Eugenetica in Europa tra le due guerre e oltre
Caccia agli zingari in Svizzera
Nel maggio del 1999, il Parlamento svedese ha deciso di indennizzare le vittime della politica di sterilizzazione forzata condotta in questo paese dal 1934 al1975. A partire dal periodo compreso fra le due guerre, in tutta Europa, sotto la pressione di una"nuova scienza", l'eugenetica, e nel quadro di un'inquietante febbre nazionalista, si attuano politiche di eliminazione o di controllo dei"devianti sociali" e degli stranieri. La Germania nazista le porterà al parossismo, ma esse furono attuate, sotto altre forme, anche dal governo elevetico nei riguardi degli zingari.
di Laurence Jourdan*
"Mi hanno portata via da mia madre poco dopo la mia nascita (...) I primi sei mesi di vita, li ho passati in un centro pediatrico per ritardati mentali. Lì ho vissuto le prime torture psichiatriche di un bambino jenische (...) Quando per la prima volta ho chiesto al mio tutore, il dottor Siegfried, chi fossero i miei genitori, mi ha detto (...) tua madre è una puttana, tuo padre un asociale. E questo, me lo sono portato dietro per dieci anni. Finché ho capito il significato di quelle parole: i miei genitori erano zingari" Oggi Mariella Mehr, scrittrice jenische (una comunità gitana), vive in Italia. Da oltre venticinque anni consegna alla carta la memoria di quella comunità della Svizzera vittima, negli anni tra il 1926 e il 1972, di quella vera e propria caccia al nomade che fu l'operazione"Enfants de la grand-route" (Bambini della strada maestra). Come varie centinaia di altri figli di nomadi, Mariella era stata tolta di forza ai suoi genitori. Nella sua famiglia, tre generazioni sono state vittime di questa politica di sedentarizzazione forzata: prima di lei, sua madre, e poi anche suo figlio Settantadue anni dopo, i risultati di una ricerca storica hanno dissipato ogni"ambiguità" su questa operazione. Nel giugno 1998 Ruth Dreyfuss, consigliere federale oggi presidente della Confederazione elvetica ha dichiarato pubblicamente:"Le conclusioni degli storici non lasciano spazio al dubbio: l'Opera di soccorso Enfants de la grand-route è un tragico esempio di discriminazione e persecuzione di una minoranza che non condivide il modello di vita della maggioranza".
Nell'arco di quasi mezzo secolo, in Svizzera oltre seicento bambini jenisches sono stati sottratti a forza alle loro famiglie dall'Opera di soccorso"Enfants de la grand-route", che aveva un unico mandato: quello di sradicare il nomadismo. Con questo proposito, i figli del popolo itinerante erano sistematicamente sottratti ai genitori e collocati presso famiglie affidatarie o negli orfanatrofi, quando non venivano addirittura incarcerati o internati in ospedali psichiatrici.
Nell'ambito del programma che doveva plasmarli secondo i modelli della società sedentaria, questi bambini hanno subito atti di razzismo, umiliazioni e maltrattamenti. Queste vessazioni, più accentuate nella Svizzera tedesca e nel Ticino, sono state minori nella Svizzera francese.
"Sradicare il male del nomadismo" L'Opera di soccorso"Enfants de la grand-route" era stata creata nel 1926 dalla celebre e prestigiosa federazione svizzera di beneficenza Pro-Juventute, cui era stato affidato l'incarico di"proteggere i bambini a rischio di abbandono e di vagabondaggio".
Il fondatore e direttore di quest'organismo, Alfred Siegfried (1890-1972), è stato il terrore dei bambini gitani, tanto che gli jenisches lo paragonano a Hitler. Per braccare gli zingari, il dottor Siegfried beneficiava dell'infallibile collaborazione della polizia e delle autorità pubbliche cantonali e comunali.
Accanitamente determinato a"sradicare il male del nomadismo, fin dall'infanzia, attraverso misure educative sistematiche e coerenti", Siegfried era animato da un razzismo viscerale nei confronti della comunità dei girovaghi, che definiva"inferiori","psicopatici","deficienti" o"mentalmente ritardati" Lo scandalo esplode infine nel 1972, grazie al settimanale svizzero Der schweizerische Beobachter. Un anno dopo, la Pro Juventute è costretta a procedere allo scioglimento dell'Opera.
Messa di fronte a questa pagina nera della sua storia, nel 1987 la Confederazione elvetica riconosce la propria responsabilità morale, politica e finanziaria nell'operazione. Si dovrà tuttavia attendere il 1996 per uno studio storiografico su quel periodo, intrapreso da tre storici della Beratungsstelle ffr die Landgeschichte (Centro di consulenza storica nazionale) su incarico del Consiglio federale, con il proposito di definire"gli obiettivi, le strutture, i finanziamenti e le attività dell'Opera di soccorso Enfants de la grand-route", e"per porre in evidenza il ruolo della Confederazione e quello della Fondazione Pro Juventute".
I risultati, resi pubblici nel giugno 1998 a Berna, sono agghiaccianti. Fin dagli anni '20 il moderno stato amministrativo elvetico, deciso a combattere ogni forma di marginalità, aveva preso la risoluzione di ricorre a misure coercitive per sottomettere i cittadini non conformi ai suoi ideali di ordine. Gli zingari, considerati"devianti sociali", o anche"fannulloni, gente trascurata e in gran parte degenerata", erano definiti"vagabondi congeniti" dall'antropologia criminale dell'epoca (1). Il loro stile di vita, incompatibile con i principi morali della società borghese che vedeva"nella vita errabonda la via verso il crimine", doveva quindi essere normalizzato.
Gli jenisches, il cui nomadismo era strettamente legato all'attività economica, si spostavano con tutta la famiglia e davano la preminenza, più che alla scolarizzazione dei bambini, alla trasmissione dei mestieri. La loro cultura e il loro stile di vita divennero il bersaglio delle autorità:"Chiunque voglia combattere efficacemente il nomadismo deve mirare a far saltare la comunità dei girovaghi e porre fine, per quanto ciò possa apparire duro, alla comunità familiare. Non esistono altre soluzioni", scriveva il dr. Alfred Siegfried. L'operazione"Enfants de la grand-route", teoricamente inserita nel quadro di una"politica di assistenza sociale e di previdenza", in realtà altro non era che una politica di sedentarizzazione forzata, destinata, come hanno rivelato gli storici, a"liberare la società dai mali rappresentati da queste famiglie e gruppi di nomadi, considerati come inferiori".
Fin dal 1930, il Dipartimento federale di giustizia e polizia pianificava la sottrazione dei bambini per il decennio successivo, mentre il Dipartimento dell'Interno metteva a disposizione i fondi per finanziare l'operazione. Secondo gli autori della ricerca storica,"le sovvenzioni della Confederazione coprivano dal 7% al 25% del bilancio dell'Opera di soccorso". E questo finanziamento è stato rinnovato fino al 1967! L'operazione era inoltre finanziata da vari mecenati e associazioni, oltre che dalla vendita di francobolli e opuscoli propagandistici pubblicati dalla fondazione.
Su richiesta dell'Opera di soccorso fu realizzato un censimento della popolazione itinerante. E Alfred Siegfried si fece nominare tutore di più di 300 bambini, i cui genitori erano stati posti sotto curatela. Secondo la sua tesi, la rottura totale tra il bambino e il suo universo familiare era la condizione previa per la riuscita delle sue mire educative.
Scriveva infatti:"Ogni volta che per la nostra benevolenza, o per un disgraziato (sic) incontro, qualche bambino non ancora adattato, o di carattere instabile, entra in contatto con i propri genitori, il nostro lavoro è azzerato (2)" Robert Huber, sottratto alla famiglia a soli otto mesi, ha incontrato per la prima volta sua madre a vent'anni."Davanti a me c'era una donna completamente estranea. E questa donna, mia madre, mi ha detto che avevo altri dieci fratelli e sorelle (...) La famiglia non esisteva più. Nessun di noi sapeva dove fossero gli altri (...) Gli jenisches avevano l'obbligo del servizio militare. E mentre erano sotto le armi, i loro figli venivano portati via. Quando tornavano, trovavano le mogli piangenti. E se protestavano, le autorità minacciavano di rinchiuderli in un ospedale psichiatrico o in carcere".
Cittadini svizzeri, gli jenisches erano assoggettati a tutti i doveri, ma non godevano di alcun diritto Questa politica fu largamente sostenuta dal clero. I bambini dovevano innanzitutto assimilare i valori dell'ordine e del lavoro per essere socializzati, ma l'istruzione che ricevevano era ridotta al minimo. Per i maschi, l'unica prospettiva era l'apprendistato, mentre le ragazze venivano confinate al lavoro domestico. La loro realtà quotidiana era fatta di maltrattamenti, razzismo e a volte anche abusi sessuali. Erano comandati a bacchetta dalle suore di qualche istituto religioso, nelle aziende agricole (dove venivano utilizzati come manodopera a basso costo) e spesso nei penitenziari. Nell'arco di diciott'anni, la signora Uschi Waser, presidente dell'Associazione Naschet Jenische (Alzati, jenische) è passata per ventitré diverse istituzioni! Sconvolta dalle opinioni che la riguardavano contenute nelle 3.500 pagine del suo dossier, spiega che:"Siegfried sosteneva (che) tutti gli zingari sono cattivi, ladri e bugiardi (...), non perché abbiano imparato a mentire, ma perché nascono così".
Diversi scienziati svizzeri condividevano questi pregiudizi e ne hanno tratto spunto per le loro ricerche, approfittando spudoratamente dell'operazione"Enfants de la grand-route" per architettare tesi sull'"inferiorità ereditaria" dei nomadi.
Furono praticate anche sterilizzazioni forzate, benché non in maniera sistematica. Nel suo rapporto sull'attività dell'Opera di soccorso nel 1964, il dottor Siegfried scriveva:"Il nomadismo, come alcune malattie pericolose, è trasmesso soprattutto dalle donne".
Ed ecco la testimonianza di Mariella Mehr:"Quando si accorsero che a tre anni rifiutavo di parlare, decisero di farmi parlare per forza. Usavano una specie di vasca da bagno. (...) Il paziente veniva fatto sdraiare lì dentro, bloccato fino alla testa da un'asse di legno perché non potesse uscirne. E là rimaneva finché l'acqua diventava ghiacciata. Si poteva restarci anche per 17, 18 o 20 ore". Lo psichiatra Joseph JÜrger, per lunghi anni direttore della clinica Waldhaus di Coira, dove erano stati internati numerosi jenisches, fu uno dei primi ideologi svizzeri dell'igiene razziale. Secondo il resoconto degli storici, nel 1988 molte di queste vittime della scienza al servizio della politica un centinaio circa erano tuttora internate nelle cliniche e negli istituti.
Dal 1987 tutti gli incartamenti relativi all'azione dell'Opera di soccorso sono stati depositati presso l'Archivio federale di Berna. A questi documenti, di proprietà dei Cantoni, assoggettati a un periodo di prescrizione di cento anni, possono accedere solo gli stessi jenisches. I quali però impauriti, e nel timore che quelle carte potessero finire per danneggiarli, ne chiesero in un primo tempo la distruzione. Solo più tardi, quando si è finalmente alzato il sipario sull'ipocrisia della neutralità elvetica, si sono resi conto di quanto fosse importante salvaguardare la loro storia. E hanno misurato fino a che punto questa politica aveva minato le fondamenta della loro cultura di popolo itinerante. Secondo le valutazioni, in Svizzera vi erano 35.000 jenisches, divenuti in maggioranza"gitani del cemento", cioè sedentari. Sono ormai solo 5.000 quelli che continuano a percorrere le strade della Confederazione.
