli sulla scuola pubblica e sull'università, con l'altra mano dà dieci miliardi delle vecchie lire a un'équipe di trenta traduttori specializzati che lavoreranno per cinque anni alla traduzione italiana del testo sacro ebraico. Un lavoro monumentale, visto che il Talmud consta di seimila pagine divise in quaranta volumi. L'anziano rabbino di Gerusalemme, Adin Steinsaltz, ci ha messo cinquant'anni per tradurre in ebraico moderno il testo originale in aramaico.
Un lavoro certamente importante per la comunità ebraica italiana, che evidentemente sulla Gelmini esercita un'influenza ben maggiore di quella del mondo scolastico e accademico nazionale.
Enrico Piovesana
Scrivi all'autore
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22/12/2010 La riforma, la Gelmini e le tre P: Dalle "tre i" di Berlusconi alle "tre p" della Gelmini. Un breve bilancio, a mente 'non' fredda, su questa inattesa stagione di lotte universitarie.
Ma forse, questo è uno dei prezzi che si pagano al gruppo di cervelli che ha pensato elaborato e scritto in caratteri neocon la riforma della scuola italiana
Pietro Ancona
http://it.peacereporter.net/articolo/25960/Gelmini,+5+milioni+per+tradurre+il+Talmud
Peace Reporter
22/12/2010Gelmini, 5 milioni per tradurre il Talmud
Tra i tagli alla scuola e all'università, il ministro dell'Istruzione trova 5 milioni per finanziare, tramite il Cnr, la traduzione in italiano del testo sacro ebraico
Nel pomeriggio del 14 dicembre, il giorno della fiducia a Berlusconi, mentre Roma bruciava e gli studenti assediavano i palazzi della politica, la commissione Cultura del Senato approvava a maggioranza lo 'schema di decreto ministeriale recante ripartizione del Fondo ordinario per gli enti e le istituzioni di ricerca, per l'anno 2010'.
Tra gli stanziamenti previsti da questo decreto a firma del ministro Mariastella Gelmini - che all'inizio di gennaio verrà sottoposto al parere della commissione Cultura della Camera - figurano ben 5 milioni di euro ''a sostegno del progetto pluriennale 'Talmud', che vede il Cnr collaborare con l'Unione delle comunità ebraiche italiane - Collegio rabbinico italiano (Ucei-Cri) per la traduzione integrale in lingua italiana, con commento e testo originale a fronte, del Talmud, opera fondamentale e testo esclusivo della cultura ebraica''.
Mentre con una mano la Gelmini cala la pesante scure dei tagli sulla scuola pubblica e sull'università, con l'altra mano dà dieci miliardi delle vecchie lire a un'équipe di trenta traduttori specializzati che lavoreranno per cinque anni alla traduzione italiana del testo sacro ebraico. Un lavoro monumentale, visto che il Talmud consta di seimila pagine divise in quaranta volumi. L'anziano rabbino di Gerusalemme, Adin Steinsaltz, ci ha messo cinquant'anni per tradurre in ebraico moderno il testo originale in aramaico.
Un lavoro certamente importante per la comunità ebraica italiana, che evidentemente sulla Gelmini esercita un'influenza ben maggiore di quella del mondo scolastico e accademico nazionale.
Enrico Piovesana
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Una pacca sulle spalle e poi a casa
Una pacca sulle spalle e poi a casa
Il Presidente della Repubblica ha ricevuto ieri al Quirinale una rappresentanza dei giovani in lotta contro la legge Gelmini. Una diecina di ragazzi emozionatissimi sono stati ammessi alla presenza del Capo dello Stato nel salone prezioso del palazzo rinascimentale.
Sono stati ascoltati ed il Presidente ha preso nota delle loro ragioni. E' stato il primo incontro serio e significativo da quando è iniziata la loro dura lotta che li ha visti protagonisti di momenti come l'occupazione della Torre di Pisa e dei monumenti più importanti delle città italiane. Ma mentre avveniva l'incontro, al Senato cessava l'ostruzionismo. La legge Gelmini verrà approvata oggi poco prima dello scambio di auguri e di regali tra i Senatori che chiuderanno il Senato fino a dopo le feste.
