venerdì 30 novembre 2007
la Moratti e la macellazione della Bestia
Come succede sempre nel bel Paese con la scusa della modernizzazione si commettono nefandezze inimmaginabili dovunque.
Dalla legge Bassanini (mi auguro che la Francia mantenga intatto il suo ordinamento e non accetti proposte dalla voluta da Sarkozy)
in poi, si sono aperte grandi fenditure alla nostra amministrazione pubblica attraverso le quali passano i sottopancia, gli amici personali, dei politici per occupare i posti di maggiore rilievo
con impressionante aggravio di costo (qualcuno di questi emeriti signori è pagato centinaia di migliaia di euro) ed effetto devastante e di frustrazione per la struttura pubblica violentata.
Il caso dei consulenti d'oro e dei dirigenti del Comune di Milano non è isolato. E' uno dei tantissimi casi riscontrabili in tutti gli enti pubblici italiani anche in piccoli centri.
Chi sono i grandi managers, i superesperti? A volte candidati bocciati nelle competizioni elettorali, sempre organici agli apparati di potere
del politico che li propone.
Sarebbe opportuna una indagine del Parlamento sull'uso della spoil sistem in Italia, sugli effetti prodotti, sui danni enormi arrecati non soltanto in termini economici ma in termini di svilimento delle strutture amministrative. La piramide per la quale attraverso il merito e l'anzianità si conquistavano riconoscimenti e direzioni non esiste più: esiste un campo devastato aperto a tutti con una massa grigia di burocrazia malpagata e scontenta e una dirigenza esposta alle incursioni piratesche del politico di turno.
Anche il tema delle privatizzazioni e delle esternalizzazioni andrebbe analizzato minuziosamente. Si constaterebbe come i servizi "privatizzati" o "esternalizzati" siano diventati assai più costosi, come le bollette degli utenti siano state appesantite dagli stipendi da nababbi degli amministratori delle aziende municipali e comunali. Il tutto a danno dell'efficienza invocata appunta per privatizzare.
Ma questo governo non ha alcuna intenzione di mettere mano a questi brucianti problemi dove si consumano risorse in quantità tali da rendere impossibile il finanziamento dei rinnovi contrattuali. Il suo esempio, il suo faro sembra essere la Regione Calabria dove il processo di privatizzazione e l'accaparramento padronale della pubblica amministrazione ha raggiunto livelli da codice penale.
Non escludo che ci sia un obiettivo politico assai ambizioso in tante operazioni che sembrano soltanto clientelare: "ammazzare la bestia" come diceva Reagan, distruggere, destrutturare, ventrare lo Stato per renderlo più debole più in balia delle multinazionali ,dei poteri forti della borghesia liberista.
Pietro Ancona
Dalla legge Bassanini (mi auguro che la Francia mantenga intatto il suo ordinamento e non accetti proposte dalla voluta da Sarkozy)
in poi, si sono aperte grandi fenditure alla nostra amministrazione pubblica attraverso le quali passano i sottopancia, gli amici personali, dei politici per occupare i posti di maggiore rilievo
con impressionante aggravio di costo (qualcuno di questi emeriti signori è pagato centinaia di migliaia di euro) ed effetto devastante e di frustrazione per la struttura pubblica violentata.
Il caso dei consulenti d'oro e dei dirigenti del Comune di Milano non è isolato. E' uno dei tantissimi casi riscontrabili in tutti gli enti pubblici italiani anche in piccoli centri.
Chi sono i grandi managers, i superesperti? A volte candidati bocciati nelle competizioni elettorali, sempre organici agli apparati di potere
del politico che li propone.
Sarebbe opportuna una indagine del Parlamento sull'uso della spoil sistem in Italia, sugli effetti prodotti, sui danni enormi arrecati non soltanto in termini economici ma in termini di svilimento delle strutture amministrative. La piramide per la quale attraverso il merito e l'anzianità si conquistavano riconoscimenti e direzioni non esiste più: esiste un campo devastato aperto a tutti con una massa grigia di burocrazia malpagata e scontenta e una dirigenza esposta alle incursioni piratesche del politico di turno.
Anche il tema delle privatizzazioni e delle esternalizzazioni andrebbe analizzato minuziosamente. Si constaterebbe come i servizi "privatizzati" o "esternalizzati" siano diventati assai più costosi, come le bollette degli utenti siano state appesantite dagli stipendi da nababbi degli amministratori delle aziende municipali e comunali. Il tutto a danno dell'efficienza invocata appunta per privatizzare.
Ma questo governo non ha alcuna intenzione di mettere mano a questi brucianti problemi dove si consumano risorse in quantità tali da rendere impossibile il finanziamento dei rinnovi contrattuali. Il suo esempio, il suo faro sembra essere la Regione Calabria dove il processo di privatizzazione e l'accaparramento padronale della pubblica amministrazione ha raggiunto livelli da codice penale.
Non escludo che ci sia un obiettivo politico assai ambizioso in tante operazioni che sembrano soltanto clientelare: "ammazzare la bestia" come diceva Reagan, distruggere, destrutturare, ventrare lo Stato per renderlo più debole più in balia delle multinazionali ,dei poteri forti della borghesia liberista.
Pietro Ancona
giovedì 29 novembre 2007
uso truffaldino della Biagi (è nata per questo)
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La menzogna del lavoro “flessibile”Sei atipici su dieci per pagare meno
Solo il 39 per cento dei contratti a termine è legato a reali esigenze dovute al ciclo economico o al tipo di produzione. Prevale nelle imprese invece l’intenzione di ridurre il costo del lavoro e la valutazione del costo-opportunità legato alla possibilità di licenziare. Per l’83 per cento dei lavoratori con “scadenza” non è una scelta volontaria. L’anticipazione dell’indagine Plus dell’Isfol su 40 mila persone
di FEDERICO PACE
Non ci sono i cicli economici a giustificare la gran parte dei contratti a tempo che gli italiani sono costretti ad accettare come pegno per accedere al primo girone del mercato del lavoro. Non ci sono i picchi di produzione e le commesse che arrivano e poi scompaiono a spiegare il perché i giovani, le donne e gli over 50 sono costretti a non rifiutare un’offerta di lavoro a tempo pur di salire su quel primo gradino che sta distante dalla cittadella, sempre più piccola e disabitata, del lavoro a tempo indeterminato. Sì, perché le esigenze di flessibilità produttive e organizzative spiegano solo una parte minoritaria del ricorso delle imprese ai contratti atipici.
I risultati sono contenuti nell’anticipazione del rapporto Plus dell’Isfol presentata oggi e che nella sua completezza verrà pubblicata ai primi dell’anno prossimo e realizzata su un campione di 40 mila individui. Ma vediamoli i motivi che giustificano i contratti atipici. Solo il 17 per cento dei contratti temporanei è legato a lavoro stagionale o a picchi di produttività. C’è poi un altro 12 per cento collegato a un progetto a commessa e infine un altro 10 per cento legato alla sostituzione di personale temporaneamente assente.
E allora, perché tutto questo ricorso ai contratti atipici? E allora, perché utilizzare nuovi contratti di lavoro se non ci sono esigenze di flessibilità produttiva? Per la gran parte dei casi, dicono gli autori del rapporto, “la scelta di fare assunzioni temporanee” sembra “sia dovuta alla tendenza di ridurre il costo del lavoro e il costo-opportunità legato alla possibilità di licenziare”.
Il fenomeno, si sa, non è relegato a piccoli numeri. Riguarda infatti il 24 per cento dei giovani, il 12 per cento di chi risiede nel Mezzogiorno e il 13 per cento delle donne con un impiego. E quasi la metà dei contratti atipici è stata già rinnovata almeno una volta “avvalorando – spiegano gli autori dell’indagine – per queste posizioni il ricorso sistematico ad un fattore lavoro flessibile”. L’indagine ribadisce che la gran parte degli occupati a termine (l’83 per cento) vive non volontariamente “la condizione di non stabilità derivante dal contratto”.
Nell’indagine di approfondimento del lavoro atipico ci sono però anche elementi che introducono qualche speranza. La metà delle persone intervistate reputa infatti possibile “migrare” verso un contratto a tempo indeterminato. Ma sono soprattutto gli elementi di non volontarietà a colpire. Anche il lavoro interinale è una scelta obbligata per la gran parte delle persone. Il 76 per cento degli intervistati lo ha accettato come ripiego e solo una parte minoritaria (il 18 per cento) lo sceglie per accadere in seguito ad una condizione di impiego a tempo indeterminato. Anche per loro si registra l’iterazione del contratto (nel 58,4 per cento dei casi). Per gli “interinali” la speranza di passare a una condizione più stabile è molto bassa: solo un quarto lo ritiene possibile.
Anche per i collaboratori sembra permanere un uso distorto delle tipologie contrattuali. Anche quest’anno infatti molti di loro sono soggetti a vincoli tipici dei dipendenti: il 78,5 per cento lavora per un solo committente, il 64,32 per cento deve garantire la presenza regolare presso la sede dell’impresa, il 60,3 per cento ha un orario giornaliero, l’85,3 per cento usa mezzi, strumenti e strutture del datore e il 61,7 per cento ha rinnovato la collaborazione almeno una volta.
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29 Novembre 2007 La menzogna del lavoro “flessibile”Sei atipici su dieci per pagare meno
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26 Novembre 2007 Carriere e professioni, l’Italia si mette al lavoroun nuovo impiego dal dolciario all’aeronautica
23 Novembre 2007 Banca d’Italia, Aci e Efsai concorsi in Italia e Europa
22 Novembre 2007 Giovani talenti nel cuore d’Europain aula per diventare funzionari Ue
21 Novembre 2007 Giovani aspiranti editori e giornalisti in concorso
20 Novembre 2007 Nei dati Isfol disoccupazione ai minimiMa è precario un lavoratore su dieci
20 Novembre 2007 L’odissea dei “senza carriera”sempre più italiani privi di chance
19 Novembre 2007 Stipendi, ecco la foto del declinoIn 5 anni persi migliaia di euro
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E allora, perché tutto questo ricorso ai contratti atipici? E allora, perché utilizzare nuovi contratti di lavoro se non ci sono esigenze di flessibilità produttiva? Per la gran parte dei casi, dicono gli autori del rapporto, “la scelta di fare assunzioni temporanee” sembra “sia dovuta alla tendenza di ridurre il costo del lavoro e il costo-opportunità legato alla possibilità di licenziare”.
Il fenomeno, si sa, non è relegato a piccoli numeri. Riguarda infatti il 24 per cento dei giovani, il 12 per cento di chi risiede nel Mezzogiorno e il 13 per cento delle donne con un impiego. E quasi la metà dei contratti atipici è stata già rinnovata almeno una volta “avvalorando – spiegano gli autori dell’indagine – per queste posizioni il ricorso sistematico ad un fattore lavoro flessibile”. L’indagine ribadisce che la gran parte degli occupati a termine (l’83 per cento) vive non volontariamente “la condizione di non stabilità derivante dal contratto”.
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mercoledì 28 novembre 2007
lettera a Sullo,Sansonetti e Polo dopo la fiducia sulla Biagi
Cari Sansonetti, Polo e Sullo,
insieme ad un gruppo di importanti intellettuali della sinistra, persone dabbene che hanno rifiutato di fare i consiglieri del principe ed hanno continuato a produrre la cultura necessaria al movimento, avete dato vita alla grande manifestazione del venti ottobre che, all'indomani del cedimento dei ministri della sinistra sul protocollo "welfare", non poteva che essere una mera agitazione muscolare, un modo per coprire la grande defaliance e magari di convincere qualcuno di qualcosa.