L'operazione"Enfants de la grand-route" si è sviluppata in un contesto europeo"favorevole", nel periodo tra le due guerre, quando abbondavano le pubblicazioni sulla"patologia" del nomadismo e sulla criminalità ereditaria degli zingari L'Europa, scossa da un'inquietante febbre nazionalista, era tesa a restaurare i valori morali della società e a preservare la cultura occidentale. La situazione demografica preoccupava gli economisti, e l'elevata natalità dei ceti operai e"marginali" era percepita come un pericolo per le élites, oltre che una minaccia per gli interessi della società capitalista. Per essere forte, la nazione doveva liberarsi dalla zavorra di gente"debole", dei"devianti sociali" e degli stranieri, suscettibili di rallentare la sua crescita economica. L'eugenetica antinatalista si rivelava come una soluzione a questo problema di"igiene sociale".
Fin dal 1908, il britannico Francis Galton, inventore di questa nuova scienza che ha preso il nome di eugenetica, e fondatore (nel 1907, insieme a Karl Pearson) del Galton Laboratory for National Eugenics, postulava"la creazione di società eugeniche in tutto il mondo (3)". Quest'ideologia si proponeva di migliorare la specie umana intervenendo sul patrimonio genetico, e raccomandava il controllo della riproduzione attraverso la sterilizzazione o la castrazione di chi avrebbe potuto"indebolire biologicamente" la razza.
Gli scienziati svizzeri incaricati di sradicare il nomadismo, che si ispiravano in larga misura agli ideali nazional-socialisti, hanno contribuito a rafforzare quella politica, sfociata poi, durante la seconda guerra mondiale, nello sterminio di almeno 500.000 zingari."All'epoca, era in atto una stretta collaborazione tra scienziati, e in particolare tra psichiatri tedeschi e svizzeri (...); e questi ultimi hanno svolto un ruolo importante nell'elaborazione della legislazione del Terzo Reich (...)", conferma lo storico Walter Leimgruber, uno degli autori del rapporto. E fu proprio in Svizzera, nel Cantone di Vaud, che nel 1928 si votò la prima legge europea sulla sterilizzazione dei malati mentali.
Lo psichiatra svizzero Ernst Rfdin (1874- 1952), direttore della Psychiatrische Universitètsklinik di Basilea, è stato uno dei cofondatori, e dal 1933 anche presidente, della Società di Igiene razziale tedesca. Rfdin, che prescriveva l'internamento di alcolisti e malati mentali, ha finito per aderire al partito nazional-socialista, ed è stato tra l'altro uno dei tre autori della legge per la sterilizzazione obbligatoria dei ritardati mentali congeniti, dei maniaco-depressivi, degli schizofrenici, degli epilettici, dei ciechi e dei sordi per cause ereditarie, degli alcolisti gravi ecc., votata in Germania nel luglio 1933, che ha portato alla mutilazione di circa 400.000 persone. Sulla base di questo testo si giunse poi, il 1&oord settembre 1939, alla risoluzione sull'eutanasia dei malati mentali In Svezia sterilizzazioni forzate fino al 1975 In Francia, il chirurgo e biologo Alexis Carrel, Premio Nobel per la medicina nel 1912, elaborò un programma"di aristocrazia biologica ereditaria attraverso l'eugenetica". L'autore de L'uomo, questo sconosciuto scriveva:"Per perpetuare un'élite, l'eugenetica è indispensabile. E' evidente che una razza debba riprodurre i suoi migliori elementi (4)." Grazie al governo di Vichy, Carrel fu autorizzato a creare, nel 1941, la sua Fondazione francese per lo studio dei problemi umani, il cui obiettivo era"lo studio dei vari aspetti e delle misure per salvaguardare, migliorare e sviluppare la popolazione francese".
Negli anni 30 vari paesi europei adottarono leggi eugenetiche.
Ad esempio, nel 1934 provvedimenti sulla sterilizzazione obbligatoria furono emanati dalla Norvegia e dalla Svezia, seguite nel 1935 dalla Danimarca e dalla Finlandia. Su quella base, gli interventi potevano essere praticati sui malati e ritardati mentali, sugli epilettici e sui soggetti portatori di malattie ereditarie. Inoltre, leggi specifiche dei paesi scandinavi prevedevano la possibilità di praticare questi interventi anche su genitori giudicati inadatti ad allevare adeguatamente i loro figli. Queste misure di sterilizzazione di massa hanno colpito 40.000 persone in Norvegia e 6.000 in Danimarca.
In Svezia, questa politica è stata portata avanti addirittura fino al 1975! In questo paese, il primo a dotarsi (fin dal 1921) di un istituto statale di biologia razziale, le vittime della politica di sterilizzazione, inquadrata in un programma di igiene sociale e razziale (5), furono circa 63.000. E per il 90% gli interventi, prescritti da medici, erano praticati su donne, a volte adolescenti.
Nel settembre 1997 è stata nominata una Commissione governativa d'inchiesta, che nel marzo 1998 ha proposto un fondo di risarcimento di 175.000 corone (21.000 dollari) per ciascuna delle vittime; il relativo progetto di legge è stato approvato dal parlamento il 19 maggio 1999. Tuttavia, gli aventi diritto ancora in vita, il cui numero è valutato tra 6.000 e 15.000, dovranno dimostrare di essere stati sterilizzati contro la propria volontà, per ragioni inerenti a"disturbi psichici","epilessia" o"altre deficienze mentali": dovranno così affrontare una nuova prova, dopo aver dovuto superare il sentimento di vergogna e di umiliazione che li ha imprigionati nel silenzio per tanti anni
note:
* Giornalista, autrice del reportage"Opération Enfants de la grand-route", Point du Jour/Arte.
(1) Sylvia Thode- Studer, Les Tsiganes suisses, la marche vers la reconnaissance, Réalités sociales, Losanna, 1987.
(2) Alfred Siegfried, Kinder der Landstrasse, Pro-Juventute, Zurigo, 1964.
(3) Leggere Jacques Testard, Le Désir du gène, Flammarion, Parigi, 1994, p. 38.
(4) Leggere Alexis Carrel, cet inconnu, Editions Golias, Lione, 1996.
(5) Stephen Bates,"Sweden pays for grim past", The Guardian, Londra, 6 marzo 1999.
(Traduzione di P.M.)
venerdì 27 giugno 2008
giovedì 26 giugno 2008
schedatura bambini rom
la cosa più inaccettabile che ho letto al riguardo è che la
schedatura va fatta a salvaguardia degli stessi bambini rom per evitare
che vengano sfruttati dai genitori come mendicanti.
E' l'ipocrisia di gente che vuole mascherare la propria xenofobia
da intenti "umanitari".
Naturalmente a questa ipocrisia se ne aggiungono altre fatte
sopratutto di silenzi. Il silenzio di chi ritiene che in qualche modo
Maroni fa bene a proteggerci da piccoli rapinatori, il silenzio di chi
prova semplicemente fastidio a confrontarsi con la questione dei
rapporti con "l'altro" che ha ci ha invaso, il silenzio di chi aspetta
che la buriana passi che altri facciano il loro sporco lavoro di epurazione
ed intanto si occupano d'altro, parlano d'altro.
I più "scafati" fanno finta di ignorare che questa stretta
neonazista sui poveri si accompagna ad una serie di norme che stanno
creando un Codice Penale particolare per Berlusconi ed i suoi "pari"
fatto di esenzioni dagli obblighi elementari che la legge impone a
tutti.
schedatura va fatta a salvaguardia degli stessi bambini rom per evitare
che vengano sfruttati dai genitori come mendicanti.
E' l'ipocrisia di gente che vuole mascherare la propria xenofobia
da intenti "umanitari".
Naturalmente a questa ipocrisia se ne aggiungono altre fatte
sopratutto di silenzi. Il silenzio di chi ritiene che in qualche modo
Maroni fa bene a proteggerci da piccoli rapinatori, il silenzio di chi
prova semplicemente fastidio a confrontarsi con la questione dei
rapporti con "l'altro" che ha ci ha invaso, il silenzio di chi aspetta
che la buriana passi che altri facciano il loro sporco lavoro di epurazione
ed intanto si occupano d'altro, parlano d'altro.
I più "scafati" fanno finta di ignorare che questa stretta
neonazista sui poveri si accompagna ad una serie di norme che stanno
creando un Codice Penale particolare per Berlusconi ed i suoi "pari"
fatto di esenzioni dagli obblighi elementari che la legge impone a
tutti.
martedì 17 giugno 2008
QUATTRO RIFORME PER CAMBIARE L'ITALIA
degrado della condizione salariale e normativa dei lavoratori sta raggiungendo livelli asiatici. Si lavora per 2 euro l'euro in molte zone dell'Italia centrale specialmente nelle campagne e nella pastorizia. Recentemente si sono scoperti salari di 3 euro l'ora in stabilimenti navalmeccanici di Genova. Il lavoro nei call center può anche scendere al disotto dei due euro l'ora.
Nonostante le recenti misure sulla sicurezza, il lavoro continua a mietere vittime tutti i giorni. E' evidente che soltanto la prevenzione e le sanzioni non sono misure sufficiente per bloccare il massacro.
Alla base della morte sul lavoro sta la precarietà, l'impiego "usa e getta" dei lavoratori, la dequalificazione e l'impoverimento culturale delle aziende.
I salari e le pensioni sono erose da anni di inflazione e non riescono più a garantire un livello minimo per sopravvivere.
E' necessario muoversi subito per la realizzazione dei seguenti obiettivi.
1) Istituzione del Salario Minimo Garantito di almeno
9 euro l'ora con una legge che introduca anche pesanti sanzioni per i datori di lavoro inadempienti;
2) Abolizione della legge Sacconi-Maroni causa della precarizzazione del lavoro e del declino industriale dell'Italia dovuto alla inquietudine ed insoddisfazione di milioni di persone prive di prospettiva e costrette a vita assai grama;
3) Reintroduzione della scala mobile a tutela dei salari e delle pensioni. Abolizione degli accordi di concertazione del 1993 causa fondamentale dello impoverimento delle classi lavoratrici;
4) dotazione di poteri ispettivi e di pronto intervento ai Delegati Aziendali alla Sicurezza con un decreto che ne garantisca l'inamovibilità e ne fissi il campo di intervento e di collaborazione con le autorità sanitarie.
Queste quattro rivendicazioni potrebbero bloccare la discesa dell'Italia verso la miseria e ridare fiducia
a lavoratori ridotti alla peggiore condizione europea.
Pietro Ancona
www.spazioamico.it
http://pietro-ancona.blogspot.com/
Nonostante le recenti misure sulla sicurezza, il lavoro continua a mietere vittime tutti i giorni. E' evidente che soltanto la prevenzione e le sanzioni non sono misure sufficiente per bloccare il massacro.
Alla base della morte sul lavoro sta la precarietà, l'impiego "usa e getta" dei lavoratori, la dequalificazione e l'impoverimento culturale delle aziende.
I salari e le pensioni sono erose da anni di inflazione e non riescono più a garantire un livello minimo per sopravvivere.
E' necessario muoversi subito per la realizzazione dei seguenti obiettivi.
1) Istituzione del Salario Minimo Garantito di almeno
9 euro l'ora con una legge che introduca anche pesanti sanzioni per i datori di lavoro inadempienti;
2) Abolizione della legge Sacconi-Maroni causa della precarizzazione del lavoro e del declino industriale dell'Italia dovuto alla inquietudine ed insoddisfazione di milioni di persone prive di prospettiva e costrette a vita assai grama;
3) Reintroduzione della scala mobile a tutela dei salari e delle pensioni. Abolizione degli accordi di concertazione del 1993 causa fondamentale dello impoverimento delle classi lavoratrici;
4) dotazione di poteri ispettivi e di pronto intervento ai Delegati Aziendali alla Sicurezza con un decreto che ne garantisca l'inamovibilità e ne fissi il campo di intervento e di collaborazione con le autorità sanitarie.
Queste quattro rivendicazioni potrebbero bloccare la discesa dell'Italia verso la miseria e ridare fiducia
a lavoratori ridotti alla peggiore condizione europea.