A che cosa è servito l'incontro con il Presidente della Repubblica? A niente a meno che
la legge non verrà rinviata alle Camere come è stato fatto per il collegato lavoro. Ma, ammesso che questo sarà fatto, non cambierà le cose come non le ha cambiate per il collegato lavoro. Perchè siamo giunti al punto in cui la normale dialettica parlamentare e politica non serve a niente? La ragione è semplice: il Parlamento italiano è tutto di destra, è costituito da varie espressioni di liberisti che condividono sostanzialmente l'idea di trasformare l'Italia da una Repubblica solidale ad una società nella quale chi ha il potere si prende tutto e piega gli altri ai suoi interessi. Il collegato lavoro ha ricevuto il voto contrario del PD ma non è affatto vero che il PD non condivida e si opponga al collegato lavoro. La legge Gelmini sulla scuola che ha espulso duecentomila insegnanti ed abbassato drasticamente la qualità ed i servizi della scuola pubblica italiana è stata condivisa dalla opposizione e lo stesso dicasi della riforma universitaria. L'idea liberista della privatizzazione totale o parziale dell'insegnamento, della cosidetta "meritocrazia" che diventa l'ariete per imporre la precarietà, non è solo della maggioranza, ma ha consenso in tanta parte della opposizione che ritiene obsoleti ed appartenenti ad una diversa era politica
i valori della gratuità e libertà dell'insegnamento e dello stesso diritto allo studio. In sostanza, ammesso che il Presidente della Repubblica voglia fare davvero qualcosa per gli studenti ed i precari si troverà di fronte non soltanto ad una maggioranza che financo con brutalità esercita la sua dittatura, ma ad una sostanziale condivisione delle ragioni di questa da parte degli ambienti più importanti del PD.
Ieri abbiamo visto un fiume di giovani animare le piazze d'Italia. Non hanno tentato di violare la zona rossa per rivendicare il loro diritto di essere riconosciuti dal Parlamento e dal Governo che si sono barricati, sono stati massacrati da una campagna incessante ossessiva di criminalizzazione e non mi riferisco soltanto alle forsennate richieste di Gasparri, di Alfano, di Maroni. I giovani hanno manifestato pacificamente tranne che a Palermo dove però abbiamo avuto nel recente passato un comportamento della polizia duro e di scontro. Milioni di ragazze e ragazze e di insegnanti in piazza sostenuti dalla simpatia della popolazione, anche se i giornali e la TV hanno fatto di tutto per farli apparire quasi come terroristi. Ma i Palazzi hanno deciso per loro pollice verso. Anche la CGIL ha chiuso le porte in faccia rifiutando uno sciopero generale con il meschinissimo argomento che questo "costa" ai lavoratori che lo fanno!! Il meccanismo della democrazia, della dialettica del conflitto che produce alla fine una sintesi, un compromesso, è stato inceppato. Nessuna mediazione, nessun compromesso, niente di niente. La Gelmini non riceverà gli studenti fino a quando non avrà difronte una rappresentanza di questi disposta ad approvare senza discutere le scelte del governo. Questo Regime, non parlo più soltanto della dittatura della maggioranza, non discute con nessuno le sue scelte. Discute forse Marchionne le cose che vuole fare negli stabilimenti Fiat? L'intervento di Napolitano è
meramente consolatorio. Rappresenta la nostalgia per un Paese che non c'è più in cui le ragioni venivano ascoltate, discusse e spesso soddisfatte. Un bel ricordo per i ragazzi che sono entrati nei favolosi saloni del Quirinale ed un giorno potranno raccontare ai figli di essere stati a colloquio con il Presidente. Ragazzi che, se giungeranno alla laurea, all'indomani avranno sempre bisogno della pensione dei loro vecchi per sopravvivere al precariato ed ai salari di fame, come accade oggi per milioni di giovani famiglie.
Pietro Ancona
http://medioevosociale-pietro.blogspot.com/
www.spazioamico.it
Il Presidente della Repubblica ha ricevuto ieri al Quirinale una rappresentanza dei giovani in lotta contro la legge Gelmini. Una diecina di ragazzi emozionatissimi sono stati ammessi alla presenza del Capo dello Stato nel salone prezioso del palazzo rinascimentale.
Sono stati ascoltati ed il Presidente ha preso nota delle loro ragioni. E' stato il primo incontro serio e significativo da quando è iniziata la loro dura lotta che li ha visti protagonisti di momenti come l'occupazione della Torre di Pisa e dei monumenti più importanti delle città italiane. Ma mentre avveniva l'incontro, al Senato cessava l'ostruzionismo. La legge Gelmini verrà approvata oggi poco prima dello scambio di auguri e di regali tra i Senatori che chiuderanno il Senato fino a dopo le feste.