Ero contrario alla manifestazione ritenendo che la responsabilità non poteva essere trasferita dal governo alla piazza. La delegazione o riusciva ad ottenere quanto previsto peraltro dal programma o si ritirava.
Nonostante questo, l'immenso successo del venti ottobre che ha dato la prova di un socialismo che non si estingue con il passaggio dei ds al PD e con gli errori della sinistra,
mi aveva convinto della utilità della manifestazione e fatto sperare in qualcosa di buono anche se non avevo gradito i continui proclami che volevano imprimere la griffe: "Non contro il Governo".
Oggi, col voto di fiducia alla Camera, siamo all'epilogo di una vicenda che rafforza e rende permanente la legge Biagi e genera sgomento in tutto il popolo del venti ottobre facendo dell'Italia la nazione con la legislazione del lavoro più reazionaria del mondo.
Si vuole una verifica: Di che cosa? Oramai il danno è fatto e non sarà questo Parlamento a correggerlo. E' un male che si assomma al vizio securitario di una maggioranza sempre più xenofoba. A questo punto la rottura con Prodi (se ci sarà) non interessa più nessuno.
Ed è anche probabile che Prodi cada da un'altra parte.
Che cosa racconterete alla nostra gente? La legge Biagi è una minaccia permanente al lavoro a tempo indeterminato. La sua sola esistenza è un pericolo per la democrazia. Basta evocarla nelle aziende per diffondere preoccupazione ed anche paura.
Ogni azienda ha mille modi per liberarsi di tutti gli operai o lavoratori che, col tempo, pesano di più, costano di più. Potrà attingere a piene mani in un pozzo di proposte alternative e truffaldine. La truffa legalizzata del fumus del cocopro e di quant'altro.
La sconfitta che si incassa è terribile. Fino ad ieri potevamo attribuire alla destra la legge Biagi. Oggi ha le firme di Epifani, e della sinistra di governo. L'estremismo ideologico del centro liberista del governo ha stravinto.
Pietro
insieme ad un gruppo di importanti intellettuali della sinistra, persone dabbene che hanno rifiutato di fare i consiglieri del principe ed hanno continuato a produrre la cultura necessaria al movimento, avete dato vita alla grande manifestazione del venti ottobre che, all'indomani del cedimento dei ministri della sinistra sul protocollo "welfare", non poteva che essere una mera agitazione muscolare, un modo per coprire la grande defaliance e magari di convincere qualcuno di qualcosa.
Ero contrario alla manifestazione ritenendo che la responsabilità non poteva essere trasferita dal governo alla piazza. La delegazione o riusciva ad ottenere quanto previsto peraltro dal programma o si ritirava.
Nonostante questo, l'immenso successo del venti ottobre che ha dato la prova di un socialismo che non si estingue con il passaggio dei ds al PD e con gli errori della sinistra,
mi aveva convinto della utilità della manifestazione e fatto sperare in qualcosa di buono anche se non avevo gradito i continui proclami che volevano imprimere la griffe: "Non contro il Governo".
Oggi, col voto di fiducia alla Camera, siamo all'epilogo di una vicenda che rafforza e rende permanente la legge Biagi e genera sgomento in tutto il popolo del venti ottobre facendo dell'Italia la nazione con la legislazione del lavoro più reazionaria del mondo.
Si vuole una verifica: Di che cosa? Oramai il danno è fatto e non sarà questo Parlamento a correggerlo. E' un male che si assomma al vizio securitario di una maggioranza sempre più xenofoba. A questo punto la rottura con Prodi (se ci sarà) non interessa più nessuno.
Ed è anche probabile che Prodi cada da un'altra parte.
Che cosa racconterete alla nostra gente? La legge Biagi è una minaccia permanente al lavoro a tempo indeterminato. La sua sola esistenza è un pericolo per la democrazia. Basta evocarla nelle aziende per diffondere preoccupazione ed anche paura.
Ogni azienda ha mille modi per liberarsi di tutti gli operai o lavoratori che, col tempo, pesano di più, costano di più. Potrà attingere a piene mani in un pozzo di proposte alternative e truffaldine. La truffa legalizzata del fumus del cocopro e di quant'altro.
La sconfitta che si incassa è terribile. Fino ad ieri potevamo attribuire alla destra la legge Biagi. Oggi ha le firme di Epifani, e della sinistra di governo. L'estremismo ideologico del centro liberista del governo ha stravinto.
Pietro
martedì 27 novembre 2007
lunedì 26 novembre 2007
domenica 25 novembre 2007
Uno sciopero generale inutile e vuoto di contenuti
fronte della tragedia dei salari italiani (le festività natalizie non saranno allegre per milioni di famiglie) la superpotenza sindacale CGIL CISL UIL riunitasi in pompa magna a Milano propone di distribuire una media di TRENTA euro al mese da aggiungere alla miseria delle richieste contrattuali (meno di cento euro al mese), sottraendoli alla tassazione. Per questo miserabile, minimalistico obiettivo, proclamano lo sciopero generale per gennaio per dimostrarsi autonomi dal governo e dalla Confindustria e comunque tenere la barra di un minimalismo contrattuale indecente e sconcertante. Insomma, i Sindacati condannano i lavoratori italiani alla miseria. In ogni caso, per questi miseri trenta euro si accingono a cedere altri importanti pezzi dei gioielli di famiglia (contratti nazionali, tutele di malattie). Per la casa, ossessionati dal timore di essere giudicati poco liberisti, propongono intervento sulle locazioni e si guardano bene dal proporre un piano nazionale di edilizia popolare capace di calmierare il mercato e dare la casa a chi non è in grado di pagare gli affitti correnti. Pietro Ancona già componente dell'esecutivo CGILgià membro del CNEL http://www.unita.it/view.asp?IDcontent=70858
venerdì 23 novembre 2007
ferrero come ponzio pilato (si astiene,si lava le mani)
Ferrero come Ponzio Pilato
=====================
Apprendo che il governo metterà la fiducia sul welfare. Era prevedibile dal momento che non può venire meno agli impegni assunti con Dini e non può rischiare l'inquinamento di emendamenti di destra che renderebbero ancora più mostruoso il testo.
Questa desolante conclusione era iscritta nelle cose. Era prevedibile anche da chi come me non ha alcuna esperienza di lavori parlamentari.
A questo punto dubito della buona fede di Ferrero e degli altri ministri della sinistra. Se avessero voluto migliorare il decreto avrebbero potuto e dovuto farlo soltanto dentro il Consiglio dei Ministri. Sapevano benissimo che la sede parlamentare sarebbe stata di gran lunga più sfavorevole. Poi avrebbero potuto valorizzare la lotta dei lavoratori contro il decreto. Ferrero e gli altri hanno partecipato alla manifestazione del venti ottobre devirilizzandola. Avrebbero potuto accettarne la spinta contro gli accordi del 23 luglio. Certo il cedimento della CGIL offre qualche alibi ma non cambia la sostanza delle cose. Da oggi la legge Biagi sarà firmata anche dal governo di centro-sinistra e dalla intera sinistra al governo.
A questo punto non capisco perchè anzicchè la "cosa rossa" non aderiscono al Partito Democratico!
I lavoratori italiani sono tra i più miseri d'Europa perchè Sindacati e Partiti di sinistra non li difendono.
Ministerialisti e Casta di centro-sinistra hanno messo in ginocchio il lavoro dipendente ed il lavoro immigrato (pagato anche 1 euro l'ora).
! La CGIL e la sinistra italiana sono morte!
Questo Governo presiederà presto la fine dei contratti collettivi di lavoro!
Viva la Francia!
Pietro Ancona
========
I lavoratori italiani stanno diventando un popolo senza voce come i rom. Dopo l'approvazione CGIL,CISL,UIL del protocollo welfare condita da un referendum fasullo, ora anche la sinistra si fa sopraffare da una maggioranza PD più Casa delle Libertà in Commissione. Berlusconi annunzia che in aula la sinistra sarà definitivamente battuta.
La scelta compiuta dalla sinistra di lasciare approvare il decreto per combatterlo in parlamento si sta rilevando per quella che era: una scelta perdente che non le salverà la faccia.Il decreto non doveva mai uscire dal Consiglio dei Ministri senza le correzioni fondamentali necessarie.
La sinistra radicale sta mettendo il suo sigillo alla famigerata legge Sacconi-Maroni. Il popolo del venti ottobre è stato abbandonato al suo destino. Per lui solo parole e demagogia! Si abbia il coraggio almeno di dire che stare al Governo è più importante di una legge-graticola per i giovani ed i lavoratori che fa dell'Italia una delle più incivili nazioni industrializzate.
Pietro Ancona
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Apprendo che il governo metterà la fiducia sul welfare. Era prevedibile dal momento che non può venire meno agli impegni assunti con Dini e non può rischiare l'inquinamento di emendamenti di destra che renderebbero ancora più mostruoso il testo.
Questa desolante conclusione era iscritta nelle cose. Era prevedibile anche da chi come me non ha alcuna esperienza di lavori parlamentari.
A questo punto dubito della buona fede di Ferrero e degli altri ministri della sinistra. Se avessero voluto migliorare il decreto avrebbero potuto e dovuto farlo soltanto dentro il Consiglio dei Ministri. Sapevano benissimo che la sede parlamentare sarebbe stata di gran lunga più sfavorevole. Poi avrebbero potuto valorizzare la lotta dei lavoratori contro il decreto. Ferrero e gli altri hanno partecipato alla manifestazione del venti ottobre devirilizzandola. Avrebbero potuto accettarne la spinta contro gli accordi del 23 luglio. Certo il cedimento della CGIL offre qualche alibi ma non cambia la sostanza delle cose. Da oggi la legge Biagi sarà firmata anche dal governo di centro-sinistra e dalla intera sinistra al governo.
A questo punto non capisco perchè anzicchè la "cosa rossa" non aderiscono al Partito Democratico!
I lavoratori italiani sono tra i più miseri d'Europa perchè Sindacati e Partiti di sinistra non li difendono.
Ministerialisti e Casta di centro-sinistra hanno messo in ginocchio il lavoro dipendente ed il lavoro immigrato (pagato anche 1 euro l'ora).
! La CGIL e la sinistra italiana sono morte!
Questo Governo presiederà presto la fine dei contratti collettivi di lavoro!
Viva la Francia!
Pietro Ancona
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I lavoratori italiani stanno diventando un popolo senza voce come i rom. Dopo l'approvazione CGIL,CISL,UIL del protocollo welfare condita da un referendum fasullo, ora anche la sinistra si fa sopraffare da una maggioranza PD più Casa delle Libertà in Commissione. Berlusconi annunzia che in aula la sinistra sarà definitivamente battuta.
La scelta compiuta dalla sinistra di lasciare approvare il decreto per combatterlo in parlamento si sta rilevando per quella che era: una scelta perdente che non le salverà la faccia.Il decreto non doveva mai uscire dal Consiglio dei Ministri senza le correzioni fondamentali necessarie.
La sinistra radicale sta mettendo il suo sigillo alla famigerata legge Sacconi-Maroni. Il popolo del venti ottobre è stato abbandonato al suo destino. Per lui solo parole e demagogia! Si abbia il coraggio almeno di dire che stare al Governo è più importante di una legge-graticola per i giovani ed i lavoratori che fa dell'Italia una delle più incivili nazioni industrializzate.