Pietro Ancona
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sabato 14 giugno 2008
i militari del Caudillo
VERSO UNA POST DEMOCRAZIA MILITARIZZATA CON CAUDILLO ITALIANO
=====================
Esistono differenze importanti tra l'operazione "Vespri Siciliani" avviata dal Governo nel1992 dopo l'assassinio dei giudici Borsellino e Falcone e l'operazione di impiego delle forze armate che il Governo Berlusconi si accinge a varare.
In primo luogo il contesto: il Governo di allora era percepito come garante di tutti i cittadini e davvero democratico. Era controllato da un Parlamento in cui le forze della maggioranza e quelle dell'opposizione erano abbastanza equilibrate. La sinistra, tradizionale garante della democrazia fin dai tempi del terrorismo, era unita attorno a valori irrinunciabili di libertà e di giustizia sociale.
Oggi il Governo offre ben poche garanzie di democrazia. Ha dentro la Lega che interviene sul campo perpetrando veri e propri delitti di xenofobia. Berlusconi attacca quasi quotidianamente la Magistratura e vorrebbe limitare la possibilità di indagare i potenti mentre minaccia la stampa di pesanti pene per intimidirne la parte che ancora sfugge al suo controllo. Il Parlamento è fortemente squilibrato a favore della maggioranza. La sinistra è stata cancellata e l'opposizione del Partito Democratico è assai soft e di mera "riduzione del danno". Inoltre sul problema sicurezza il PD ha commesso errori madornali assecondando la xenofobia della Lega in tutte le Amministrazioni Comunali e nello stesso Governo Prodi dopo l'omicidio Reggiani. Lo stesso Veltroni è responsabile dell'uso indiscriminato delle ruspe contro i campi rom in zone appetite dai palazzinari.
Inoltre, il ricorso all'esercito non avviene contro la mafia ma per generici motivi di sicurezza che includono tutto e vorrebbero togliere legittimità e criminalizzare lotte come quelle per la TAV, per la base militare USA a Vicenza, contro la localizzazione di discariche nel cuore dei quartieri poveri delle città....
Da mesi molti Sindaci leghisti ma anche del PD
rivendicano poteri financo di privazione della libertà dei cittadini e pressano per nuove misure di polizia da usare contro i poveri, gli immigrati, i rom.
Mentre l'operazione "Vespri Siciliani" era localizzata in una Regione il decreto che il Governo si accinge a varare riguarda l'intero Paese. Non c'è alcuna emergenza che lo giustifichi e costituisce una grave lesione dell'ordine democratico. I militari collaboreranno con la polizia praticamente in tutte le prerogative di quest'ultima e sebbene sottoposti all'autorità del Prefetto costituiscono una vera e propria irruzione nella vita del Paese a cominciare dal conflitto sociale e dalla repressione contro i poveri.
Una montagna di menzogne vorrebbe giustificare il decreto. Si afferma che a Napoli la crisi igienica sia provocata dalla camorra che non vuole le discariche
e si ignorano le gravi responsabilità delle istituzioni locali e del Governo che hanno sperperato miliardi di euro senza mai creare un centro di distruzione delle immondizie e sabotando la raccolta differenziata avviata dalle scuole, da migliaia di ragazzi, dai quartieri. Si nega il diritto alla popolazione di Chiano afflitta da una epidemia di cancro di non avere una immensa discarica sotto casa.Si afferma l'esistenza di problemi di ordine pubblico creati dai rom o dagli altri immigrati quando è vero il contrario. Non si contano le aggressioni dei razzisti e se c'è disagio nei quartieri popolari è per il criminale abbandono al degrado delle periferie.
Spero che l'opposizione si batta contro questo decreto e le altre misure del governo. La gioia che il Papa ed altri hanno mostrato
per la concordia non può realizzarsi limitando la libertà dei cittadini italiani e sfregiando la Costituzione.
La concordia diventa regime. Forse lo è già diventata.
Pietro Ancona
http://pietro-ancona.blogspot.com/
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Esistono differenze importanti tra l'operazione "Vespri Siciliani" avviata dal Governo nel1992 dopo l'assassinio dei giudici Borsellino e Falcone e l'operazione di impiego delle forze armate che il Governo Berlusconi si accinge a varare.
In primo luogo il contesto: il Governo di allora era percepito come garante di tutti i cittadini e davvero democratico. Era controllato da un Parlamento in cui le forze della maggioranza e quelle dell'opposizione erano abbastanza equilibrate. La sinistra, tradizionale garante della democrazia fin dai tempi del terrorismo, era unita attorno a valori irrinunciabili di libertà e di giustizia sociale.
Oggi il Governo offre ben poche garanzie di democrazia. Ha dentro la Lega che interviene sul campo perpetrando veri e propri delitti di xenofobia. Berlusconi attacca quasi quotidianamente la Magistratura e vorrebbe limitare la possibilità di indagare i potenti mentre minaccia la stampa di pesanti pene per intimidirne la parte che ancora sfugge al suo controllo. Il Parlamento è fortemente squilibrato a favore della maggioranza. La sinistra è stata cancellata e l'opposizione del Partito Democratico è assai soft e di mera "riduzione del danno". Inoltre sul problema sicurezza il PD ha commesso errori madornali assecondando la xenofobia della Lega in tutte le Amministrazioni Comunali e nello stesso Governo Prodi dopo l'omicidio Reggiani. Lo stesso Veltroni è responsabile dell'uso indiscriminato delle ruspe contro i campi rom in zone appetite dai palazzinari.
Inoltre, il ricorso all'esercito non avviene contro la mafia ma per generici motivi di sicurezza che includono tutto e vorrebbero togliere legittimità e criminalizzare lotte come quelle per la TAV, per la base militare USA a Vicenza, contro la localizzazione di discariche nel cuore dei quartieri poveri delle città....
Da mesi molti Sindaci leghisti ma anche del PD
rivendicano poteri financo di privazione della libertà dei cittadini e pressano per nuove misure di polizia da usare contro i poveri, gli immigrati, i rom.
Mentre l'operazione "Vespri Siciliani" era localizzata in una Regione il decreto che il Governo si accinge a varare riguarda l'intero Paese. Non c'è alcuna emergenza che lo giustifichi e costituisce una grave lesione dell'ordine democratico. I militari collaboreranno con la polizia praticamente in tutte le prerogative di quest'ultima e sebbene sottoposti all'autorità del Prefetto costituiscono una vera e propria irruzione nella vita del Paese a cominciare dal conflitto sociale e dalla repressione contro i poveri.
Una montagna di menzogne vorrebbe giustificare il decreto. Si afferma che a Napoli la crisi igienica sia provocata dalla camorra che non vuole le discariche
e si ignorano le gravi responsabilità delle istituzioni locali e del Governo che hanno sperperato miliardi di euro senza mai creare un centro di distruzione delle immondizie e sabotando la raccolta differenziata avviata dalle scuole, da migliaia di ragazzi, dai quartieri. Si nega il diritto alla popolazione di Chiano afflitta da una epidemia di cancro di non avere una immensa discarica sotto casa.Si afferma l'esistenza di problemi di ordine pubblico creati dai rom o dagli altri immigrati quando è vero il contrario. Non si contano le aggressioni dei razzisti e se c'è disagio nei quartieri popolari è per il criminale abbandono al degrado delle periferie.
Spero che l'opposizione si batta contro questo decreto e le altre misure del governo. La gioia che il Papa ed altri hanno mostrato
per la concordia non può realizzarsi limitando la libertà dei cittadini italiani e sfregiando la Costituzione.
La concordia diventa regime. Forse lo è già diventata.
Pietro Ancona
http://pietro-ancona.blogspot.com/
venerdì 13 giugno 2008
lettera a prima pagina sul socialismo
Caro Dott.Dell'Arti,
ha avuto ragione il compagno (mi piace usare ancora questo sostantivo che Veltroni vorrebbe abolire) di Reggio Emilia a dirle stamane che la sinistra ha perso perche ha perduto gran parte della sua identità. Non mi riferisco solo agli ex comunisti che hanno candidato grossi esponenti della confindustria "feroce" nelle loro liste e che hanno Ichino quale "esperto" di diritto del lavoro che vorrebbe l'abolizione dell'art.18 dello Statuto ma anche a Lidia Menapace che approva gli aumenti delle spese militari e polemizza con Alex Zanotelli su Liberazione
sulle "missioni" militari all'estero. Effettivamente c'è stata una perdita di identità grande proprio nel momento in cui la destra ha sviluppato il massimo della sua ideologia applicata alla politica ed alle "riforme". Per esempio, considero una vera e propria bestemmia, pronunziarsi per la privatizzazione della gestione delle acque come hanno fatto tante amministrazioni locali di sinistra o mandare le ruspe a devastare i campi nomadi o la lotta ai medicanti ed ai lavavetri di Firenze. (e potre continuare per molto ancora...)
La sinistra italiana ha perso perchè ha fatto suo il liberismo e si è confusa bipartisan con la destra (PD) o peggio ha assistito inerme nel governo Prodi alle scelte di PadoaSchioppa e company. Oppure, come Bertinotti, è diventata salottiera e vive in modo indecentemente diverso dalla media degli elettori di sinistra.
Mi permetta di dirle che credo profondamente nella superiorità etica della sinistra, del socialismo, sulla destra. Superiorità che deriva dal fatto che l'uomo faber della destra è rivolto al profitto ed alla realizzazione di se stesso anche e sopratutto sfruttando gli altri; l'uomo faber della sinistra è il lavoratore o l'intellettuale che vuole uno Stato che dalla culla alla tomba aiuti la persona, tutte le persone e non soltanto coloro che per intelligenza cultura o spregiudicatezza o cinismo risultano più forti.
Un ospedale che non sia azienda distingue il sentire di sinistra da ogni altro sentire. Un ospedale in cui non accada quanto è successo a Terzani in Usa ed una società in cui i lavoratori non muoiono come mosche per fare arricchire industriali ed industrialotti col rolex d'oro al polso e tanti lavoratori in nero quasi schiavizzati in azienda.
In ultima analisi la politica è etica. E il socialismo è sopratutto etica della solidarietà, dell'eguaglianza, della società senza umiliati ed offesi.
Berlusconi e Ricolfi ed i tanti pennivendoli italiani anche di grosso grossissimo calibro possono sparlare della sinistra e del socialismo quando vogliono: Anche se perdenti e forse appunto perchè perdenti siamo superiori a loro.
Pietro Ancona
ha avuto ragione il compagno (mi piace usare ancora questo sostantivo che Veltroni vorrebbe abolire) di Reggio Emilia a dirle stamane che la sinistra ha perso perche ha perduto gran parte della sua identità. Non mi riferisco solo agli ex comunisti che hanno candidato grossi esponenti della confindustria "feroce" nelle loro liste e che hanno Ichino quale "esperto" di diritto del lavoro che vorrebbe l'abolizione dell'art.18 dello Statuto ma anche a Lidia Menapace che approva gli aumenti delle spese militari e polemizza con Alex Zanotelli su Liberazione
sulle "missioni" militari all'estero. Effettivamente c'è stata una perdita di identità grande proprio nel momento in cui la destra ha sviluppato il massimo della sua ideologia applicata alla politica ed alle "riforme". Per esempio, considero una vera e propria bestemmia, pronunziarsi per la privatizzazione della gestione delle acque come hanno fatto tante amministrazioni locali di sinistra o mandare le ruspe a devastare i campi nomadi o la lotta ai medicanti ed ai lavavetri di Firenze. (e potre continuare per molto ancora...)
La sinistra italiana ha perso perchè ha fatto suo il liberismo e si è confusa bipartisan con la destra (PD) o peggio ha assistito inerme nel governo Prodi alle scelte di PadoaSchioppa e company. Oppure, come Bertinotti, è diventata salottiera e vive in modo indecentemente diverso dalla media degli elettori di sinistra.