A che cosa è servito l'incontro con il Presidente della Repubblica? A niente a meno che
la legge non verrà rinviata alle Camere come è stato fatto per il collegato lavoro. Ma, ammesso che questo sarà fatto, non cambierà le cose come non le ha cambiate per il collegato lavoro. Perchè siamo giunti al punto in cui la normale dialettica parlamentare e politica non serve a niente? La ragione è semplice: il Parlamento italiano è tutto di destra, è costituito da varie espressioni di liberisti che condividono sostanzialmente l'idea di trasformare l'Italia da una Repubblica solidale ad una società nella quale chi ha il potere si prende tutto e piega gli altri ai suoi interessi. Il collegato lavoro ha ricevuto il voto contrario del PD ma non è affatto vero che il PD non condivida e si opponga al collegato lavoro. La legge Gelmini sulla scuola che ha espulso duecentomila insegnanti ed abbassato drasticamente la qualità ed i servizi della scuola pubblica italiana è stata condivisa dalla opposizione e lo stesso dicasi della riforma universitaria. L'idea liberista della privatizzazione totale o parziale dell'insegnamento, della cosidetta "meritocrazia" che diventa l'ariete per imporre la precarietà, non è solo della maggioranza, ma ha consenso in tanta parte della opposizione che ritiene obsoleti ed appartenenti ad una diversa era politica
i valori della gratuità e libertà dell'insegnamento e dello stesso diritto allo studio. In sostanza, ammesso che il Presidente della Repubblica voglia fare davvero qualcosa per gli studenti ed i precari si troverà di fronte non soltanto ad una maggioranza che financo con brutalità esercita la sua dittatura, ma ad una sostanziale condivisione delle ragioni di questa da parte degli ambienti più importanti del PD.
Ieri abbiamo visto un fiume di giovani animare le piazze d'Italia. Non hanno tentato di violare la zona rossa per rivendicare il loro diritto di essere riconosciuti dal Parlamento e dal Governo che si sono barricati, sono stati massacrati da una campagna incessante ossessiva di criminalizzazione e non mi riferisco soltanto alle forsennate richieste di Gasparri, di Alfano, di Maroni. I giovani hanno manifestato pacificamente tranne che a Palermo dove però abbiamo avuto nel recente passato un comportamento della polizia duro e di scontro. Milioni di ragazze e ragazze e di insegnanti in piazza sostenuti dalla simpatia della popolazione, anche se i giornali e la TV hanno fatto di tutto per farli apparire quasi come terroristi. Ma i Palazzi hanno deciso per loro pollice verso. Anche la CGIL ha chiuso le porte in faccia rifiutando uno sciopero generale con il meschinissimo argomento che questo "costa" ai lavoratori che lo fanno!! Il meccanismo della democrazia, della dialettica del conflitto che produce alla fine una sintesi, un compromesso, è stato inceppato. Nessuna mediazione, nessun compromesso, niente di niente. La Gelmini non riceverà gli studenti fino a quando non avrà difronte una rappresentanza di questi disposta ad approvare senza discutere le scelte del governo. Questo Regime, non parlo più soltanto della dittatura della maggioranza, non discute con nessuno le sue scelte. Discute forse Marchionne le cose che vuole fare negli stabilimenti Fiat? L'intervento di Napolitano è
meramente consolatorio. Rappresenta la nostalgia per un Paese che non c'è più in cui le ragioni venivano ascoltate, discusse e spesso soddisfatte. Un bel ricordo per i ragazzi che sono entrati nei favolosi saloni del Quirinale ed un giorno potranno raccontare ai figli di essere stati a colloquio con il Presidente. Ragazzi che, se giungeranno alla laurea, all'indomani avranno sempre bisogno della pensione dei loro vecchi per sopravvivere al precariato ed ai salari di fame, come accade oggi per milioni di giovani famiglie.