Pietro Ancona
giovedì 22 novembre 2007
istituzione Alto Commissariato per i ROM
Istituzione ALTO COMMISSARIATO PER I ROM
================================
Oggi le ruspe hanno abbattuto le povere capanne dei rom di Tor di Quinto con tutto il loro contenuto nel massimo disprezzo dei diritto degli abitanti che dovevano quanto meno essere avvertiti per salvare le loro cose, i loro ricordi, oggetti necessari alla loro vita raminga. Rai tre mostrava una bambina che al ritorno della scuola non trova più la sua casa. Non sa neppure dove andrà dal momento che chi demolisce si limita a questo e non si pone il problema della risistemazione delle persone.
Il Governo Italiano ha affrontato l'enorme problema della immigrazione dei Rom soltanto dal versante "sicurezza" che in sostanza si traduce in una folle esclusione dalla nostra vista e dalle nostre città dei rom. Esclusione dalla vista, criminalizzazione della povertà, sanzioni per i lavavetri, decoro urbano con pulizie etniche....
Sappiamo che si tratta di gravissimi abusi simili a quelli che il nazismo fece subire ai rom negli anni trenta, abusi possibili perchè trattasi di un popolo senza voce fino al punto di essere dimenticato dalla giornata della memoria dell'olocausto nella quale non sono neppure menzionati (legge 211 del 2000). Eppure furono uccisi oltre seicentomila tra rom e sinti!!
Considerato la inconcludenza del Ministero della Solidarietà Sociale e l'ostilita dei sindaci leghisti e PD
penso c he si potrebbe trovare una soluzione, uno strumento nella istituzione di un Alto Commissariato per i Rom con il compito di organizzarne ed amministrarne la presenza in Italia.
Il Commissariato potrebbe essere dotato delle risorse messe a disposizione della Unione Europea, del Fondo ONU e del Governo italiano e dovrebbe agire per evitare i traumi dei continui trasferimenti forzosi imposti a varie comunità e del crescente razzismo che attorno a queste drammatiche vicende si sta creando. Dovrebbe realizzare un progetto di sistemazione delle comunità rom:
Il problema ROM deve essere affrontato a cominciare dal dare una voce a questo sventurato popolo, e bisognerebbe creare istituzioni sociali e culturali. L'Italia può gestire agevolmente un progetto del genere, farne un progetto esemplare, la risposta umanitaria civile ed economicamente produttiva ad un problema che rischia di squalificarci come popolo xenofobo che per evitare la vergogna delle favelas le demolisce senza porsi il problema degli esseri umani che li abitano.
Pietro Ancona
società umanitaria "venti ottobre"
Palermo
================================
Oggi le ruspe hanno abbattuto le povere capanne dei rom di Tor di Quinto con tutto il loro contenuto nel massimo disprezzo dei diritto degli abitanti che dovevano quanto meno essere avvertiti per salvare le loro cose, i loro ricordi, oggetti necessari alla loro vita raminga. Rai tre mostrava una bambina che al ritorno della scuola non trova più la sua casa. Non sa neppure dove andrà dal momento che chi demolisce si limita a questo e non si pone il problema della risistemazione delle persone.
Il Governo Italiano ha affrontato l'enorme problema della immigrazione dei Rom soltanto dal versante "sicurezza" che in sostanza si traduce in una folle esclusione dalla nostra vista e dalle nostre città dei rom. Esclusione dalla vista, criminalizzazione della povertà, sanzioni per i lavavetri, decoro urbano con pulizie etniche....
Sappiamo che si tratta di gravissimi abusi simili a quelli che il nazismo fece subire ai rom negli anni trenta, abusi possibili perchè trattasi di un popolo senza voce fino al punto di essere dimenticato dalla giornata della memoria dell'olocausto nella quale non sono neppure menzionati (legge 211 del 2000). Eppure furono uccisi oltre seicentomila tra rom e sinti!!
Considerato la inconcludenza del Ministero della Solidarietà Sociale e l'ostilita dei sindaci leghisti e PD
penso c he si potrebbe trovare una soluzione, uno strumento nella istituzione di un Alto Commissariato per i Rom con il compito di organizzarne ed amministrarne la presenza in Italia.
Il Commissariato potrebbe essere dotato delle risorse messe a disposizione della Unione Europea, del Fondo ONU e del Governo italiano e dovrebbe agire per evitare i traumi dei continui trasferimenti forzosi imposti a varie comunità e del crescente razzismo che attorno a queste drammatiche vicende si sta creando. Dovrebbe realizzare un progetto di sistemazione delle comunità rom:
Il problema ROM deve essere affrontato a cominciare dal dare una voce a questo sventurato popolo, e bisognerebbe creare istituzioni sociali e culturali. L'Italia può gestire agevolmente un progetto del genere, farne un progetto esemplare, la risposta umanitaria civile ed economicamente produttiva ad un problema che rischia di squalificarci come popolo xenofobo che per evitare la vergogna delle favelas le demolisce senza porsi il problema degli esseri umani che li abitano.
Pietro Ancona
società umanitaria "venti ottobre"
Palermo
chiudere la rai tav
gridare allo scandalo mostrandosi sorpresi per quanto è venuto alla luce dalla sentina Rai è del tutto ipocrita. La sinistra alla Rai (debbo continuare a chiamare sinistra o si offende?) si è preoccupata soltanto di ritagliare la sua parte di fetta consistente in grande parte in assunzioni e forse appalti. Per il resto ha partecipato al banchetto generale prima con la DC e poi con la destra. Trenta anni di complicità: non si è mai permesso ad un solo giornalista senza tessera di partito di accedervi! Sono stati immessi soltanto i fedelissimi dei partiti, anzi dei politici in quel dato momento più forti. Oer molti anni gli accordi per le assunzioni venivano trattati direttamente dal PCI e dalla DC. Prima dell'ingresso del PSI al Governo ai socialisti davano soltanto delle bricioline!
La sinistra non si è mai posta il problema della qualità della Rai TV (era migliore di oggi negli anni di dominio DC) e di come si spendono quattro miliardi di lire per dodicimila dipendenti imbottiti di soldi fino alle orecchie.
Quanti direttori e managers mantiene la Rai? C'è da vergognarsi a difendere un simile baraccone succhiasangue unico al mondo con il consiglio di amministrazione presieduto dall'ambiguo Petruccioli più pagato del mondo.
Dobbiamo continuare a mantenere questo circo equestre per permettere ad una ventina di nevrotici proprietari dei partiti italiani di esibirsi in tutti i programmi?
Dovremmo avere il coraggio di separare l'Italia da simile tumore maligno! Abolire il canone ed affidare la raitv ad una cooperativa di dipendenti! Vediamo come se la cavano da soli!
Pietro
La sinistra non si è mai posta il problema della qualità della Rai TV (era migliore di oggi negli anni di dominio DC) e di come si spendono quattro miliardi di lire per dodicimila dipendenti imbottiti di soldi fino alle orecchie.
Quanti direttori e managers mantiene la Rai? C'è da vergognarsi a difendere un simile baraccone succhiasangue unico al mondo con il consiglio di amministrazione presieduto dall'ambiguo Petruccioli più pagato del mondo.
Dobbiamo continuare a mantenere questo circo equestre per permettere ad una ventina di nevrotici proprietari dei partiti italiani di esibirsi in tutti i programmi?
Dovremmo avere il coraggio di separare l'Italia da simile tumore maligno! Abolire il canone ed affidare la raitv ad una cooperativa di dipendenti! Vediamo come se la cavano da soli!
Pietro
lettera a Lidia Menapace
Cara Senatrice,
la sua lettera aperta ad Alex Zanotelli ha suscitato in me sentimenti di vera e propria costernazione.
Sono costernato dal richiamo ad una etica di responsabilità che riguarda soltanto la salvezza del governo come se questo fosse il fine ultimo, lo scopo centrale di tutta la nostra azione politica.
Non è cosi. Noi abbiamo responsabilità verso i valori che rappresentiamo in Parlamento e che non sono certamente quelli espressi dal pacchetto sicurezza,
dalla politica estera, dal welfare.
La teoria della riduzione del danno non ha mai portato che al maggior danno per le cose che dovremmo difendere. Ci troveremo sempre difronte ad un danno più grande verso il quale potremmo dire di averlo ridotto ad uno più piccolo ma sempre inaccettabile.
I suoi richiami alla considerazione della industria delle armi e del concetto di difesa nazionale (per le quali, con ragionamento leguleio, ritiene che soltanto la Corte Costituzionale possa dare un risposta) sono arrampicamenti sugli specchi.
La domanda è: che ci stiamo a fare in Afghanistam, una nazione martoriata da sei anni, che l'occidente ha infestato di contractors ed avvelenato con bombe all'uranio? Quale è lo scopo di tanto spargimento di sangue? A quale interesse nazionale italiano corrisponde questa presenza?
Sono desolato nel constatare come lo scopo di tenere in piedi il governo Prodi sia maggiore di tutte le cose alle quale abbiamo detto di credere.
D'altro canto noto che nessuna iniziativa viene assunta dal gruppo e nel governo. L'azione di contrasto alla xenofobia è inesistente (ferrero è andato a festeggiare con Zanonato la deportazione degli abitanti di via anelli) e su tutti gli altri campi. I socialisti francesi si accingono a presentare una legge di difesa dei salari. Voi avete pensato di ripristinare un minimo di scala mobile per i lavoratori ed i pensionati ridotti in miseria? Avete pensato ad una legge per il salario minimo garantito per evitare che lavoratori vengano pagati a tre euro l'ora come nei cantieri navalmeccanici di genova e dappertutto?
A che serve tenere in piedi Prodi ed il baraccone di centodue governanti ( uno ogni cinque deputati dell'Unione)?
Infine le avevo mandato copia della mia denunzia alla Procura della Repubblica di Milano sull'oltraggiosa trasmissione riguardante i bambini rom. Ha risposto con il silenzio.
Anche questo fa parte della linea di salvaguardia del governo Prodi e dell'etica della responsabilità?
Pietro Ancona
Memento: bambino uranizzato
la sua lettera aperta ad Alex Zanotelli ha suscitato in me sentimenti di vera e propria costernazione.
Sono costernato dal richiamo ad una etica di responsabilità che riguarda soltanto la salvezza del governo come se questo fosse il fine ultimo, lo scopo centrale di tutta la nostra azione politica.
Non è cosi. Noi abbiamo responsabilità verso i valori che rappresentiamo in Parlamento e che non sono certamente quelli espressi dal pacchetto sicurezza,
dalla politica estera, dal welfare.
La teoria della riduzione del danno non ha mai portato che al maggior danno per le cose che dovremmo difendere. Ci troveremo sempre difronte ad un danno più grande verso il quale potremmo dire di averlo ridotto ad uno più piccolo ma sempre inaccettabile.
I suoi richiami alla considerazione della industria delle armi e del concetto di difesa nazionale (per le quali, con ragionamento leguleio, ritiene che soltanto la Corte Costituzionale possa dare un risposta) sono arrampicamenti sugli specchi.
La domanda è: che ci stiamo a fare in Afghanistam, una nazione martoriata da sei anni, che l'occidente ha infestato di contractors ed avvelenato con bombe all'uranio? Quale è lo scopo di tanto spargimento di sangue? A quale interesse nazionale italiano corrisponde questa presenza?