Mi permetta di dirle che credo profondamente nella superiorità etica della sinistra, del socialismo, sulla destra. Superiorità che deriva dal fatto che l'uomo faber della destra è rivolto al profitto ed alla realizzazione di se stesso anche e sopratutto sfruttando gli altri; l'uomo faber della sinistra è il lavoratore o l'intellettuale che vuole uno Stato che dalla culla alla tomba aiuti la persona, tutte le persone e non soltanto coloro che per intelligenza cultura o spregiudicatezza o cinismo risultano più forti.
Un ospedale che non sia azienda distingue il sentire di sinistra da ogni altro sentire. Un ospedale in cui non accada quanto è successo a Terzani in Usa ed una società in cui i lavoratori non muoiono come mosche per fare arricchire industriali ed industrialotti col rolex d'oro al polso e tanti lavoratori in nero quasi schiavizzati in azienda.
In ultima analisi la politica è etica. E il socialismo è sopratutto etica della solidarietà, dell'eguaglianza, della società senza umiliati ed offesi.
Berlusconi e Ricolfi ed i tanti pennivendoli italiani anche di grosso grossissimo calibro possono sparlare della sinistra e del socialismo quando vogliono: Anche se perdenti e forse appunto perchè perdenti siamo superiori a loro.
Pietro Ancona
giovedì 12 giugno 2008
scritti appassionati
QUANDO gli operai muoiono in troppi alla volta come ieri a Mineo, fulminati o asfissiati letteralmente nella melma, resi massa irriconoscibile dal colore del fango, allora l'Italia è costretta a ricordare. Benvenuto il clima nuovo che si respira nel Palazzo. Ma fuori, intorno? La società sregolata vede precipitare, insieme ai redditi da lavoro, anche le normative più elementari di una dignitosa convivenza. Si crepa di nuovo nelle stive, nelle autocisterne, nei depuratori, sulle impalcature, sulle linee di lavorazione a caldo, come un tempo si crepava nelle miniere.
Subiamo il contrasto scandaloso fra la retorica di una sicurezza ideologica, con cui viene drogata la politica, e poi la sicurezza effettiva sacrificata magari con la scusa che la produttività si migliori facendo senza gli scafandri, gli estintori, i respiratori, i caschi. L'umiliazione del lavoro manuale, la retrocessione della vita operaia a destino sfortunato, spesso vengono giustificate in nome di una virtuosa concordia interclassista, perché il conflitto fra legittimi interessi altro non sarebbe che "invidia sociale".
Venerdì scorso, nello stesso convegno dei giovani di Confindustria che suggeriva per la prima volta nel dopoguerra l'idea dei contratti di lavoro individuali, la relazione introduttiva lamentava "la fretta con cui il precedente governo ha licenziato il Testo Unico sulla sicurezza dei luoghi di lavoro".
In effetti, il 5 marzo scorso, all'indomani della morte di cinque operai alla Truckcenter di Molfetta, benché dimissionario il governo Prodi varò fra i suoi ultimi atti il decreto attuativo della legge 123 sull'antinfortunistica, a ciò sollecitato dallo stesso presidente Napolitano.
Lungi da me voler attribuire alla Confindustria una responsabilità morale nelle stragi che si susseguono, tanto più che a Mineo quattro delle sei vittime erano dipendenti pubblici. Ma come potremmo accettare l'obiezione avanzata a Santa Margherita? "Rendere ancora più complesse e difficili le norme che presidiano la sicurezza sul lavoro impone costi crescenti agli imprenditori che già seguono il dettato della legge mentre non sfiora neppure chi dell'illegalità fa una prassi".
Costi crescenti? Metteteli a bilancio per tempo, invece di stanziare oltre dieci milioni di euro per l'indennizzo delle vittime della ThissenKrupp, oltretutto ponendo la condizione vessatoria che rinuncino a costituirsi parte civile nel processo.
Chiediamoci perché la stessa Confindustria, che giustamente approva l'espulsione degli associati che pagano il pizzo, non disponga la medesima linea di severità nei confronti delle aziende inadempienti violano le normative sulla sicurezza. Riconoscerebbe così il principio etico secondo cui la salvaguardia dell'incolumità dei dipendenti - il primato della vita umana - va inderogabilmente considerato un bene superiore rispetto al profitto.
Le parti sociali si sono date un orizzonte di tre mesi per modernizzare le regole della contrattazione e affrontare una "questione salariale" riconosciuta come non più rinviabile, dopo dodici anni di costante diminuzione dei redditi da lavoro. Il pericolo che l'ideologia della deregulation, simboleggiata dalla provocazione dei "contratti individuali", apra nuove voragini di incuria nella tutela dei lavoratori, non può essere ignorato.
Perché l'Italia delle morti bianche sta ritornando all'antico. In troppe aziende i sindacati hanno già sopportato deroghe mortificanti, magari in nome della salvaguardia dell'occupazione. E un mondo del lavoro in cui divenga norma non scritta la rinuncia alla sicurezza, lungi dal rendere più competitiva la nostra economia, la condanna all'arretratezza strutturale che già in altre epoche storiche abbiamo sofferto.
Il lutto degli operai siciliani, piemontesi, veneti, liguri, pugliesi - il susseguirsi delle stragi al ritmo insopportabile di dieci morti in un solo giorno - rivela il tragitto di un paese nel quale i lavoratori tornano a essere plebe. Come tale indotta magari a ricercare protezioni clientelari, occasionali padrini politici, ma inadeguata a proporsi motore di uno sviluppo fondato sulla professionalità e sull'innovazione.
Il nostro rimpianto boom economico, al tempo della ricostruzione, scaturì dal concorso fra talento imprenditoriale e ritrovata dignità del lavoro, dall'orgoglio di una comunità nazionale capace di valorizzare anche la fatica fisica che oggi invece viene rimossa, imposta per bisogno, sopportata come vessazione.
Quei lavoratori di Mineo andati cinque metri sotto terra senza attrezzature e prevenzioni adeguate, rappresentano una quotidianità italiana vergognosa, l'abitudine dilagante al pressappochismo. Feriscono la coscienza di chi ce l'ha ancora. Promettono rabbia e violenza, altro che "clima nuovo".
(12 giugno 2008)
Manifesto – 12.6.08
Omicidio europeo - Loris Campetti
C'è un nesso terribile tra la decisione dell'Unione europea di liberalizzare l'orario di lavoro e l'ennesima strage di ieri nella quotidiana guerra italiana sul lavoro, che ha lasciato sul campo almeno nove operai, nove persone. Il nesso si chiama liberismo. Nella seconda metà dell'Ottocento, lotta dopo lotta, strage dopo strage, prese corpo la Festa dei lavoratori, il 1° Maggio. Il movimento partì negli Stati uniti e in Canada, sbarcò in Europa nel 1889, quando la festa venne ufficializzata dai delegati socialisti della Seconda internazionale. Il 1° Maggio aveva al centro un grande obiettivo strategico: la conquista delle otto ore. Nella primavera del 1906, novemila mondine sfilarono nelle strade di Vercelli insieme ai metallurgici cantando «Se otto ore/ vi sembran poche...». Il XX secolo è segnato dalla lotta per le 40 ore settimanali. Una battaglia di civiltà che segnò un salto epocale. Chissà se i 27 ministri del lavoro dell'Ue hanno studiato la storia del Novecento, e se l'hanno capita? Due giorni fa, 22 di loro hanno votato una normativa che sentenzia la fine non delle 40 ma delle 48 ore, conquistate dall'Ilo nel lontano 1917. Del «secolo breve», della sua ferocia e delle sue conquiste, sappiamo ormai tutto. Cosa dobbiamo aspettarci da questo secolo, se ai suoi albori ci ributta indietro di 120 anni? Se Strasburgo voterà il testo licenziato dall'Unione europea, la deregulation del lavoro andrà oltre le speranze dei peggiori governi liberisti. Tra i più entusiasti quelli italiano e francese, che hanno suggellato la loro vittoria schierandosi con il fronte della «modernità», cioè del mercato e del profitto come unici regolatori delle relazioni sociali, della vita delle persone. Si potrà lavorare anche 60, 65 ore a settimana, se solo il padrone lo vorrà. Sarà ancora più facile morire in fabbrica, nei cantieri, nei campi, o dentro le cisterne avvelenati come topi. Liberalizzare l'orario di lavoro è un crimine, un'istigazione a delinquere. Almeno ci risparmino, signori ministri e portaborse, le lacrime per gli ultimi omicidi di ieri, a partire dai sei operai siciliani uccisi dentro una vasca di depurazione dalle esalazioni tossiche. Così si moriva nell'Ottocento, così si muore nel Duemila. E le sopravvissute conquiste del Novecento? Bruciate sui banchi di Strasburgo, se non verrà fermata la marcia liberista. Grazie alla nuova normativa si potrà persino cancellare ogni forma di contrattazione collettiva, sostituita dai rapporti di lavoro individuali, «fatti dal sarto su misura» come sogna la Confindustria che interpreta la vittoria della destra, l'evaporazione della sinistra e la «modernizzazione» del Pd, come un viatico per piegare ogni diritto alla logica d'impresa. Costi quel costi, fossero anche vite umane. Del resto, non hanno già detto padroni e ministri che le nuove leggi sulla sicurezza sono troppo onerose e vanno ammorbidite? È vero, in Italia comunisti e socialisti non hanno più rappresentanza politica. Ma non c'è solo il Parlamento, non è scritto che le forze democratiche siano morte. La domanda è se esistano forze sociali, sindacali, civili e culturali, qui e in Europa, in grado di battere un colpo, di difendere una conquista di civiltà. Se non altro, in nome del diritto alla vita di chi lavora. Se la risposta fosse negativa, avrebbe vinto chi accusa di ideologismo ogni critica allo stato di cose presenti. Non sarebbe la fine della Storia, ma dovremmo prendere atto che bisognerà ripartire da molto lontano. Dalla fine dell'Ottocento.
Povera, impaurita Italia patria dei diritti rovesciati
Il Rapporto 2008 per i diritti globali Alessia Grossi L'Unità 09.06.08
«Un vero e proprio libro nero, nero come il lutto delle morti sul lavoro, la guerra a bassa intensità che solo nel 2007 ha fatto più di mille morti contro i 3mila e cinquecento della guerra in Iraq». Sergio Segio, curatore del Rapporto per i diritti globali e direttore dell'Associazione SocietàINformazione, illustra con questa immagine forte un pezzo del rapporto 2008. Uno studio dal quale esce un'Italia quasi al collasso per la mancata redistribuzione del reddito, per i salari sempre più bassi, un caro vita ai massimi storici, morti sul lavoro ai limiti di una vera e propria guerra, indebitamento in crescita e aumento incontrollato degli stipendi dei top manager.
Presentato lunedì a Roma, il rapporto è pubblicato da Ediesse e redatto da una galassia di organizzazioni, da Arci a Cgil, Antigone, ActionAid, Cnca, Forum Ambientalista, Gruppo Abele e Legambiente.
La copertina nera del volume sembra anche indicare il colore della maglia che l'Italia si aggiudica con il 22esimo posto per l'Ocse con i salari più bassi tra i paesi europei. «Un paese in cui il caro vita al contrario cresce a grande velocità. Nera come la povertà che si estende, secondo il Rapporto sempre di più ai lavoratori dipendenti, tra cui spuntano un 4,6 per cento di poveri in più rispetto allo scorso anno. Una famiglia su cinque, quindi, è povera secondo i dati Istat» conclude Segio.
Dato allarmante è la povertà cosiddetta "differita" e non ancora percepita, cioé i debiti contratti non per spese straordinarie ma per arrivare alla fine del mese e che un giorno dovranno essere rimborsati. Un italiano su quattro si indebita per vivere e il credito al consumo è cresciuto dell'86 per cento negli ultimi quattro anni. Insomma gli italiani sono sempre più poveri e non sembra abbiano molte speranze di miglioramento.