Pietro Ancona
http://medioevosociale-pietro.blogspot.com/
www.spazioamico.it
mercoledì 22 dicembre 2010
nel giorno della manifestazione degli studenti
Olivetti e Marchionne
la fabbrica di Olivetti e l'inferno freddo, disonesto ed allucinante che Marchionne impone ai lavoratori delle sue fabbriche. Dall'idea di una fabbrica madre degli operai integrata nella cultura del territorio al penitenziario della Fiat odiato dagli operai-robot del wmc. Olivetti non guadagnava i milioni di Marchionne... e a differenza di questo pagava le tasse
http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntata.aspx?id=312 http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntata.aspx?id=312
Una coltellata alla schiena di Cipputi in arrivo
Si prepara un durissimo colpo ai lavoratori Fiat ed a tutti i lavoratori italiani. Il decreto Marchionne-Marcegaglia già accettato da Cisl ed UIl e si lavora nell'ombra per costringere la Fiom a firmare. La linea Marchionne sostenuta dal PD e non osteggiata dalla CGIL che lavora in silenzio per la capitolazione
Il posto precario non esiste
Il posto precario non esiste in "natura"se non in caso di lavori stagionali o eccezionali.Se si esaminano tutti i posti ricoperti da precari ci si rende conto che il posto viene riassegnato allo stesso precario anche quattro o cinque volte oppure ad altri ma resta sempre quello. Il precariato è una invenzione per schi...avizzare il lavoro e creare una classe di schiavi al padronato ed allo Stato. La legge Biagi ne è il
Martire della mafia dei caporali?
Ucciso dalla mafia dei caporali? Il lavoratore liberiano Jerry Joseph è scomparso da oltre un anno. Era diventato il capo naturale dei braccianti-schiavi di Rosarno. Ha un permesso di soggiorno pronto in Questura ma non si è mai presentato per ritirarlo. Intanto a Rosarno e nelle campagne meridionali continua la traged...ia dei lavoratori immigrati privi di tutto e sfruttati per pochi euro al giorno.....Mostra tutto
Scomparso il leader della protesta
Guantanamo
A Natale pensiamo ai prigionieri di Guantanamo, isolati dal mondo, torturati, privati di ogni diritto. Nessuno di loro è terrorista perchè il terrorismo è una invenzione dei terroristi USA ed Occidentali. Sono patrioti esibiti come prede dall'Impero che fa di Guantanamo il suo Colosseo...
la fabbrica di Olivetti e l'inferno freddo, disonesto ed allucinante che Marchionne impone ai lavoratori delle sue fabbriche. Dall'idea di una fabbrica madre degli operai integrata nella cultura del territorio al penitenziario della Fiat odiato dagli operai-robot del wmc. Olivetti non guadagnava i milioni di Marchionne... e a differenza di questo pagava le tasse
http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntata.aspx?id=312 http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntata.aspx?id=312
Una coltellata alla schiena di Cipputi in arrivo
Si prepara un durissimo colpo ai lavoratori Fiat ed a tutti i lavoratori italiani. Il decreto Marchionne-Marcegaglia già accettato da Cisl ed UIl e si lavora nell'ombra per costringere la Fiom a firmare. La linea Marchionne sostenuta dal PD e non osteggiata dalla CGIL che lavora in silenzio per la capitolazione
Il posto precario non esiste
Il posto precario non esiste in "natura"se non in caso di lavori stagionali o eccezionali.Se si esaminano tutti i posti ricoperti da precari ci si rende conto che il posto viene riassegnato allo stesso precario anche quattro o cinque volte oppure ad altri ma resta sempre quello. Il precariato è una invenzione per schi...avizzare il lavoro e creare una classe di schiavi al padronato ed allo Stato. La legge Biagi ne è il
Martire della mafia dei caporali?
Ucciso dalla mafia dei caporali? Il lavoratore liberiano Jerry Joseph è scomparso da oltre un anno. Era diventato il capo naturale dei braccianti-schiavi di Rosarno. Ha un permesso di soggiorno pronto in Questura ma non si è mai presentato per ritirarlo. Intanto a Rosarno e nelle campagne meridionali continua la traged...ia dei lavoratori immigrati privi di tutto e sfruttati per pochi euro al giorno.....Mostra tutto
Scomparso il leader della protesta
Guantanamo
A Natale pensiamo ai prigionieri di Guantanamo, isolati dal mondo, torturati, privati di ogni diritto. Nessuno di loro è terrorista perchè il terrorismo è una invenzione dei terroristi USA ed Occidentali. Sono patrioti esibiti come prede dall'Impero che fa di Guantanamo il suo Colosseo...
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