Sono desolato nel constatare come lo scopo di tenere in piedi il governo Prodi sia maggiore di tutte le cose alle quale abbiamo detto di credere.
D'altro canto noto che nessuna iniziativa viene assunta dal gruppo e nel governo. L'azione di contrasto alla xenofobia è inesistente (ferrero è andato a festeggiare con Zanonato la deportazione degli abitanti di via anelli) e su tutti gli altri campi. I socialisti francesi si accingono a presentare una legge di difesa dei salari. Voi avete pensato di ripristinare un minimo di scala mobile per i lavoratori ed i pensionati ridotti in miseria? Avete pensato ad una legge per il salario minimo garantito per evitare che lavoratori vengano pagati a tre euro l'ora come nei cantieri navalmeccanici di genova e dappertutto?
A che serve tenere in piedi Prodi ed il baraccone di centodue governanti ( uno ogni cinque deputati dell'Unione)?
Infine le avevo mandato copia della mia denunzia alla Procura della Repubblica di Milano sull'oltraggiosa trasmissione riguardante i bambini rom. Ha risposto con il silenzio.
Anche questo fa parte della linea di salvaguardia del governo Prodi e dell'etica della responsabilità?
Pietro Ancona
Memento: bambino uranizzato
martedì 20 novembre 2007
bassi salari con complicità sindacali
Il centro studi della CGIL produce uno studio per mettere per iscritto quello che tutti sappiamo: i salari italiani sono stati erosi considerevolmente nel corso degli ultimi cinque anni e sono in coda ai salari dei Paesi industrializzati.
Se l'Ires volesse fare uno studio sui nuovi salari creatisi nello stesso periodo si accorgerebbe che sono di gran lunga inferiori a quelli presi in esame. Ciò a causa della aumentata capacità di ricatto delle aziende introdotta nelle relazioni industriali dal pacchetto treu e dalla legge maroni (entrambi accettate dai sindacati confederali).
La CGIL non è il centro studi del Governo e della Confindustria. Non dovrebbe limitarsi a lanciare gridolini di raccapriccio a fronte del quadro presentatogli dall'Ires. Dovrebbe agire.
In effetti sta agendo: le piattaforme rivendicative presentate da tutte le categorie in lotta per i rinnovi contrattuali non superano i settanta ottanta euro netti mensili. In sostanza, il loro accoglimento non modificherà la condizione del salario dal momento che si tratta di due o tre euro al giorno che saranno subito mangiati dall'inflazione strisciante ed onnipresente. Insomma, come dire: Vedete quanto siamo responsabili? Ci accontentiamo di bricioline come i passerotti d'inverno!!
Come si conciliano queste piattaforme rivendicative con la drammatica condizione salariale dei lavoratori?
Non si conciliano. Bisognerebbe chiedere almeno il triplo di quanto è stato rivendicato e saremo sempre i fanalini di coda del salario europeo.
All'indomani di questo annunzio dell'Ires CGIL, dopo avere constatato di essere in fondo al pozzo, la CGIL si accinge a mettere mano sulla struttura normativa di difesa della condizione del lavoro subalterno: i ccnl. Non saranno subito smantellati ma si darà un colpo quasi mortale alla loro funzione nazionale.
L'Italia è il Paese di Pulcinella ed Arlecchino. Ora è entrata nella fase della democrazia dei grandi numeri (fasulli ma accreditati dai massmedia con bombardamenti di messaggi continui); sette milioni i voti che Berlusconi vanta contro il Governo Prodi; cinque milioni i voti del referendum sindacale che inchioderà per sempre alla croce della Biagi; tre milioni i voti di Veltroni. Tutti grandi numeri per simulare una democrazia che non c'è più a cominciare dalla democrazia sindacale dove i referendum sono privi di qualsiasi garanzia di trasparenza e veridicità.
Mentre il Francia la classe lavoratrice dopo avere sconfitto Chirac e la sua legge Biagiu mette in crisi il liberismo di Sarkozy con scioperi possenti e difesa ad oltranza dei diritti, in Italia dal 1993 ad oggi abbiamo sindacati che collaborano con il padronato ed i governi per spogliare i lavoratori di tutti i loro diritti.
La prova è nel fatto che l'Italia vanta Sindacati con oltre diecimilioni di associati ed ha i lavoratori ed i pensionati
più poveri d'Europa. Per chi sono possenti i sindacati italiani?Non certo per i loro iscritti.
Credo necessario un Congresso straordinario della CGIL preceduto dal congelamento delle trattative interconfederali con Confindustria e Governo per la riformulazione di una iniziativa che restituisca autonomia e restituisca ai lavoratori italiani la condizione che avevano negli anni settanta quando un metalmeccanico era in grado di mantenere la famiglia, pagare un affitto e magari (con grossi sacrifici) aiutare un figlio a laurearsi.
La CGIL ha rifondata e ricondotta alla sua ispirazione autenticamente riformista: quella che Luciano Lama chiamava della pesca (dura dentro e morbida fuori) e che Fernando Santi riassumeva nelle parole: " gradualità e saggezza nell'azione, intransigenza nei principi". Tra i principi c'è il salario equo atto a garantire dignità al lavoratore ed alla sua famiglia.
Pietro Ancona
segretario cgil sicilia in pensione
già membro del CNEL
=============================
In cinque anni, e cioe' dal 2002 al 2007, ogni lavoratore - con un reddito pari a 24.890 euro - ha perso complessivamente 1.896 euro. Cio' a causa di vari fattori tra cui il ritardo nel rinnovo dei contratti, lo scarto tra inflazione programmata e reale e anche la mancata restituzione del fiscal drag. Lo rileva l'ultima ricerca dell'Ires Cgil, "Salari in difficolta'-Aggiornamento dei dati su salari e produttivita' in Italia e in Europa". Secondo quanto spiegato dal presidente dell'istituto Agostino Megale, "dal 1993 ad oggi, la crescita dei salari e' rimasta sostanzialmente in linea con l'inflazione, senza una crescita reale. Cio' a causa di un'inflazione programmata piu' bassa di quella effettiva, dei ritardi nei rinnovi contrattuali, nella mancata restituzione del fiscal drag, nella scarsa redistribuzione della produttivita'". Nel dettaglio, ha riferito Megale, "il reddito disponibile familiare tra il 2002 e il 2007 registra una perdita di circa 2.600 euro nelle famiglie di operai, a fronte di un guadagno di 12.000 euro per professionisti e imprenditori. Nelle nostre previsioni l'inflazione effettiva a fine 2007 sara' dell'1,9%, contro una crescita dei salari attorno al 2%. Il potere d'acquisto delle retribuzioni di fatto, malgrado le retribuzioni contrattuali siano cresciute di circa un punto oltre l'inflazione, ha perso 0,3 punti in sei anni". Tale perdita, cumulata sulla retribuzione media annua di un lavoratore dipendente al 2007 (25.890 euro), tradotta in euro significa, a prezzi correnti -1.210 euro. Se a questo si aggiunge la perdita derivante dalla mancata restituzione del fiscal drag (686 euro in cinque anni) la perdita secca ammonta quindi a circa 1.900 euro. (AGI) - Roma, 19 nov. -
Se l'Ires volesse fare uno studio sui nuovi salari creatisi nello stesso periodo si accorgerebbe che sono di gran lunga inferiori a quelli presi in esame. Ciò a causa della aumentata capacità di ricatto delle aziende introdotta nelle relazioni industriali dal pacchetto treu e dalla legge maroni (entrambi accettate dai sindacati confederali).
La CGIL non è il centro studi del Governo e della Confindustria. Non dovrebbe limitarsi a lanciare gridolini di raccapriccio a fronte del quadro presentatogli dall'Ires. Dovrebbe agire.
In effetti sta agendo: le piattaforme rivendicative presentate da tutte le categorie in lotta per i rinnovi contrattuali non superano i settanta ottanta euro netti mensili. In sostanza, il loro accoglimento non modificherà la condizione del salario dal momento che si tratta di due o tre euro al giorno che saranno subito mangiati dall'inflazione strisciante ed onnipresente. Insomma, come dire: Vedete quanto siamo responsabili? Ci accontentiamo di bricioline come i passerotti d'inverno!!
Come si conciliano queste piattaforme rivendicative con la drammatica condizione salariale dei lavoratori?
Non si conciliano. Bisognerebbe chiedere almeno il triplo di quanto è stato rivendicato e saremo sempre i fanalini di coda del salario europeo.
All'indomani di questo annunzio dell'Ires CGIL, dopo avere constatato di essere in fondo al pozzo, la CGIL si accinge a mettere mano sulla struttura normativa di difesa della condizione del lavoro subalterno: i ccnl. Non saranno subito smantellati ma si darà un colpo quasi mortale alla loro funzione nazionale.
L'Italia è il Paese di Pulcinella ed Arlecchino. Ora è entrata nella fase della democrazia dei grandi numeri (fasulli ma accreditati dai massmedia con bombardamenti di messaggi continui); sette milioni i voti che Berlusconi vanta contro il Governo Prodi; cinque milioni i voti del referendum sindacale che inchioderà per sempre alla croce della Biagi; tre milioni i voti di Veltroni. Tutti grandi numeri per simulare una democrazia che non c'è più a cominciare dalla democrazia sindacale dove i referendum sono privi di qualsiasi garanzia di trasparenza e veridicità.
Mentre il Francia la classe lavoratrice dopo avere sconfitto Chirac e la sua legge Biagiu mette in crisi il liberismo di Sarkozy con scioperi possenti e difesa ad oltranza dei diritti, in Italia dal 1993 ad oggi abbiamo sindacati che collaborano con il padronato ed i governi per spogliare i lavoratori di tutti i loro diritti.
La prova è nel fatto che l'Italia vanta Sindacati con oltre diecimilioni di associati ed ha i lavoratori ed i pensionati
più poveri d'Europa. Per chi sono possenti i sindacati italiani?Non certo per i loro iscritti.
Credo necessario un Congresso straordinario della CGIL preceduto dal congelamento delle trattative interconfederali con Confindustria e Governo per la riformulazione di una iniziativa che restituisca autonomia e restituisca ai lavoratori italiani la condizione che avevano negli anni settanta quando un metalmeccanico era in grado di mantenere la famiglia, pagare un affitto e magari (con grossi sacrifici) aiutare un figlio a laurearsi.
La CGIL ha rifondata e ricondotta alla sua ispirazione autenticamente riformista: quella che Luciano Lama chiamava della pesca (dura dentro e morbida fuori) e che Fernando Santi riassumeva nelle parole: " gradualità e saggezza nell'azione, intransigenza nei principi". Tra i principi c'è il salario equo atto a garantire dignità al lavoratore ed alla sua famiglia.