Capitolo inedito e analizzato per la prima volta in sei anni dal Rapporto è quello della sicurezza. «Paura e insicurezza sono in forte crescita- dichiara Segio - se si pensa che in Italia per dati del Ministero dell'Interno sono in diminuzione i reati e il nostro è il paese più sicuro- non si capisce come mai ci 9 italiani su 10 credono siano in aumento i crimini e 6 su 10 sono d'accordo con le ronde». Dunque il rapporto fotografa una insicurezza percepita e «enfantizzata per nascondere le vere emergenze come la violenza sulle donne» conclude Segio.
«È emergenza politica - spiega invece Paolo Beni, presidente dell'Arci alla presentazione del Rapporto- perché c'è un'assenza completa di politiche redistributive, una politica che si piega sempre di più alla ricerca del consenso e che non lavora ad un nuovo modello di sviluppo. Serve il coraggio di provare a cambiare il senso comune» conclude Beni
Ma nel resto del mondo la globalizzazione non ha prodotto meno danni. «Pensare che a cambiare le cose basterebbero le centinaia di miliardi di dollari che gli Usa spendono in spese militari» conclude Segio.
L'Unità 09.06.08
Subiamo il contrasto scandaloso fra la retorica di una sicurezza ideologica, con cui viene drogata la politica, e poi la sicurezza effettiva sacrificata magari con la scusa che la produttività si migliori facendo senza gli scafandri, gli estintori, i respiratori, i caschi. L'umiliazione del lavoro manuale, la retrocessione della vita operaia a destino sfortunato, spesso vengono giustificate in nome di una virtuosa concordia interclassista, perché il conflitto fra legittimi interessi altro non sarebbe che "invidia sociale".
Venerdì scorso, nello stesso convegno dei giovani di Confindustria che suggeriva per la prima volta nel dopoguerra l'idea dei contratti di lavoro individuali, la relazione introduttiva lamentava "la fretta con cui il precedente governo ha licenziato il Testo Unico sulla sicurezza dei luoghi di lavoro".
In effetti, il 5 marzo scorso, all'indomani della morte di cinque operai alla Truckcenter di Molfetta, benché dimissionario il governo Prodi varò fra i suoi ultimi atti il decreto attuativo della legge 123 sull'antinfortunistica, a ciò sollecitato dallo stesso presidente Napolitano.
Lungi da me voler attribuire alla Confindustria una responsabilità morale nelle stragi che si susseguono, tanto più che a Mineo quattro delle sei vittime erano dipendenti pubblici. Ma come potremmo accettare l'obiezione avanzata a Santa Margherita? "Rendere ancora più complesse e difficili le norme che presidiano la sicurezza sul lavoro impone costi crescenti agli imprenditori che già seguono il dettato della legge mentre non sfiora neppure chi dell'illegalità fa una prassi".
Costi crescenti? Metteteli a bilancio per tempo, invece di stanziare oltre dieci milioni di euro per l'indennizzo delle vittime della ThissenKrupp, oltretutto ponendo la condizione vessatoria che rinuncino a costituirsi parte civile nel processo.
Chiediamoci perché la stessa Confindustria, che giustamente approva l'espulsione degli associati che pagano il pizzo, non disponga la medesima linea di severità nei confronti delle aziende inadempienti violano le normative sulla sicurezza. Riconoscerebbe così il principio etico secondo cui la salvaguardia dell'incolumità dei dipendenti - il primato della vita umana - va inderogabilmente considerato un bene superiore rispetto al profitto.
Le parti sociali si sono date un orizzonte di tre mesi per modernizzare le regole della contrattazione e affrontare una "questione salariale" riconosciuta come non più rinviabile, dopo dodici anni di costante diminuzione dei redditi da lavoro. Il pericolo che l'ideologia della deregulation, simboleggiata dalla provocazione dei "contratti individuali", apra nuove voragini di incuria nella tutela dei lavoratori, non può essere ignorato.
Perché l'Italia delle morti bianche sta ritornando all'antico. In troppe aziende i sindacati hanno già sopportato deroghe mortificanti, magari in nome della salvaguardia dell'occupazione. E un mondo del lavoro in cui divenga norma non scritta la rinuncia alla sicurezza, lungi dal rendere più competitiva la nostra economia, la condanna all'arretratezza strutturale che già in altre epoche storiche abbiamo sofferto.
Il lutto degli operai siciliani, piemontesi, veneti, liguri, pugliesi - il susseguirsi delle stragi al ritmo insopportabile di dieci morti in un solo giorno - rivela il tragitto di un paese nel quale i lavoratori tornano a essere plebe. Come tale indotta magari a ricercare protezioni clientelari, occasionali padrini politici, ma inadeguata a proporsi motore di uno sviluppo fondato sulla professionalità e sull'innovazione.
Il nostro rimpianto boom economico, al tempo della ricostruzione, scaturì dal concorso fra talento imprenditoriale e ritrovata dignità del lavoro, dall'orgoglio di una comunità nazionale capace di valorizzare anche la fatica fisica che oggi invece viene rimossa, imposta per bisogno, sopportata come vessazione.
Quei lavoratori di Mineo andati cinque metri sotto terra senza attrezzature e prevenzioni adeguate, rappresentano una quotidianità italiana vergognosa, l'abitudine dilagante al pressappochismo. Feriscono la coscienza di chi ce l'ha ancora. Promettono rabbia e violenza, altro che "clima nuovo".
(12 giugno 2008)
Manifesto – 12.6.08
Omicidio europeo - Loris Campetti
C'è un nesso terribile tra la decisione dell'Unione europea di liberalizzare l'orario di lavoro e l'ennesima strage di ieri nella quotidiana guerra italiana sul lavoro, che ha lasciato sul campo almeno nove operai, nove persone. Il nesso si chiama liberismo. Nella seconda metà dell'Ottocento, lotta dopo lotta, strage dopo strage, prese corpo la Festa dei lavoratori, il 1° Maggio. Il movimento partì negli Stati uniti e in Canada, sbarcò in Europa nel 1889, quando la festa venne ufficializzata dai delegati socialisti della Seconda internazionale. Il 1° Maggio aveva al centro un grande obiettivo strategico: la conquista delle otto ore. Nella primavera del 1906, novemila mondine sfilarono nelle strade di Vercelli insieme ai metallurgici cantando «Se otto ore/ vi sembran poche...». Il XX secolo è segnato dalla lotta per le 40 ore settimanali. Una battaglia di civiltà che segnò un salto epocale. Chissà se i 27 ministri del lavoro dell'Ue hanno studiato la storia del Novecento, e se l'hanno capita? Due giorni fa, 22 di loro hanno votato una normativa che sentenzia la fine non delle 40 ma delle 48 ore, conquistate dall'Ilo nel lontano 1917. Del «secolo breve», della sua ferocia e delle sue conquiste, sappiamo ormai tutto. Cosa dobbiamo aspettarci da questo secolo, se ai suoi albori ci ributta indietro di 120 anni? Se Strasburgo voterà il testo licenziato dall'Unione europea, la deregulation del lavoro andrà oltre le speranze dei peggiori governi liberisti. Tra i più entusiasti quelli italiano e francese, che hanno suggellato la loro vittoria schierandosi con il fronte della «modernità», cioè del mercato e del profitto come unici regolatori delle relazioni sociali, della vita delle persone. Si potrà lavorare anche 60, 65 ore a settimana, se solo il padrone lo vorrà. Sarà ancora più facile morire in fabbrica, nei cantieri, nei campi, o dentro le cisterne avvelenati come topi. Liberalizzare l'orario di lavoro è un crimine, un'istigazione a delinquere. Almeno ci risparmino, signori ministri e portaborse, le lacrime per gli ultimi omicidi di ieri, a partire dai sei operai siciliani uccisi dentro una vasca di depurazione dalle esalazioni tossiche. Così si moriva nell'Ottocento, così si muore nel Duemila. E le sopravvissute conquiste del Novecento? Bruciate sui banchi di Strasburgo, se non verrà fermata la marcia liberista. Grazie alla nuova normativa si potrà persino cancellare ogni forma di contrattazione collettiva, sostituita dai rapporti di lavoro individuali, «fatti dal sarto su misura» come sogna la Confindustria che interpreta la vittoria della destra, l'evaporazione della sinistra e la «modernizzazione» del Pd, come un viatico per piegare ogni diritto alla logica d'impresa. Costi quel costi, fossero anche vite umane. Del resto, non hanno già detto padroni e ministri che le nuove leggi sulla sicurezza sono troppo onerose e vanno ammorbidite? È vero, in Italia comunisti e socialisti non hanno più rappresentanza politica. Ma non c'è solo il Parlamento, non è scritto che le forze democratiche siano morte. La domanda è se esistano forze sociali, sindacali, civili e culturali, qui e in Europa, in grado di battere un colpo, di difendere una conquista di civiltà. Se non altro, in nome del diritto alla vita di chi lavora. Se la risposta fosse negativa, avrebbe vinto chi accusa di ideologismo ogni critica allo stato di cose presenti. Non sarebbe la fine della Storia, ma dovremmo prendere atto che bisognerà ripartire da molto lontano. Dalla fine dell'Ottocento.
Povera, impaurita Italia patria dei diritti rovesciati
Il Rapporto 2008 per i diritti globali Alessia Grossi L'Unità 09.06.08
«Un vero e proprio libro nero, nero come il lutto delle morti sul lavoro, la guerra a bassa intensità che solo nel 2007 ha fatto più di mille morti contro i 3mila e cinquecento della guerra in Iraq». Sergio Segio, curatore del Rapporto per i diritti globali e direttore dell'Associazione SocietàINformazione, illustra con questa immagine forte un pezzo del rapporto 2008. Uno studio dal quale esce un'Italia quasi al collasso per la mancata redistribuzione del reddito, per i salari sempre più bassi, un caro vita ai massimi storici, morti sul lavoro ai limiti di una vera e propria guerra, indebitamento in crescita e aumento incontrollato degli stipendi dei top manager.
Presentato lunedì a Roma, il rapporto è pubblicato da Ediesse e redatto da una galassia di organizzazioni, da Arci a Cgil, Antigone, ActionAid, Cnca, Forum Ambientalista, Gruppo Abele e Legambiente.
La copertina nera del volume sembra anche indicare il colore della maglia che l'Italia si aggiudica con il 22esimo posto per l'Ocse con i salari più bassi tra i paesi europei. «Un paese in cui il caro vita al contrario cresce a grande velocità. Nera come la povertà che si estende, secondo il Rapporto sempre di più ai lavoratori dipendenti, tra cui spuntano un 4,6 per cento di poveri in più rispetto allo scorso anno. Una famiglia su cinque, quindi, è povera secondo i dati Istat» conclude Segio.
Dato allarmante è la povertà cosiddetta "differita" e non ancora percepita, cioé i debiti contratti non per spese straordinarie ma per arrivare alla fine del mese e che un giorno dovranno essere rimborsati. Un italiano su quattro si indebita per vivere e il credito al consumo è cresciuto dell'86 per cento negli ultimi quattro anni. Insomma gli italiani sono sempre più poveri e non sembra abbiano molte speranze di miglioramento.
Capitolo inedito e analizzato per la prima volta in sei anni dal Rapporto è quello della sicurezza. «Paura e insicurezza sono in forte crescita- dichiara Segio - se si pensa che in Italia per dati del Ministero dell'Interno sono in diminuzione i reati e il nostro è il paese più sicuro- non si capisce come mai ci 9 italiani su 10 credono siano in aumento i crimini e 6 su 10 sono d'accordo con le ronde». Dunque il rapporto fotografa una insicurezza percepita e «enfantizzata per nascondere le vere emergenze come la violenza sulle donne» conclude Segio.
«È emergenza politica - spiega invece Paolo Beni, presidente dell'Arci alla presentazione del Rapporto- perché c'è un'assenza completa di politiche redistributive, una politica che si piega sempre di più alla ricerca del consenso e che non lavora ad un nuovo modello di sviluppo. Serve il coraggio di provare a cambiare il senso comune» conclude Beni
Ma nel resto del mondo la globalizzazione non ha prodotto meno danni. «Pensare che a cambiare le cose basterebbero le centinaia di miliardi di dollari che gli Usa spendono in spese militari» conclude Segio.
L'Unità 09.06.08
nel paese di caino
Nel Paese di Caino,
===================
Ieri dieci morti sul lavoro e non so quanti dall'inizio dell'anno in un clima sempre più indifferente che soltanto la particolare atrocità delle circostanze riesce a ravvivare più che la pietà o, non ne parliamo nemmeno, sentimenti di solidarietà.
Che cosa è oramai la vita del lavoratore?
Si finge di ritenere che le norme di sicurezza, osteggiate e sabotate dalla Confindustria che ne chiede la riduzione con qualche comprensione tra i sindacati potesse e dovesse essere la scelta da compiere, il rimedio da trovare.
Non è cosi. Il male si annida altrove e non solo non c'è verso di estirparlo ma si vorrebbe estenderlo.
Mi riferisco alla legge Biagi, alla precarizzazione dei rapporti di lavoro, all'usa e getti dei lavoratori che vengono impiegati di volta in volta ed immediatamente mandati via a cercarsi un'altra occupazione. Anche i bassi salari deprezzano la prestazione.,La tristissima condizione giuridica e retributiva del lavoratore rispetto l'azienda è la condizione fondamentale degli accresciuti infortuni mortali e non.
L'obiettivo che si è data la Confindustria è la Deregolation, l'anno zero delle relazioni sociali, il ritorno puro e semplice a prima della storia della società moderna attraverso varie misure e tra queste anche l' individual contract!
Il paradosso del tutto italiano di questa vicende che
questo avviene ed avverrà nel Paese europeo con i più forti sindacati (dieci milioni di iscritti) che rappresentano i lavoratori più miseri per umilianti salari e che muoiono come mosche alla media di quattro al giorno come non avviene forse da nessuna parte.
Sindacati forti, fortissimi, che bacchettano i parlamentari che si permettono di voler "intromettersi"negli accordi che fanno con il Governo ed il padronato, e che discutono l'agenda dettata dalla Confindustria che ritma da anni il Paradosso di
lavoratori che accordo dopo accordo restituiscono e cedono quanto conquistato dai loro padri in anni oramai lontani di civiltà e di diritti.
La CGIL si muove in una logica di mera riduzione del danno mentre Bonanni ostenta le sue ottime relazioni "in alto loco" e tira la volata al manipolo di guastatori del diritto del lavoro italiano capeggiati da Ichino, Sacconi, Treu ed altri personaggi rigorosamente della maggioranza e della cosidetta opposizione parlamentare.
La prossima restituazione al padronato sarà il contratto collettivo nazionale di lavoro e poi si procederà ancora sulla via dello smantellamento di tutto....
I lavoratori italiani sono soli. Sindacati e Partiti sono in gara a compiacere il padronato italiano e li spoglieranno del poco che ancora rimane...
Quando si chiederanno smarriti che cosa sta succedendo qualcuno organizzerà un referendum privo di controlli e del tutto truccato che dimostrerà la profonda masochistica adesione di milioni di lavoratori alla loro totale sconfitta come produttori e come esseri umani titolari di diritti a cominciare dal diritto alla vita.,
Pietro Ancona
già segretario Cgil Sicilia
===================
Ieri dieci morti sul lavoro e non so quanti dall'inizio dell'anno in un clima sempre più indifferente che soltanto la particolare atrocità delle circostanze riesce a ravvivare più che la pietà o, non ne parliamo nemmeno, sentimenti di solidarietà.
Che cosa è oramai la vita del lavoratore?
Si finge di ritenere che le norme di sicurezza, osteggiate e sabotate dalla Confindustria che ne chiede la riduzione con qualche comprensione tra i sindacati potesse e dovesse essere la scelta da compiere, il rimedio da trovare.
Non è cosi. Il male si annida altrove e non solo non c'è verso di estirparlo ma si vorrebbe estenderlo.
Mi riferisco alla legge Biagi, alla precarizzazione dei rapporti di lavoro, all'usa e getti dei lavoratori che vengono impiegati di volta in volta ed immediatamente mandati via a cercarsi un'altra occupazione. Anche i bassi salari deprezzano la prestazione.,La tristissima condizione giuridica e retributiva del lavoratore rispetto l'azienda è la condizione fondamentale degli accresciuti infortuni mortali e non.
L'obiettivo che si è data la Confindustria è la Deregolation, l'anno zero delle relazioni sociali, il ritorno puro e semplice a prima della storia della società moderna attraverso varie misure e tra queste anche l' individual contract!
Il paradosso del tutto italiano di questa vicende che
questo avviene ed avverrà nel Paese europeo con i più forti sindacati (dieci milioni di iscritti) che rappresentano i lavoratori più miseri per umilianti salari e che muoiono come mosche alla media di quattro al giorno come non avviene forse da nessuna parte.
Sindacati forti, fortissimi, che bacchettano i parlamentari che si permettono di voler "intromettersi"negli accordi che fanno con il Governo ed il padronato, e che discutono l'agenda dettata dalla Confindustria che ritma da anni il Paradosso di
lavoratori che accordo dopo accordo restituiscono e cedono quanto conquistato dai loro padri in anni oramai lontani di civiltà e di diritti.
La CGIL si muove in una logica di mera riduzione del danno mentre Bonanni ostenta le sue ottime relazioni "in alto loco" e tira la volata al manipolo di guastatori del diritto del lavoro italiano capeggiati da Ichino, Sacconi, Treu ed altri personaggi rigorosamente della maggioranza e della cosidetta opposizione parlamentare.
La prossima restituazione al padronato sarà il contratto collettivo nazionale di lavoro e poi si procederà ancora sulla via dello smantellamento di tutto....
I lavoratori italiani sono soli. Sindacati e Partiti sono in gara a compiacere il padronato italiano e li spoglieranno del poco che ancora rimane...
Quando si chiederanno smarriti che cosa sta succedendo qualcuno organizzerà un referendum privo di controlli e del tutto truccato che dimostrerà la profonda masochistica adesione di milioni di lavoratori alla loro totale sconfitta come produttori e come esseri umani titolari di diritti a cominciare dal diritto alla vita.,
Pietro Ancona
già segretario Cgil Sicilia
nel paese di caino
Nel Paese di Caino,
===================
Ieri dieci morti sul lavoro e non so quanti dall'inizio dell'anno in un clima sempre più indifferente che soltanto la particolare atrocità delle circostanze riesce a ravvivare più che la pietà o, non ne parliamo nemmeno, sentimenti di solidarietà.
Che cosa è oramai la vita del lavoratore?
Si finge di ritenere che le norme di sicurezza, osteggiate e sabotate dalla Confindustria che ne chiede la riduzione con qualche comprensione tra i sindacati potesse e dovesse essere la scelta da compiere, il rimedio da trovare.
Non è cosi. Il male si annida altrove e non solo non c'è verso di estirparlo ma si vorrebbe estenderlo.
Mi riferisco alla legge Biagi, alla precarizzazione dei rapporti di lavoro, all'usa e getti dei lavoratori che vengono impiegati di volta in volta ed immediatamente mandati via a cercarsi un'altra occupazione. Anche i bassi salari deprezzano la prestazione.,La tristissima condizione giuridica e retributiva del lavoratore rispetto l'azienda è la condizione fondamentale degli accresciuti infortuni mortali e non.
L'obiettivo che si è data la Confindustria è la Deregolation, l'anno zero delle relazioni sociali, il ritorno puro e semplice a prima della storia della società moderna attraverso varie misure e tra queste anche l' individual contract!
Il paradosso del tutto italiano di questa vicende che
questo avviene ed avverrà nel Paese europeo con i più forti sindacati (dieci milioni di iscritti) che rappresentano i lavoratori più miseri per umilianti salari e che muoiono come mosche alla media di quattro al giorno come non avviene forse da nessuna parte.
Sindacati forti, fortissimi, che bacchettano i parlamentari che si permettono di voler "intromettersi"negli accordi che fanno con il Governo ed il padronato, e che discutono l'agenda dettata dalla Confindustria che ritma da anni il Paradosso di
lavoratori che accordo dopo accordo restituiscono e cedono quanto conquistato dai loro padri in anni oramai lontani di civiltà e di diritti.
La CGIL si muove in una logica di mera riduzione del danno mentre Bonanni ostenta le sue ottime relazioni "in alto loco" e tira la volata al manipolo di guastatori del diritto del lavoro italiano capeggiati da Ichino, Sacconi, Treu ed altri personaggi rigorosamente della maggioranza e della cosidetta opposizione parlamentare.
La prossima restituazione al padronato sarà il contratto collettivo nazionale di lavoro e poi si procederà ancora sulla via dello smantellamento di tutto....
I lavoratori italiani sono soli. Sindacati e Partiti sono in gara a compiacere il padronato italiano e li spoglieranno del poco che ancora rimane...
Quando si chiederanno smarriti che cosa sta succedendo qualcuno organizzerà un referendum privo di controlli e del tutto truccato che dimostrerà la profonda masochistica adesione di milioni di lavoratori alla loro totale sconfitta come produttori e come esseri umani titolari di diritti a cominciare dal diritto alla vita.,
Pietro Ancona
già segretario Cgil Sicilia
===================
Ieri dieci morti sul lavoro e non so quanti dall'inizio dell'anno in un clima sempre più indifferente che soltanto la particolare atrocità delle circostanze riesce a ravvivare più che la pietà o, non ne parliamo nemmeno, sentimenti di solidarietà.
Che cosa è oramai la vita del lavoratore?
Si finge di ritenere che le norme di sicurezza, osteggiate e sabotate dalla Confindustria che ne chiede la riduzione con qualche comprensione tra i sindacati potesse e dovesse essere la scelta da compiere, il rimedio da trovare.
Non è cosi. Il male si annida altrove e non solo non c'è verso di estirparlo ma si vorrebbe estenderlo.
Mi riferisco alla legge Biagi, alla precarizzazione dei rapporti di lavoro, all'usa e getti dei lavoratori che vengono impiegati di volta in volta ed immediatamente mandati via a cercarsi un'altra occupazione. Anche i bassi salari deprezzano la prestazione.,La tristissima condizione giuridica e retributiva del lavoratore rispetto l'azienda è la condizione fondamentale degli accresciuti infortuni mortali e non.
L'obiettivo che si è data la Confindustria è la Deregolation, l'anno zero delle relazioni sociali, il ritorno puro e semplice a prima della storia della società moderna attraverso varie misure e tra queste anche l' individual contract!
Il paradosso del tutto italiano di questa vicende che
questo avviene ed avverrà nel Paese europeo con i più forti sindacati (dieci milioni di iscritti) che rappresentano i lavoratori più miseri per umilianti salari e che muoiono come mosche alla media di quattro al giorno come non avviene forse da nessuna parte.
Sindacati forti, fortissimi, che bacchettano i parlamentari che si permettono di voler "intromettersi"negli accordi che fanno con il Governo ed il padronato, e che discutono l'agenda dettata dalla Confindustria che ritma da anni il Paradosso di
lavoratori che accordo dopo accordo restituiscono e cedono quanto conquistato dai loro padri in anni oramai lontani di civiltà e di diritti.
La CGIL si muove in una logica di mera riduzione del danno mentre Bonanni ostenta le sue ottime relazioni "in alto loco" e tira la volata al manipolo di guastatori del diritto del lavoro italiano capeggiati da Ichino, Sacconi, Treu ed altri personaggi rigorosamente della maggioranza e della cosidetta opposizione parlamentare.
La prossima restituazione al padronato sarà il contratto collettivo nazionale di lavoro e poi si procederà ancora sulla via dello smantellamento di tutto....
I lavoratori italiani sono soli. Sindacati e Partiti sono in gara a compiacere il padronato italiano e li spoglieranno del poco che ancora rimane...