Pietro Ancona
segretario cgil sicilia in pensione
già membro del CNEL
=============================
In cinque anni, e cioe' dal 2002 al 2007, ogni lavoratore - con un reddito pari a 24.890 euro - ha perso complessivamente 1.896 euro. Cio' a causa di vari fattori tra cui il ritardo nel rinnovo dei contratti, lo scarto tra inflazione programmata e reale e anche la mancata restituzione del fiscal drag. Lo rileva l'ultima ricerca dell'Ires Cgil, "Salari in difficolta'-Aggiornamento dei dati su salari e produttivita' in Italia e in Europa". Secondo quanto spiegato dal presidente dell'istituto Agostino Megale, "dal 1993 ad oggi, la crescita dei salari e' rimasta sostanzialmente in linea con l'inflazione, senza una crescita reale. Cio' a causa di un'inflazione programmata piu' bassa di quella effettiva, dei ritardi nei rinnovi contrattuali, nella mancata restituzione del fiscal drag, nella scarsa redistribuzione della produttivita'". Nel dettaglio, ha riferito Megale, "il reddito disponibile familiare tra il 2002 e il 2007 registra una perdita di circa 2.600 euro nelle famiglie di operai, a fronte di un guadagno di 12.000 euro per professionisti e imprenditori. Nelle nostre previsioni l'inflazione effettiva a fine 2007 sara' dell'1,9%, contro una crescita dei salari attorno al 2%. Il potere d'acquisto delle retribuzioni di fatto, malgrado le retribuzioni contrattuali siano cresciute di circa un punto oltre l'inflazione, ha perso 0,3 punti in sei anni". Tale perdita, cumulata sulla retribuzione media annua di un lavoratore dipendente al 2007 (25.890 euro), tradotta in euro significa, a prezzi correnti -1.210 euro. Se a questo si aggiunge la perdita derivante dalla mancata restituzione del fiscal drag (686 euro in cinque anni) la perdita secca ammonta quindi a circa 1.900 euro. (AGI) - Roma, 19 nov. -
lunedì 19 novembre 2007
domenica 18 novembre 2007
le nuove piaghe della Chiesa BarbaraSpinelli
Le nuove piaghe della Chiesa - BARBARA SPINELLI
Questa domenica, in un rito celebrato a Novara, sarà proclamato beato Antonio Rosmini, uomo della Chiesa e del Risorgimento, filosofo cristiano e laico convinto, autore di un libro che nel 1849 fu messo all’indice perché indicava le Cinque Piaghe della Santa Chiesa e denunciava con dure parole l’immistione tra potere civile e religioso. Dicono che seppe della condanna mentre scriveva il Commento al Vangelo di Giovanni, e la notizia non lo turbò. Appena un anno prima, Pio IX voleva nominarlo segretario di Stato. «Rimase fermo al suo posto, nel testo non c’è traccia di quel che gli successe», mi dice Bruno Forte, il teologo e arcivescovo di Chieti che una volta ha detto di sé: «Sono un mendicante del cielo, come sognava Jacques Maritain. Sono un uomo che ha un orecchio incollato alla terra per coglierne le germinazioni nascoste e un orecchio in ascolto del cielo. Vivo la fatica di coniugare questi due ascolti». L’episodio di Rosmini che ascolta imperturbato la condanna e sembra avere anche lui due modi di ascoltare e di dire uno veemente che accusa, l’altro che umile si ritrae non semplifica l’esplorazione di quel che oggi è la Chiesa italiana. Ogni organizzazione umana sperimenta i dilemmi, ma nella Chiesa la complexio oppositorum è qualcosa di più: è condizione esistenziale, segreta molla di un durare millenario. Non è semplice, per un laico non vaticanista, raccontare una Chiesa che poche generazioni orsono condannò Rosmini e oggi lo beatifica, che negli stessi anni sospese a divinis padre Curci, fondatore della rivista gesuita Civiltà cattolica, e adesso venera chi prima difese il potere temporale e poi considerò provvidenziale perderlo. Quel che nel magistero è rigido domani può addolcirsi, quel che è ai margini diverrà forse centrale. È poi c’è, negli uomini di Chiesa, la questione eterna della parresia: fin dove avventurarsi, nell’esprimere liberamente ciò in cui si crede? Come coniugare due imperativi santi come verità e obbedienza? Per questo, nell’inchiesta breve cui mi accingo, non citerò tutti i rappresentanti della gerarchia con cui ho parlato. Ho preferito ascoltare la loro parola libera la parresia rispettando l’anonimato. Inoltre restringerò l’esplorazione, perché si può dire poco in qualche articolo. Parlerò dunque di come viene percepita, nella Chiesa, la crisi di un cattolicesimo che è alle prese, tuttora, con la scomparsa della Dc. Un cammino difficilissimo è cominciato da allora, complicato da una società ormai multireligiosa, multiculturale. La Chiesa che ho incontrato alla vigilia della beatificazione di Rosmini è incerta, in piena transizione. Parla molto, ma è anche afasica. Impossibile afferrarla come monolito: a dispetto degli sforzi compiuti da due Pontefici per renderla compatta, non c’è una Chiesa, una gerarchia, una voce che la rispecchi. Neppure sull’etica c’è un’opinione unica, nonostante la morale (i valori non negoziabili) sia vissuta come bussola dei rapporti con lo Stato nell’epoca intranquilla del dopo-Dc. Soprattutto, non c’è un’unica analisi dell’influenza cattolica sulla politica, e la società. L’unica cosa sicura è lo spazio enorme occupato dal tema della laicità: tutti ne sono tormentati, come non accadeva da decenni. Il fervore con cui se ne discute (per contestare un’ingerenza che si concentra oggi su etica della nascita, della famiglia, della morte, o per negare che di ingerenza si tratti) fa pensare ai torbidi dell’800, che in questi giorni saranno rievocati. La laicità, nessuno degli uomini di Chiesa sa dirmi quel che ne pensa, senza aggiungere aggettivi che la stemperano fino a invalidarla: la laicità deve esser sana, si precisa, citando un aggettivo che fu di Pio XII. Comunque non deve essere laicismo, questo male impetuosamente indicato ma di rado spiegato. Eppure la distinzione è semplice: a differenza della laicità, il laicismo non è un metodo ma un’ideologia, che santifica lo Stato e nega che il cristianesimo abbia dimensioni sociali oltre che private. Ma non è il laicismo che spiace alle gerarchie, bensì il metodo rigoroso nel separare Stato e Chiesa. Indispone l’indifferenza e la non confessionalità dello Stato democratico, tacciate ambedue di relativismo. In fondo, i critici della laicità hanno nostalgia di uno Stato etico, che somiglia pochissimo allo Stato minimo cui anelava Rosmini. Non stupisce l’alleanza che vede uniti in questa sete ideologica vescovi conservatori e teo-con di destra o sinistra. Son pochi, coloro che sanno spiegare il versetto di Matteo 22,21: quel «Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» che determina il rapporto cristianesimo-Stato nella storia d’Europa. «La formula è in realtà una scatola vuota», mi dice Gustavo Zagrebelsky, ex presidente della Corte Costituzionale: «perché nessuno può dire cosa si debba dare a Cesare e cosa alla Chiesa». Perché per secoli gli esegeti hanno ritenuto che la distinzione evangelica «implichi la superiorità del versante riservato a Dio (cioè alla Chiesa) su quello riservato a Cesare», scrive in un libro illuminante Giovanni Miccoli (In difesa della Fede - La Chiesa di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, Rizzoli). La vera questione irrisolta, spiega Miccoli, è chi abbia «la competenza delle competenze»: chi decida quel che spetta all’uno o all’altro. Bruno Forte preferisce parlare di «senso dello Stato», più che di laicità. Ma neanche questa parola chiarifica. Se la Chiesa antepone la sua verità sul diritto naturale e il bene morale alle leggi del Parlamento, è chiaro che sarà lei a dire come lo Stato deve legiferare su questioni etiche. Inevitabilmente ci sarà ingerenza anziché separazione costituzionale fra Stato e religione. L’uomo della Chiesa più discusso, nelle conversazioni che ho avuto, è Camillo Ruini: presidente della Conferenza episcopale fino al marzo scorso, ancor oggi presente nella Cei come vicario del Pontefice per la città di Roma. Per alcuni è la persona forte che ha pilotato la Chiesa nel dopo-Dc. Nominato da Giovanni Paolo II, Ruini appare vincente, grazie al peso abnorme che da anni gli attribuiscono i media: ogni suo detto ha l’audience riservata agli statisti. Lui stesso sembra compiacersene. Il 5 novembre, presentando a Milano due suoi libri, ha commentato: «È vero. Sono stato e sono un animale politico». E lo storico Galli della Loggia ha glossato: «La Chiesa ha sempre fatto politica. Non può non fare politica». Nel mio viaggio nella Chiesa ho avuto un'impressione ben più complessa. La Chiesa ha fatto sempre politica, ma sono molti oggi a esser convinti che la via debba essere un’altra, che di nuovo il magistero sia minacciato da una corruzione non finanziaria ma mentale: che il cattolicesimo farebbe bene a de-politicizzarsi radicalmente, come consigliato dallo studioso Jan Assmann che denuncia un’epoca dove i monoteismi non son più oppio ma dinamite dei popoli (Non avrai altro Dio, Mulino). Sono molti a desiderare che i sacerdoti parlino non politicamente, ma profeticamente. La Chiesa non si identifica oggi con Ruini: né quella sacerdotale, né quella dei fedeli. Chi non condivide la politicizzazione il più delle volte tace, ma il dissenso è diffuso (l’80 per cento dei vescovi disapprova il cardinale). «I costi pastorali della politica di Ruini sono stati enormi»: questa la frase ricorrente che sento. Alcuni certo lo difendono. Altri ricordano che sono i due ultimi Papi ad aver voluto l'arroccamento istituzionale. I più sperano nell’uscita dalla Cei del cardinale. Con speranza guardano a Bagnasco, che oggi guida la Cei: l’arcivescovo di Genova non osteggia il predecessore ma sta distanziandosi dalla politica. Si occupa più di attività pastorale, con il consenso di tanti. Tutto sta a vedere cosa sia vittoria e cosa sconfitta, per la Chiesa. E se il potere di Ruini generi autorevolezza. Il cardinale è convinto di sì, lo ha detto con qualche trionfalismo a Aldo Cazzullo, il 4 novembre sul Corriere della Sera. Che la sua strategia sia vincente sarebbe attestato dal referendum del 2005 sulla procreazione artificiale, quando prescrisse l’astensione perché mancasse il quorum, e vinse. Questo spiega il suo odierno appagamento: «Il nostro impegno è stato coronato dal successo, per giunta più largo del previsto. Penso, forse in modo un poco malizioso, che quel che più ha disturbato sia stato proprio questo (...) Constato che quando l’impegno non è coronato da successo, quando la Chiesa "perde" (...) tutto fila liscio. Nel caso contrario (...) riprendono vigore le croniche accuse di interventismo». Colpito, l’intervistatore constata la «riconquista quasi gramsciana dell’egemonia cattolica sulla società». Alla Compagnia di Gesù simili appagamenti sono sgraditi: ottenere il fallimento del referendum non fu vera vittoria, proprio perché fece credere nella perfetta coincidenza tra potere e autorevolezza. L’occasione non fu usata per dire pensieri forti, ma per sommare, furbescamente, l’astensionismo cattolico con il vasto astensionismo non confessionale. Alla rivista Il Regno raccolgo opinioni simili: la riconquista della Chiesa fu autoinganno, la quota di astensioni mobilitata da Ruini non superò il 10-12 per cento. Qui è uno dei costi della Chiesa politicizzata: qui una sua piaga. È la piaga di un magistero che perde autorità, proprio mentre accumula potere. Che si trasforma in lobby, scriveva lo storico Pietro Scoppola. Che si getta nella politica alla stregua d’un partito: mortale come tutti i partiti, episodicamente cruciale come tutti i partiti, dipendente dall’audience come tutti i partiti. Partecipe a pieno titolo della democrazia malata che pretende di combattere. (1-continua)