Quando si chiederanno smarriti che cosa sta succedendo qualcuno organizzerà un referendum privo di controlli e del tutto truccato che dimostrerà la profonda masochistica adesione di milioni di lavoratori alla loro totale sconfitta come produttori e come esseri umani titolari di diritti a cominciare dal diritto alla vita.,
Pietro Ancona
già segretario Cgil Sicilia
lunedì 2 giugno 2008
giuliano Amato
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Login Registrati Ciao Esci lunedì 02 giugno 2008 CORRIERE DELLA SERA.it METEO Home Opinioni Corriere TV Salute Motori Il quotidiano Casa Viaggi Donna e Mamma Dizionari Libri Giochi Store Servizi Cronache Politica Esteri Economia Spettacoli e cultura Cinema Scienze Sport Vivimilano Italian Life Corriere mobile Corriere della Sera > Politica > Amato dice addio alla politica «Craxi e il ’92? Feci scelte giuste» Politica I 70 anni dell’ex ministro: Bettino grande come statista e politico, anche Prodi nella storia
Amato dice addio alla politica
«Craxi e il ’92? Feci scelte giuste»
«Sul finanziamento illecito da depenalizzare veto riprovevole del pool milanese»
Giuliano Amato (Inside)
ROMA — Presidente Amato, lei ha compiuto settant’anni e si è ritirato dalla vita politica, rinunciando a ricandidarsi. Perché?
«Sono in politica da cinquant’anni; non ricordo se mi iscrissi al Psi nel ’57 o nel ’58. In tutti questi anni non ho mai avuto divisioni al mio seguito. Non sono mai esistiti gli amatiani. Ho acquisito posizioni di preminenza offrendo idee ed esperienze. Posso continuare a farlo, finché il cervello funziona, senza bisogno di un posto al governo o in Parlamento. In Italia abbiamo leader cinquantenni che sono considerati giovani ed è quindi utile che quelli come me facciano spazio a chi è nato non dirò ieri, ma almeno l’altro ieri».
Chi sono gli uomini nuovi su cui puntare? Enrico Letta?
«Enrico ha l’età in cui negli altri Paesi si diventa primi ministri. Nomi non ne faccio, ma dobbiamo puntare anche sui trentenni. Nunzia Penelope ha scritto che "i giovani non esistono". C’è del vero. È giusto dare ai giovani la possibilità di dimostrare che, avendo scelta, la loro vita può essere altro da una sequenza infinita di notti in Campo de’ Fiori, con una bottiglia di birra in mano».
Qualche giorno fa, lei ha detto in un convegno di aver maturato un giudizio severo sulla classe dirigente italiana. Cosa intendeva?
«L’autarchia italiana non è mai finita. È un male antico, come antico è il provincialismo della classe dirigente. E non mi riferisco solo alla politica; penso al ceto industriale, ai giornalisti, all’università, dove l’italianità dei professori è difesa come quella della mozzarella sulle nostre tavole. Ognuno rilancia all’altro la propensione al provincialismo: il risultato è che del grande mondo che diciamo essere entrato nel nostro senza più confini, non siamo in realtà partecipi e ce ne occupiamo molto meno che del più minuscolo fatto di cronaca di casa nostra. Difetto tipico da provinciali, inoltre, è la nostra autoflagellazione eccessiva, il complesso di eterno Calimero, come lo chiama nel suo libro recente sull’Europa Riccardo Perissich. Come in un gioco di specchi, gli altri riflettono i nostri lamenti e li fanno propri».
Siamo troppo sensibili ai giudizi altrui, magari dei giornali stranieri?
«L’inviato dell’Economist viene a Roma per qualche giorno, ascolta quel che gli dicono i giornalisti italiani, lo riprende pari pari perché dell’Italia non sa altro, gli stessi giornalisti informano che "l’autorevole Economist ha scritto...". Seguono interrogazioni in Parlamento e dibattiti nazionali. Segno dell’eccesso di introspezione di un Paese che finisce per perdere il senso del confronto con gli altri. Quando parliamo con loro ci sentiamo troppo spesso comprimari. Il nostro atteggiamento è ancora quello della guerra di Crimea: dobbiamo esserci, non per affermare una nostra posizione sul mondo, ma perché altrimenti non si accorgono neanche che ci siamo. Il risultato è la marginalità».
A quali esempi si riferisce?
«Non voglio fare il populista, ma davvero il paese cresce più in fretta della sua classe dirigente. Abbiamo più campioni mondiali dei britannici o, amo dirlo, dei francesi; ma dell’establishment europeo nella migliore delle ipotesi facciamo parte a singhiozzo. Siamo i più europeisti, eppure a lungo abbiamo mandato in Europa figure di secondo piano. Alle cariche internazionali arrivano a volte degli eccellenti italiani, ma noi non formiamo i funzionari da far crescere, non sappiamo prenotare i posti per tempo; arriviamo sempre per ultimi, in cerca dell’ultimo strapuntino. Quante volte me lo sono sentito dire: voi italiani vi svegliate tardi. Capita così che quelli che ci sono sempre si mettano d’accordo fra di loro, senza quelli come noi, che ci sono solo ogni tanto. Nell’accordo di Schengen noi non c’eravamo, ci siamo entrati dopo. E la stessa cosa è successa con l’accordo di Prum, che consente alle polizie di inseguire un fuggiasco anche oltre i confini e scambiarsi i dati sul Dna. L’ho firmato io per l’Italia e spero che il centrodestra me lo faccia passare, visto che il centrosinistra non ce l’ha fatta».
Come valuta le nuove norme sulla sicurezza del governo Berlusconi?
«Recepiscono per larghissima parte le mie misure. La grande preoccupazione di oggi è che l’azione repressiva, che va fatta, sia accompagnata dal lavoro—altrettanto indispensabile — per la solidarietà e l’integrazione ».
La preoccupa il clima che si è creato?
«È anche qui il rischio di regressione civile di cui ha parlato il capo dello Stato. Non puoi dire a un immigrato: "Tu devi lavorare per otto ore, e poi sparire". Quanto ai 18 mesi nel Cpt, o sono un’eccezione dovuta a particolari difficoltà di identificazione dello straniero, o diventano una detenzione priva di base costituzionale e comunitaria. È importante poi che prosegua il lavoro con il Comitato promotore del riconoscimento giuridico dell’Islam italiano, che assicura lealtà ai principi della Costituzione».
Qual è il suo giudizio su Berlusconi? Il fatto che il proprietario delle tv sia il capo del governo resta un’anomalia, o no?
«L’anomalia c’è. Che un uomo così sia destinato ad essere ricordato nei libri dopo Mussolini e prima di Giolitti è una cosa che colpisce. Però Berlusconi ha saputo incarnare un sentimento collettivo. Se fosse stato soltanto un tycoon sarebbe stato un’efemeride, come è accaduto all’ex premier thailandese. Ricordo il ’94 e l’atteggiamento dei politici più tradizionali: guardavano a Berlusconi come a uno entrato in un mondo non suo; "che ci fa qui, non è roba per lui". Ora, dopo quattordici anni, anche lui ormai fa parte di quel mondo; ma la sua forza è continuare a essere percepito come estraneo. Certo, si è preso cura anche dei suoi interessi privati; ma ha rappresentato molto di più. All’inizio si è offerto come un Prometeo, un liberatore per sé e per gli altri. Oggi, pur senza rinunciare alla retorica dei lacci e lacciuoli da sciogliere, ha offerto soprattutto protezione. È risultato più convincente di noi, quando dicevamo che l’Italia era in piedi e la politica doveva alzarsi. C’era un’Italia che non si sentiva in piedi, e lui l’ha interpretata meglio».
Rispetto agli altri leader più longevi, Berlusconi assomiglia di più agli italiani, aderisce a loro più che volerli cambiare, non crede?
«È così. Mussolini rispose all’insicurezza della piccola borghesia di allora con l’ambizione di riportare l’Impero sui colli fatali di Roma. Propose agli italiani di trasformarsi in un popolo guerriero e ne portò qualcuno a zappare un po’ di Etiopia e di Somalia. Già allora, il Calimero che arriva per ultimo e fa l’impero dei poveri... Berlusconi ha dato all’insicurezza degli italiani di oggi risposte diverse, più simmetriche. Ha mostrato adesione al loro familismo, alla loro voglia di meno tasse ma anche di più aiuto, compreso l’aiuto di Stato alla compagnia di bandiera, che soddisfa anche un certo loro nazionalismo. Pronto, con molta spregiudicatezza intellettuale, a predicare il mercato e a proteggere l’economia nazionale».
Quando vi siete conosciuti?
«Non me lo ricordo più. Comunque, quando ero sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Berlusconi e Craxi andavano di conserva».
Chi era il dominus tra i due?
«Entrambi si sentivano investiti di un destino comune. Rompere i monopoli preesistenti, nei rispettivi campi: Dc e Pci in politica; la Rai nel sistema televisivo. Le due cose sono andate di pari passo. Craxi ha sostenuto le tv commerciali e il loro radicamento; e credo, pur non avendole mai guardate molto, che le tv commerciali abbiano sostenuto il progetto politico di Craxi. Non che Berlusconi lo accontentasse sempre. Craxi si attendeva che lui chiamasse Montanelli un giorno sì e uno no, e Berlusconi mi diceva che si guardava bene dal farlo».
La vulgata vuole che con il Cavaliere abbiate sempre avuto un buon rapporto.
«Sì è vero, il rapporto con Berlusconi è sempre stato buono. Lui sa rendersi simpatico. E io sono sempre impressionato dalla sua vitalità. Per questo mi sono molto amareggiato quando ha creduto, o ha finto di credere, che avessi fatto le schede elettorali apposta per danneggiare lui e, oltretutto, pure il Pd. Come sempre, quando il capo identifica un bersaglio i sottopancia eccedono in zelo: di me hanno detto che andavo cacciato subito dal Viminale perché preparavo i brogli. Il giorno dopo le elezioni chiamai Gianni Letta. E gli feci osservare che la scheda era stata giudicata dagli elettori come la più chiara da molto tempo».
Di Craxi cosa scriveranno i libri di storia? E cosa pensa lei?
«Craxi sarà ricordato come un grande statista e un grande politico, che a causa delle gestione finanziaria del partito finì per rovinarsi e pagare anche per altri. In calce alle innovazioni degli Anni ’80 il suo nome c’è sempre. Mi piace ricordarne in particolare una: Milano, 1985, il Craxi dell’atto unico, che mette in minoranza la Thatcher».
E il ‘92? Craxi, e non solo, le hanno rimproverato di non aver difeso il Psi e il sistema politico dalla procura di Milano.
«Io ho fatto quello che era giusto fare. Davanti all’inasprirsi dell’azione giudiziaria penale, contro persone arrestate magari per un semplice contributo elettorale, ritenni giusto depenalizzare il finanziamento illecito, come accade in altri Paesi. Ma non potevo cancellare dal codice penale la concussione o la corruzione ».
Era il decreto Conso, che Scalfaro non firmò.
«Non lo firmò dopo il pronunciamento della procura di Milano. Fu un episodio riprovevole il veto di un gruppo di magistrati a una disposizione legislativa. Pochi giorni dopo vidi Borrelli alla Bocconi. Gli chiesi perché. Mi rispose che le loro indagini spesso partivano dal finanziamento illecito per arrivare alla concussione o alla corruzione. Replicai che quell’argomento provava troppo; se dal finanziamento si passava a concussione e corruzione il nostro decreto lasciava tutto al giudice penale. Fu inutile».
Che effetto le fa vedere oggi Di Pietro in Parlamento?
«L’ho avuto come collega nel Consiglio dei ministri. Un personaggio estroverso, che si impunta. Ha qualità politiche».
E Prodi?
«Prodi ha più ragioni per restare nei libri. È il presidente italiano che ha portato l’Italia nell’euro e il presidente europeo che ha allargato l’Europa ai paesi dell’Est. Ma io vedo soprattutto la creazione del Pd, che ha posto fine alla secolare e distruttiva divisione dei riformisti. C’è voluta la sua testardaggine di ciclista, ma con questo ha davvero cambiato la storia. E la storia, come spesso accade, appena nato il bambino l’ha affidato ad altri. Questi comunque restano i suoi achievements, le sue realizzazioni».
E quelli di Berlusconi?
«Finora sono stati più promessi che realizzati. Ora ha davanti cinque anni e il clima più favorevole per realizzarli davvero».
Aldo Cazzullo
02 giugno 2008
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Amato dice addio alla politica
«Craxi e il ’92? Feci scelte giuste»
«Sul finanziamento illecito da depenalizzare veto riprovevole del pool milanese»
Giuliano Amato (Inside)
ROMA — Presidente Amato, lei ha compiuto settant’anni e si è ritirato dalla vita politica, rinunciando a ricandidarsi. Perché?
«Sono in politica da cinquant’anni; non ricordo se mi iscrissi al Psi nel ’57 o nel ’58. In tutti questi anni non ho mai avuto divisioni al mio seguito. Non sono mai esistiti gli amatiani. Ho acquisito posizioni di preminenza offrendo idee ed esperienze. Posso continuare a farlo, finché il cervello funziona, senza bisogno di un posto al governo o in Parlamento. In Italia abbiamo leader cinquantenni che sono considerati giovani ed è quindi utile che quelli come me facciano spazio a chi è nato non dirò ieri, ma almeno l’altro ieri».
Chi sono gli uomini nuovi su cui puntare? Enrico Letta?
«Enrico ha l’età in cui negli altri Paesi si diventa primi ministri. Nomi non ne faccio, ma dobbiamo puntare anche sui trentenni. Nunzia Penelope ha scritto che "i giovani non esistono". C’è del vero. È giusto dare ai giovani la possibilità di dimostrare che, avendo scelta, la loro vita può essere altro da una sequenza infinita di notti in Campo de’ Fiori, con una bottiglia di birra in mano».
Qualche giorno fa, lei ha detto in un convegno di aver maturato un giudizio severo sulla classe dirigente italiana. Cosa intendeva?
«L’autarchia italiana non è mai finita. È un male antico, come antico è il provincialismo della classe dirigente. E non mi riferisco solo alla politica; penso al ceto industriale, ai giornalisti, all’università, dove l’italianità dei professori è difesa come quella della mozzarella sulle nostre tavole. Ognuno rilancia all’altro la propensione al provincialismo: il risultato è che del grande mondo che diciamo essere entrato nel nostro senza più confini, non siamo in realtà partecipi e ce ne occupiamo molto meno che del più minuscolo fatto di cronaca di casa nostra. Difetto tipico da provinciali, inoltre, è la nostra autoflagellazione eccessiva, il complesso di eterno Calimero, come lo chiama nel suo libro recente sull’Europa Riccardo Perissich. Come in un gioco di specchi, gli altri riflettono i nostri lamenti e li fanno propri».
Siamo troppo sensibili ai giudizi altrui, magari dei giornali stranieri?
«L’inviato dell’Economist viene a Roma per qualche giorno, ascolta quel che gli dicono i giornalisti italiani, lo riprende pari pari perché dell’Italia non sa altro, gli stessi giornalisti informano che "l’autorevole Economist ha scritto...". Seguono interrogazioni in Parlamento e dibattiti nazionali. Segno dell’eccesso di introspezione di un Paese che finisce per perdere il senso del confronto con gli altri. Quando parliamo con loro ci sentiamo troppo spesso comprimari. Il nostro atteggiamento è ancora quello della guerra di Crimea: dobbiamo esserci, non per affermare una nostra posizione sul mondo, ma perché altrimenti non si accorgono neanche che ci siamo. Il risultato è la marginalità».
A quali esempi si riferisce?
«Non voglio fare il populista, ma davvero il paese cresce più in fretta della sua classe dirigente. Abbiamo più campioni mondiali dei britannici o, amo dirlo, dei francesi; ma dell’establishment europeo nella migliore delle ipotesi facciamo parte a singhiozzo. Siamo i più europeisti, eppure a lungo abbiamo mandato in Europa figure di secondo piano. Alle cariche internazionali arrivano a volte degli eccellenti italiani, ma noi non formiamo i funzionari da far crescere, non sappiamo prenotare i posti per tempo; arriviamo sempre per ultimi, in cerca dell’ultimo strapuntino. Quante volte me lo sono sentito dire: voi italiani vi svegliate tardi. Capita così che quelli che ci sono sempre si mettano d’accordo fra di loro, senza quelli come noi, che ci sono solo ogni tanto. Nell’accordo di Schengen noi non c’eravamo, ci siamo entrati dopo. E la stessa cosa è successa con l’accordo di Prum, che consente alle polizie di inseguire un fuggiasco anche oltre i confini e scambiarsi i dati sul Dna. L’ho firmato io per l’Italia e spero che il centrodestra me lo faccia passare, visto che il centrosinistra non ce l’ha fatta».
Come valuta le nuove norme sulla sicurezza del governo Berlusconi?
«Recepiscono per larghissima parte le mie misure. La grande preoccupazione di oggi è che l’azione repressiva, che va fatta, sia accompagnata dal lavoro—altrettanto indispensabile — per la solidarietà e l’integrazione ».
La preoccupa il clima che si è creato?
«È anche qui il rischio di regressione civile di cui ha parlato il capo dello Stato. Non puoi dire a un immigrato: "Tu devi lavorare per otto ore, e poi sparire". Quanto ai 18 mesi nel Cpt, o sono un’eccezione dovuta a particolari difficoltà di identificazione dello straniero, o diventano una detenzione priva di base costituzionale e comunitaria. È importante poi che prosegua il lavoro con il Comitato promotore del riconoscimento giuridico dell’Islam italiano, che assicura lealtà ai principi della Costituzione».
Qual è il suo giudizio su Berlusconi? Il fatto che il proprietario delle tv sia il capo del governo resta un’anomalia, o no?
«L’anomalia c’è. Che un uomo così sia destinato ad essere ricordato nei libri dopo Mussolini e prima di Giolitti è una cosa che colpisce. Però Berlusconi ha saputo incarnare un sentimento collettivo. Se fosse stato soltanto un tycoon sarebbe stato un’efemeride, come è accaduto all’ex premier thailandese. Ricordo il ’94 e l’atteggiamento dei politici più tradizionali: guardavano a Berlusconi come a uno entrato in un mondo non suo; "che ci fa qui, non è roba per lui". Ora, dopo quattordici anni, anche lui ormai fa parte di quel mondo; ma la sua forza è continuare a essere percepito come estraneo. Certo, si è preso cura anche dei suoi interessi privati; ma ha rappresentato molto di più. All’inizio si è offerto come un Prometeo, un liberatore per sé e per gli altri. Oggi, pur senza rinunciare alla retorica dei lacci e lacciuoli da sciogliere, ha offerto soprattutto protezione. È risultato più convincente di noi, quando dicevamo che l’Italia era in piedi e la politica doveva alzarsi. C’era un’Italia che non si sentiva in piedi, e lui l’ha interpretata meglio».
Rispetto agli altri leader più longevi, Berlusconi assomiglia di più agli italiani, aderisce a loro più che volerli cambiare, non crede?
«È così. Mussolini rispose all’insicurezza della piccola borghesia di allora con l’ambizione di riportare l’Impero sui colli fatali di Roma. Propose agli italiani di trasformarsi in un popolo guerriero e ne portò qualcuno a zappare un po’ di Etiopia e di Somalia. Già allora, il Calimero che arriva per ultimo e fa l’impero dei poveri... Berlusconi ha dato all’insicurezza degli italiani di oggi risposte diverse, più simmetriche. Ha mostrato adesione al loro familismo, alla loro voglia di meno tasse ma anche di più aiuto, compreso l’aiuto di Stato alla compagnia di bandiera, che soddisfa anche un certo loro nazionalismo. Pronto, con molta spregiudicatezza intellettuale, a predicare il mercato e a proteggere l’economia nazionale».
Quando vi siete conosciuti?
«Non me lo ricordo più. Comunque, quando ero sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Berlusconi e Craxi andavano di conserva».
Chi era il dominus tra i due?
«Entrambi si sentivano investiti di un destino comune. Rompere i monopoli preesistenti, nei rispettivi campi: Dc e Pci in politica; la Rai nel sistema televisivo. Le due cose sono andate di pari passo. Craxi ha sostenuto le tv commerciali e il loro radicamento; e credo, pur non avendole mai guardate molto, che le tv commerciali abbiano sostenuto il progetto politico di Craxi. Non che Berlusconi lo accontentasse sempre. Craxi si attendeva che lui chiamasse Montanelli un giorno sì e uno no, e Berlusconi mi diceva che si guardava bene dal farlo».
La vulgata vuole che con il Cavaliere abbiate sempre avuto un buon rapporto.
«Sì è vero, il rapporto con Berlusconi è sempre stato buono. Lui sa rendersi simpatico. E io sono sempre impressionato dalla sua vitalità. Per questo mi sono molto amareggiato quando ha creduto, o ha finto di credere, che avessi fatto le schede elettorali apposta per danneggiare lui e, oltretutto, pure il Pd. Come sempre, quando il capo identifica un bersaglio i sottopancia eccedono in zelo: di me hanno detto che andavo cacciato subito dal Viminale perché preparavo i brogli. Il giorno dopo le elezioni chiamai Gianni Letta. E gli feci osservare che la scheda era stata giudicata dagli elettori come la più chiara da molto tempo».
Di Craxi cosa scriveranno i libri di storia? E cosa pensa lei?
«Craxi sarà ricordato come un grande statista e un grande politico, che a causa delle gestione finanziaria del partito finì per rovinarsi e pagare anche per altri. In calce alle innovazioni degli Anni ’80 il suo nome c’è sempre. Mi piace ricordarne in particolare una: Milano, 1985, il Craxi dell’atto unico, che mette in minoranza la Thatcher».
E il ‘92? Craxi, e non solo, le hanno rimproverato di non aver difeso il Psi e il sistema politico dalla procura di Milano.
«Io ho fatto quello che era giusto fare. Davanti all’inasprirsi dell’azione giudiziaria penale, contro persone arrestate magari per un semplice contributo elettorale, ritenni giusto depenalizzare il finanziamento illecito, come accade in altri Paesi. Ma non potevo cancellare dal codice penale la concussione o la corruzione ».
Era il decreto Conso, che Scalfaro non firmò.
«Non lo firmò dopo il pronunciamento della procura di Milano. Fu un episodio riprovevole il veto di un gruppo di magistrati a una disposizione legislativa. Pochi giorni dopo vidi Borrelli alla Bocconi. Gli chiesi perché. Mi rispose che le loro indagini spesso partivano dal finanziamento illecito per arrivare alla concussione o alla corruzione. Replicai che quell’argomento provava troppo; se dal finanziamento si passava a concussione e corruzione il nostro decreto lasciava tutto al giudice penale. Fu inutile».
Che effetto le fa vedere oggi Di Pietro in Parlamento?
«L’ho avuto come collega nel Consiglio dei ministri. Un personaggio estroverso, che si impunta. Ha qualità politiche».
E Prodi?
«Prodi ha più ragioni per restare nei libri. È il presidente italiano che ha portato l’Italia nell’euro e il presidente europeo che ha allargato l’Europa ai paesi dell’Est. Ma io vedo soprattutto la creazione del Pd, che ha posto fine alla secolare e distruttiva divisione dei riformisti. C’è voluta la sua testardaggine di ciclista, ma con questo ha davvero cambiato la storia. E la storia, come spesso accade, appena nato il bambino l’ha affidato ad altri. Questi comunque restano i suoi achievements, le sue realizzazioni».
E quelli di Berlusconi?
«Finora sono stati più promessi che realizzati. Ora ha davanti cinque anni e il clima più favorevole per realizzarli davvero».
Aldo Cazzullo
02 giugno 2008
domenica 1 giugno 2008
2 GIUGNO. PIETRO NENNI PADRE DELLA REPUBBLICA
http://cronologia.leonardo.it/storia/biografie/nenni.htm
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