Questa domenica, in un rito celebrato a Novara, sarà proclamato beato Antonio Rosmini, uomo della Chiesa e del Risorgimento, filosofo cristiano e laico convinto, autore di un libro che nel 1849 fu messo all’indice perché indicava le Cinque Piaghe della Santa Chiesa e denunciava con dure parole l’immistione tra potere civile e religioso. Dicono che seppe della condanna mentre scriveva il Commento al Vangelo di Giovanni, e la notizia non lo turbò. Appena un anno prima, Pio IX voleva nominarlo segretario di Stato. «Rimase fermo al suo posto, nel testo non c’è traccia di quel che gli successe», mi dice Bruno Forte, il teologo e arcivescovo di Chieti che una volta ha detto di sé: «Sono un mendicante del cielo, come sognava Jacques Maritain. Sono un uomo che ha un orecchio incollato alla terra per coglierne le germinazioni nascoste e un orecchio in ascolto del cielo. Vivo la fatica di coniugare questi due ascolti». L’episodio di Rosmini che ascolta imperturbato la condanna e sembra avere anche lui due modi di ascoltare e di dire uno veemente che accusa, l’altro che umile si ritrae non semplifica l’esplorazione di quel che oggi è la Chiesa italiana. Ogni organizzazione umana sperimenta i dilemmi, ma nella Chiesa la complexio oppositorum è qualcosa di più: è condizione esistenziale, segreta molla di un durare millenario. Non è semplice, per un laico non vaticanista, raccontare una Chiesa che poche generazioni orsono condannò Rosmini e oggi lo beatifica, che negli stessi anni sospese a divinis padre Curci, fondatore della rivista gesuita Civiltà cattolica, e adesso venera chi prima difese il potere temporale e poi considerò provvidenziale perderlo. Quel che nel magistero è rigido domani può addolcirsi, quel che è ai margini diverrà forse centrale. È poi c’è, negli uomini di Chiesa, la questione eterna della parresia: fin dove avventurarsi, nell’esprimere liberamente ciò in cui si crede? Come coniugare due imperativi santi come verità e obbedienza? Per questo, nell’inchiesta breve cui mi accingo, non citerò tutti i rappresentanti della gerarchia con cui ho parlato. Ho preferito ascoltare la loro parola libera la parresia rispettando l’anonimato. Inoltre restringerò l’esplorazione, perché si può dire poco in qualche articolo. Parlerò dunque di come viene percepita, nella Chiesa, la crisi di un cattolicesimo che è alle prese, tuttora, con la scomparsa della Dc. Un cammino difficilissimo è cominciato da allora, complicato da una società ormai multireligiosa, multiculturale. La Chiesa che ho incontrato alla vigilia della beatificazione di Rosmini è incerta, in piena transizione. Parla molto, ma è anche afasica. Impossibile afferrarla come monolito: a dispetto degli sforzi compiuti da due Pontefici per renderla compatta, non c’è una Chiesa, una gerarchia, una voce che la rispecchi. Neppure sull’etica c’è un’opinione unica, nonostante la morale (i valori non negoziabili) sia vissuta come bussola dei rapporti con lo Stato nell’epoca intranquilla del dopo-Dc. Soprattutto, non c’è un’unica analisi dell’influenza cattolica sulla politica, e la società. L’unica cosa sicura è lo spazio enorme occupato dal tema della laicità: tutti ne sono tormentati, come non accadeva da decenni. Il fervore con cui se ne discute (per contestare un’ingerenza che si concentra oggi su etica della nascita, della famiglia, della morte, o per negare che di ingerenza si tratti) fa pensare ai torbidi dell’800, che in questi giorni saranno rievocati. La laicità, nessuno degli uomini di Chiesa sa dirmi quel che ne pensa, senza aggiungere aggettivi che la stemperano fino a invalidarla: la laicità deve esser sana, si precisa, citando un aggettivo che fu di Pio XII. Comunque non deve essere laicismo, questo male impetuosamente indicato ma di rado spiegato. Eppure la distinzione è semplice: a differenza della laicità, il laicismo non è un metodo ma un’ideologia, che santifica lo Stato e nega che il cristianesimo abbia dimensioni sociali oltre che private. Ma non è il laicismo che spiace alle gerarchie, bensì il metodo rigoroso nel separare Stato e Chiesa. Indispone l’indifferenza e la non confessionalità dello Stato democratico, tacciate ambedue di relativismo. In fondo, i critici della laicità hanno nostalgia di uno Stato etico, che somiglia pochissimo allo Stato minimo cui anelava Rosmini. Non stupisce l’alleanza che vede uniti in questa sete ideologica vescovi conservatori e teo-con di destra o sinistra. Son pochi, coloro che sanno spiegare il versetto di Matteo 22,21: quel «Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» che determina il rapporto cristianesimo-Stato nella storia d’Europa. «La formula è in realtà una scatola vuota», mi dice Gustavo Zagrebelsky, ex presidente della Corte Costituzionale: «perché nessuno può dire cosa si debba dare a Cesare e cosa alla Chiesa». Perché per secoli gli esegeti hanno ritenuto che la distinzione evangelica «implichi la superiorità del versante riservato a Dio (cioè alla Chiesa) su quello riservato a Cesare», scrive in un libro illuminante Giovanni Miccoli (In difesa della Fede - La Chiesa di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, Rizzoli). La vera questione irrisolta, spiega Miccoli, è chi abbia «la competenza delle competenze»: chi decida quel che spetta all’uno o all’altro. Bruno Forte preferisce parlare di «senso dello Stato», più che di laicità. Ma neanche questa parola chiarifica. Se la Chiesa antepone la sua verità sul diritto naturale e il bene morale alle leggi del Parlamento, è chiaro che sarà lei a dire come lo Stato deve legiferare su questioni etiche. Inevitabilmente ci sarà ingerenza anziché separazione costituzionale fra Stato e religione. L’uomo della Chiesa più discusso, nelle conversazioni che ho avuto, è Camillo Ruini: presidente della Conferenza episcopale fino al marzo scorso, ancor oggi presente nella Cei come vicario del Pontefice per la città di Roma. Per alcuni è la persona forte che ha pilotato la Chiesa nel dopo-Dc. Nominato da Giovanni Paolo II, Ruini appare vincente, grazie al peso abnorme che da anni gli attribuiscono i media: ogni suo detto ha l’audience riservata agli statisti. Lui stesso sembra compiacersene. Il 5 novembre, presentando a Milano due suoi libri, ha commentato: «È vero. Sono stato e sono un animale politico». E lo storico Galli della Loggia ha glossato: «La Chiesa ha sempre fatto politica. Non può non fare politica». Nel mio viaggio nella Chiesa ho avuto un'impressione ben più complessa. La Chiesa ha fatto sempre politica, ma sono molti oggi a esser convinti che la via debba essere un’altra, che di nuovo il magistero sia minacciato da una corruzione non finanziaria ma mentale: che il cattolicesimo farebbe bene a de-politicizzarsi radicalmente, come consigliato dallo studioso Jan Assmann che denuncia un’epoca dove i monoteismi non son più oppio ma dinamite dei popoli (Non avrai altro Dio, Mulino). Sono molti a desiderare che i sacerdoti parlino non politicamente, ma profeticamente. La Chiesa non si identifica oggi con Ruini: né quella sacerdotale, né quella dei fedeli. Chi non condivide la politicizzazione il più delle volte tace, ma il dissenso è diffuso (l’80 per cento dei vescovi disapprova il cardinale). «I costi pastorali della politica di Ruini sono stati enormi»: questa la frase ricorrente che sento. Alcuni certo lo difendono. Altri ricordano che sono i due ultimi Papi ad aver voluto l'arroccamento istituzionale. I più sperano nell’uscita dalla Cei del cardinale. Con speranza guardano a Bagnasco, che oggi guida la Cei: l’arcivescovo di Genova non osteggia il predecessore ma sta distanziandosi dalla politica. Si occupa più di attività pastorale, con il consenso di tanti. Tutto sta a vedere cosa sia vittoria e cosa sconfitta, per la Chiesa. E se il potere di Ruini generi autorevolezza. Il cardinale è convinto di sì, lo ha detto con qualche trionfalismo a Aldo Cazzullo, il 4 novembre sul Corriere della Sera. Che la sua strategia sia vincente sarebbe attestato dal referendum del 2005 sulla procreazione artificiale, quando prescrisse l’astensione perché mancasse il quorum, e vinse. Questo spiega il suo odierno appagamento: «Il nostro impegno è stato coronato dal successo, per giunta più largo del previsto. Penso, forse in modo un poco malizioso, che quel che più ha disturbato sia stato proprio questo (...) Constato che quando l’impegno non è coronato da successo, quando la Chiesa "perde" (...) tutto fila liscio. Nel caso contrario (...) riprendono vigore le croniche accuse di interventismo». Colpito, l’intervistatore constata la «riconquista quasi gramsciana dell’egemonia cattolica sulla società». Alla Compagnia di Gesù simili appagamenti sono sgraditi: ottenere il fallimento del referendum non fu vera vittoria, proprio perché fece credere nella perfetta coincidenza tra potere e autorevolezza. L’occasione non fu usata per dire pensieri forti, ma per sommare, furbescamente, l’astensionismo cattolico con il vasto astensionismo non confessionale. Alla rivista Il Regno raccolgo opinioni simili: la riconquista della Chiesa fu autoinganno, la quota di astensioni mobilitata da Ruini non superò il 10-12 per cento. Qui è uno dei costi della Chiesa politicizzata: qui una sua piaga. È la piaga di un magistero che perde autorità, proprio mentre accumula potere. Che si trasforma in lobby, scriveva lo storico Pietro Scoppola. Che si getta nella politica alla stregua d’un partito: mortale come tutti i partiti, episodicamente cruciale come tutti i partiti, dipendente dall’audience come tutti i partiti. Partecipe a pieno titolo della democrazia malata che pretende di combattere. (1-continua)
class action di Furio Colombo
Editoriale
Classe e azione di classe
Furio ColomboNon sempre la classe è un principio marxista. Per esempio nel diritto americano la parola classe serve a identificare un gruppo - a volte vastissimo - di cittadini che sono stati colpiti da una stessa ingiustizia o danno o negazione di diritto, da parte di un’unica parte ritenuta colpevole. La legge e la pratica dei tribunali americani ammettono tutti quei cittadini a partecipare alla causa non nel senso che ciascuno dovrà presentarsi in tribunale con un suo avvocato, ma perché, una volta dichiarata colpevole e responsabile la parte che ha causato il danno o violato il diritto, tutti coloro che quel danno o quella violazione hanno subito, beneficeranno dell’esito favorevole del processo.Ora, con un emendamento molto discusso, molto denigrato, però approvato l’altro ieri dal Senato, la «class action» o azione di classe, entra anche nel diritto italiano. Per capire la portata civile e democratica di un simile cambiamento della legge, potrà essere utile leggere - o rileggere - il bel libro-documento di Felice Casson «La fabbrica dei veleni. Storie e segreti di Porto Marghera» (Sperling & Kupfer).Casson è stato l’implacabile e appassionato pubblico ministero di quel processo: 157 morti, 120 discariche abusive, 5 milioni di metri cubi di discariche tossiche. Tutto ciò a opera del Petrolchimico di Porto Marghera, difeso tenacemente dal patto di silenzio sottoscritto dalle maggiori industrie chimiche mondiali per tenere segreta la pericolosità estrema del cloruro di vinile. Tutto in questo libro esemplare dimostra che, a parte pochi eroi, dal medico della fabbrica al pubblico accusatore, la tragedia delle vittime è stata una storia di isolamento e di solitudine all’interno di un territorio avvelenato ben presidiato da chi non voleva responsabilità o grane. A quel tempo, in Italia, la «class action» non c’era. Ora c’è. Da un giorno.Il Presidente della Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, senza sorridere, ha definito ieri la “class action” approvata al Senato tra le urla, l’ira, (in un caso persino il pianto) dei senatori di Forza Italia, una «legge all’amatriciana».Immagino che la maggior parte dei cittadini sia stata colta di sorpresa dal viso cupo dell’imprenditore capo. E si sia posta la domanda: che cosa è la “class action” e perché dovrebbe spingere alla indignazione il rappresentante delle imprese italiane?Chi ha deciso di battersi per l’introduzione della “class action” nei codici italiani (il senatore Manzione dell’Unione) lo ha fatto in un momento favorevole dal punto di vista di ciò che un po’ tutti sappiamo. Infatti possiamo arrivare senza linguaggio giuridico e senza molte complicazioni a capire di che cosa si tratta. Basta ricordare tre film popolari per la maggioranza del pubblico. Li elenco in ordine di date: «Erin Brockovich», protagonista Julia Roberts, storia di una lunga e vittoriosa battaglia, prima di un individuo e poi di una “classe” contro una potente azienda che inquina intere comunità con il deposito clandestino delle sue scorie; «Sicko» di e con Michael Moore, che racconta la spaventosa ingiustizia e prevaricazione delle compagnie di assicurazione contro i malati disperati e soli che credevano di essere protetti, e spiega che solo con una “azione di classe” si può sperare di vincere una causa contro quei potentati; e, in questi giorni, il bel film «Michael Clayton» in cui George Clooney, uno degli attori-registi più impegnati nel suo Paese, racconta di un avvocato ricco e maneggione che si stanca di vincere sempre le sue remuneratissime cause difendendo grandi aziende contro isolati cittadini, spinge quegli isolati cittadini a presentarsi insieme al processo (decine, centinaia, migliaia di cittadini danneggiati che da soli non ce la farebbero mai), dimostra che la “azione di classe” è la sola speranza di vincere.È impossibile che Montezemolo non vada al cinema da dieci anni, e improbabile che consideri tre grandi storie processuali americane (tutte tratte da fatti veri) “all’amatriciana” cioè improvvisati, casalinghi e dunque - di fronte alla maestà delle leggi e alle esigenze del rigore giuridico- spregevoli.C’è un dato di meraviglia in più, in questo retrovia della vita giuridica e di quella parlamentare italiana. Il dato è che Montezemolo, che è avvocato in Italia, ha anche completato i suoi studi giuridici negli Stati Uniti. E dunque, nonostante l’insolito tono da capo-popolo (il popolo di molti suoi imprenditori, ma non dei migliori) che ha scelto di assumere, sa benissimo che cosa è, nella pratica giurisprudenziale americana , la “azione di classe”. Vuol dire che tutti coloro che possono dimostrare di essere parte lesa o danneggiata dalla azione di uno, tipicamente un’azienda responsabile di diffusione di massa di prodotti o iniziative pericolose, possono diventare istantaneamente, tutti insieme, controparte della causa. È uno dei momenti più alti e nitidi della democrazia americana. Là dove qualcuno, da solo, non conta niente e non può avere giustizia, “l’azione di classe” porta equilibrio di forze, dunque avvicina alla giustizia.Tutto ciò ci aiuta a capire che quando si dice, sia pure nell’ermetico linguaggio giuridico “azione di classe” la parola chiave non è nella parola Classe, che può provocare prontamente, e magari anche inconsciamente, rigurgiti ideologici. La parola è Democrazia. È la constatazione realistica che, in un dato confronto giudiziario, la dimensione, la potenza, la capacità di combattere di una corporation è immensamente più grande di quella di un individuo che - da solo - intenda far valere i suoi diritti negati o violati contro il gigante. La Democrazia è realista e sa che c’è differenza tra ricchi e poveri, tra grandi e piccoli e conosce pregi e limiti della sua azione fondata sui diritti alla pari. Ma poiché il pregio più grande della Democrazia è puntare sull’individuo e dotare ciascun individuo, anche il meno potente, della pienezza dei suoi diritti, ha permesso che si formasse nel diritto, nella giurisprudenza, qualcosa che si chiama “azione di classe” e che vuol dire: molte persone il cui stesso diritto è stato violato sono autorizzate ad agire insieme senza costringere ciascuno a costituirsi separatamente parte del processo con spese e avvocati.Un altro esempio. Ricordate quando Alberto Asor Rosa ha cercato di opporsi alla devastazione della sua valle in Toscana a causa della costruzione di centinaia di case a schiera insediate, con autorizzazione inclusa, da una grande impresa molto sensibile al bilancio e poco alla vallata? Nonostante il suo nome illustre, Asor Rosa era solo e senza la poderosa batteria di avvocati del costruttore. Una “azione di classe” avrebbe forse fermato lo scempio. Torniamo per un momento all’origine della “class action” italiana che è diventata - nella legge finanziaria approvata dal Senato due giorni fa - “l’emendamento Manzione”. Origina dalle iniziative del ministro Bersani che dice: «il consumatore (ma qui sarebbe meglio dire “il cittadino” n.d.r.) non può essere lasciato solo davanti a un torto».Torniamo all’obiezione detta e ripetuta: «che cosa c’entra l’azione di classe con la legge Finanziaria?». Qui la risposta viene ancora una volta dal buon senso americano. Proprio in questi giorni il Presidente Bush sta cercando di arginare le molte materie che deputati e senatori sono impegnati a inserire nella loro legge di bilancio, a volte perché quei provvedimenti sono necessari al Paese e non possono aspettare un altro veicolo legislativo, a volte perché la polarizzazione politica dei voti, che è tipica della legge di bilancio, rende più facile evitare lo sfarinamento fra troppi “distinguo” del consenso. A volte, anche, per rispondere all’impazienza degli elettori. E per la convenienza di tagliare i tempi. I nostri colleghi del Senato e della Camera americana le chiamano “leggi omnibus”, treni veloci con alcuni vagoni aggiunti, espediente per far viaggiare in fretta materiali legislativi di varia natura.Bush vede il problema del passaggio in massa di varie leggi impaccate in una. Si oppone accanitamente non per amor di Patria o di buona pratica legislativa, ma perché in tal modo troppe cose sfuggono al suo controllo, ai suoi posti di blocco politici. Il congresso non è amico del Presidente e questo spiega lo stato di tensione.In Italia, Repubblica parlamentare, la tensione è interna al Senato che ha un minimo margine di consenso. Non solo l’opposizione perde se la legge viene approvata nonostante le grottesche denigrazioni. L’opposizione perde se la Finanziaria comprende norme moderne e necessarie che innovano, perché in tal modo si arricchisce il pacchetto di cose ben fatte del governo e si indebolisce la catastrofica profezia dell’opposizione, battuta due volte: non è crollato niente. E si è costruito qualcosa.Ma perché allora l’invettiva così curiosamente impropria di un presidente di Confindustria avvocato e, per giunta, avvocato internazionale? Perché usare con linguaggio generico, approssimativo, di colore (più adatto a un personaggio tipo Billè, già presidente dei commercianti, se lo ricordate) per un emendamento ispirato a un principio noto e adottato nel mondo? Una risposta la offre un illustre giurista, Carlo Federico Grosso: «le imprese non ci stanno perché oggi sono favorite» ovvero privilegiate. Infatti, spiega Grosso, «la situazione attuale italiana è tutta sbilanciata a favore delle imprese. Con la “class action”, Parmalat sarebbe stata un’altra cosa e lo sarebbero stati il caso Cirio e il caso Banca 121. La difesa del cittadino-consumatore è un interesse chiave da riconoscere fino in fondo» (la Repubblica, 17 novembre). Ma - come dimostrano i casi americani narrati dai film «Erin Brokovich», «Sicko», «Michael Clayton» (e anche, perché dimenticarlo, il bellissimo «Insider», in cui i cittadini sono ingannati non solo dal produttore di sigarette ma anche dai media più potenti, che censurano notizie varie e gravi in cambio di pubblicità) spesso non si tratta solo di salvare i diritti ma di salvare la vita. Ma su questo punto è interessante sfogliare il Sole 24 ore , il giorno dopo la nascita della “class action” in Italia.Il quotidiano della Confindustria apre in prima pagina (abbastanza in piccolo) con un parere negativo illustre (ma non più illustre del parere a favore espresso con entusiasmo da Carlo Federico Grosso). E poi dedica all’argomento tutta pagina 7, con tanti interventi critici ma circostanziati, limitati a dettagli, e solo un colonnino di 30 righe per “l’amatriciana” di Montezemolo.Interessante anche il fatto che il confronto fra l’ “emendamento Manzione” e altre leggi di Paesi industriali democratici, nella pagina de il Sole 24 ore, non include gli Stati Uniti, dove questo importante principio democratico è nato, forse per evitare di far notare che la soluzione italiana - pur incompleta - è vicina alla giurisprudenza americana più di ogni legislazione europea, inclusa la legge inglese.Incompleta, la “class action” italiana, lo è tuttavia quanto alla definizione chiara, definitiva, inequivoca, di chi ha diritto di partecipare, in modo da rendere ben visibile il passaggio da “tutela del consumatore” (riunito in associazioni che richiedono precisa e riconosciuta identificazione) a “tutela del cittadino”. E qui che si rivela, in tutta la sua portata umana e civile, la diversità di questa legislatura, di questo governo e di questo modo di rappresentare i cittadini. Una buona strada è iniziata e si poteva salutare in modo più cordiale. colombo_f@posta.senato.it
Pubblicato il 18.11.07
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venerdì 16 novembre 2007
ventuno spari ad altezza d'uomo
Accidentalmente», spari ad altezza d'uomo
Gli ultimi 21 «errori» letali che non hanno fatto notizia
Dario Stefano Dell'Aquila
L'unico, tra gli esponenti istituzionali, a porre il problema è stato il presidente della camera Fausto Bertinotti. «L'uso delle armi da fuoco deve essere diversamente sorvegliata - ha detto al Gr Parlamento commentando la morte di Gabriele Sandri -. In base alla dinamica dei fatti che conosco ritengo incomprensibile che si sia potuto utilizzare un'arma da fuoco. Le armi non devono essere utilizzate se non in condizioni estreme. Con tutta la partecipazione umana anche per il poliziotto coinvolto, non è ammissibile che avvengano casi come questo».Il dibattito ha preso invece un'altra via, quella delle problematiche relative alle tifoserie e alle trasferte. Forse perché, nonostante l'attualità del tema, quello dell'uso delle armi da parte delle forze dell'ordine rimane ancora un tabù. Tanto è vero che non si dispone nemmeno di dati ufficiali su cui provare a ragionare.Nel 1986 Luca Rossi, studente milanese, viene ucciso da un colpo di pistola partito, accidentalmente, dalla pistola di un agente della Digos. Gli amici di Luca Rossi fondano un centro di iniziativa politica provando a ragionare sul loro dolore. Si interrogano su quanti siano i morti e i feriti per mano delle forze dell'ordine dalla introduzione della legge Reale, la norma approvata nel 1975 che ha aumentato i poteri delle forze di polizia. Dai loro dati, che arrivano al 1989, basati sulle notizie di stampa, emerge che tra i morti (254) e i feriti (371) si arriva al numero di 625 persone. Pubblicano questi dati in un libro dal titolo «625 Libro bianco sulla Legge Reale - Ricerca sui casi di uccisione e ferimento da legge Reale». E chiamano a discuterne alcuni intellettuali tra cui Franco Fortini. Purtroppo, il loro lavoro si è fermato ad alcuni anni fa. Visto che dati recenti non c'erano, abbiamo deciso di produrli noi, con un criterio ancora più selettivo. Abbiamo esaminato solo i casi avvenuti durante un controllo o un fermo di polizia, non abbiamo preso in esame cioè né i casi di conflitto a fuoco con altre persone armate né il caso di Carlo Giuliani. Dal 1998 ad oggi, emerge che sono almeno 18 le persone uccise da un colpo di pistola esploso «accidentalmente». A questi casi, si potrebbero aggiungere altri 3 episodi, in cui la vittima è stata soffocata (2) o si è «gettata» dalla finestra (1). Caratteristica comune di questi casi è che la versione ufficiale ha sempre un avverbio, un «accidentalmente», alla base della ricostruzione ufficiale.Nell'elenco non manca nessuno corpo delle forze dell'ordine, dai carabinieri alla polizia, dalla guardia di finanza alla polizia penitenziaria, dai vigili urbani al corpo della guardia forestale. Quello che segue è una breve panoramica dei casi più recenti.Solo quest'anno sono tre gli episodi. Il 4 luglio 2007 Susanna Venturini, 51 anni, incensurata, madre di tre figli, muore in un'area di servizio nel veronese. Scoperta durante un tentativo di estorsione fugge e viene uccisa, in auto, dal colpo di pistola di un carabiniere. L'otto settembre è la volta di una donna rumena, in fuga dopo aver rubato 300 euro ad un supermercato di Ivrea. L'auto su cui viaggia non si ferma all'alt dei carabinieri. Il ventotto ottobre a Somma Vesuviana, nel napoletano, muore Pasquale Guadagno, 20 anni. Viaggia su un'auto che non si ferma all'alt dei carabinieri. Dopo un lungo inseguimento, viene ucciso da un colpo esploso da una pistola. Nel 2006 un cittadino nomade di 51 anni, Giuseppe Laforè, viene ucciso dopo un inseguimento dei carabinieri, a Piasco, sulla strada tra Saluzzo e Cuneo. La vittima, accanto al guidatore, viaggiava su una vettura che, secondo una prima ricostruzione, non si sarebbe fermata a un posto di blocco, viene uccisa dal colpo di pistola partito «accidentalmente».Nel 2005, nel giro di tre mesi, muoiono due immigrati. A Milano un giovane tunisino, 26 anni, muore dopo che, durante una colluttazione, è colpito da un colpo di pistola accidentalmente partito dalla pistola di un agente della Guardia di Finanza. A Torino, cambiano nazionalità della vittima, a perdere la vita è un senegalese, e la divisa di chi ha sparato è quella di un agente di polizia. Rimane l'«accidentalmente» per l'omicidio avvenuto questa volta durante un normale controllo. Un immigrato nigeriano, a Torino, invece si getta da una finestra durante un controllo di polizia. Molto conosciuto il caso di Federico Aldrovandi che muore a Mantova durante un fermo. In questi due casi non vi è l'uso di armi da fuoco.Molte di queste tragedie non hanno fatto notizia: sono state confinate nelle brevi di cronaca o nelle pagine dei quotidiani locali. È il caso, ad esempio, di Domenico Palumbo 30 anni, soffocato, il 31 ottobre 2004, durante un fermo effettuato da tre agenti di polizia penitenziaria di fronte la sede della loro scuola di polizia. Oppure come il caso di Gregorio Fichera che muore a diciotto anni, mentre, a Catania, è alla guida di un auto rubata. Il colpo di pistola è di un appuntato dei carabinieri. A Brescia, invece, Stefano Cabiddu muore mentre è sul bordo del fiume Mella in compagnia dei suoi fratelli. «Un doloroso incidente», lo definisce il procuratore capo di Brescia Giancarlo Tarquini. È giugno 2003, quando ad Arzano vicino Napoli, Mohamed Kadiatou Cisse viene ucciso nell'abitazione della sorella. È a letto, soffre di una forte depressione. La famiglia ha chiamato il 118, ma arrivano i carabinieri. La sua morte si dimentica in due giorni, mentre i familiari ancora si battono per avere giustizia, o almeno la verità.A Gorizia Bostian Brecelj, di 30 anni, è ferito con un colpo di pistola alla testa sparato - «accidentalmente», secondo la ricostruzione degli stessi carabinieri - durante una colluttazione avvenuta dopo un lungo inseguimento. Sempre dopo un lungo inseguimento, questa volta a Bari, trova la morte Michele Ditrani, 47 anni. Anche qui a sparare la pistola di un carabiniere. A Padova (2002) Nunzio Albanese, sospettato di far parte di una banda che ruba camion, viene ucciso in un'area di servizio, da una sventagliata di una mitraglietta il cui portatore, un carabiniere, scivola accidentalmente. Infine, ecco l'unico caso che ha avuto una certa attenzione dei media, prima di cadere nel dimenticatoio. Siamo a Napoli. È il 21 settembre 2000. Mario Castellano ha solo 17 anni e come tanti gira in motorino senza casco. Non si ferma all'alt dell'agente di polizia Tommaso Leone. Il poliziotto si volta e spara o, se preferite, inciampa e accidentalmente parte un colpo. Mario Castellano muore con un polmone bucato. Tommaso Leone viene condannato definitivamente (dopo che la Cassazione annulla il processo di secondo grado in cui era stato assolto), nel 2005, a dieci anni con l'accusa di omicidio volontario.
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Gli ultimi 21 «errori» letali che non hanno fatto notizia
Dario Stefano Dell'Aquila
L'unico, tra gli esponenti istituzionali, a porre il problema è stato il presidente della camera Fausto Bertinotti. «L'uso delle armi da fuoco deve essere diversamente sorvegliata - ha detto al Gr Parlamento commentando la morte di Gabriele Sandri -. In base alla dinamica dei fatti che conosco ritengo incomprensibile che si sia potuto utilizzare un'arma da fuoco. Le armi non devono essere utilizzate se non in condizioni estreme. Con tutta la partecipazione umana anche per il poliziotto coinvolto, non è ammissibile che avvengano casi come questo».Il dibattito ha preso invece un'altra via, quella delle problematiche relative alle tifoserie e alle trasferte. Forse perché, nonostante l'attualità del tema, quello dell'uso delle armi da parte delle forze dell'ordine rimane ancora un tabù. Tanto è vero che non si dispone nemmeno di dati ufficiali su cui provare a ragionare.Nel 1986 Luca Rossi, studente milanese, viene ucciso da un colpo di pistola partito, accidentalmente, dalla pistola di un agente della Digos. Gli amici di Luca Rossi fondano un centro di iniziativa politica provando a ragionare sul loro dolore. Si interrogano su quanti siano i morti e i feriti per mano delle forze dell'ordine dalla introduzione della legge Reale, la norma approvata nel 1975 che ha aumentato i poteri delle forze di polizia. Dai loro dati, che arrivano al 1989, basati sulle notizie di stampa, emerge che tra i morti (254) e i feriti (371) si arriva al numero di 625 persone. Pubblicano questi dati in un libro dal titolo «625 Libro bianco sulla Legge Reale - Ricerca sui casi di uccisione e ferimento da legge Reale». E chiamano a discuterne alcuni intellettuali tra cui Franco Fortini. Purtroppo, il loro lavoro si è fermato ad alcuni anni fa. Visto che dati recenti non c'erano, abbiamo deciso di produrli noi, con un criterio ancora più selettivo. Abbiamo esaminato solo i casi avvenuti durante un controllo o un fermo di polizia, non abbiamo preso in esame cioè né i casi di conflitto a fuoco con altre persone armate né il caso di Carlo Giuliani. Dal 1998 ad oggi, emerge che sono almeno 18 le persone uccise da un colpo di pistola esploso «accidentalmente». A questi casi, si potrebbero aggiungere altri 3 episodi, in cui la vittima è stata soffocata (2) o si è «gettata» dalla finestra (1). Caratteristica comune di questi casi è che la versione ufficiale ha sempre un avverbio, un «accidentalmente», alla base della ricostruzione ufficiale.Nell'elenco non manca nessuno corpo delle forze dell'ordine, dai carabinieri alla polizia, dalla guardia di finanza alla polizia penitenziaria, dai vigili urbani al corpo della guardia forestale. Quello che segue è una breve panoramica dei casi più recenti.Solo quest'anno sono tre gli episodi. Il 4 luglio 2007 Susanna Venturini, 51 anni, incensurata, madre di tre figli, muore in un'area di servizio nel veronese. Scoperta durante un tentativo di estorsione fugge e viene uccisa, in auto, dal colpo di pistola di un carabiniere. L'otto settembre è la volta di una donna rumena, in fuga dopo aver rubato 300 euro ad un supermercato di Ivrea. L'auto su cui viaggia non si ferma all'alt dei carabinieri. Il ventotto ottobre a Somma Vesuviana, nel napoletano, muore Pasquale Guadagno, 20 anni. Viaggia su un'auto che non si ferma all'alt dei carabinieri. Dopo un lungo inseguimento, viene ucciso da un colpo esploso da una pistola. Nel 2006 un cittadino nomade di 51 anni, Giuseppe Laforè, viene ucciso dopo un inseguimento dei carabinieri, a Piasco, sulla strada tra Saluzzo e Cuneo. La vittima, accanto al guidatore, viaggiava su una vettura che, secondo una prima ricostruzione, non si sarebbe fermata a un posto di blocco, viene uccisa dal colpo di pistola partito «accidentalmente».Nel 2005, nel giro di tre mesi, muoiono due immigrati. A Milano un giovane tunisino, 26 anni, muore dopo che, durante una colluttazione, è colpito da un colpo di pistola accidentalmente partito dalla pistola di un agente della Guardia di Finanza. A Torino, cambiano nazionalità della vittima, a perdere la vita è un senegalese, e la divisa di chi ha sparato è quella di un agente di polizia. Rimane l'«accidentalmente» per l'omicidio avvenuto questa volta durante un normale controllo. Un immigrato nigeriano, a Torino, invece si getta da una finestra durante un controllo di polizia. Molto conosciuto il caso di Federico Aldrovandi che muore a Mantova durante un fermo. In questi due casi non vi è l'uso di armi da fuoco.Molte di queste tragedie non hanno fatto notizia: sono state confinate nelle brevi di cronaca o nelle pagine dei quotidiani locali. È il caso, ad esempio, di Domenico Palumbo 30 anni, soffocato, il 31 ottobre 2004, durante un fermo effettuato da tre agenti di polizia penitenziaria di fronte la sede della loro scuola di polizia. Oppure come il caso di Gregorio Fichera che muore a diciotto anni, mentre, a Catania, è alla guida di un auto rubata. Il colpo di pistola è di un appuntato dei carabinieri. A Brescia, invece, Stefano Cabiddu muore mentre è sul bordo del fiume Mella in compagnia dei suoi fratelli. «Un doloroso incidente», lo definisce il procuratore capo di Brescia Giancarlo Tarquini. È giugno 2003, quando ad Arzano vicino Napoli, Mohamed Kadiatou Cisse viene ucciso nell'abitazione della sorella. È a letto, soffre di una forte depressione. La famiglia ha chiamato il 118, ma arrivano i carabinieri. La sua morte si dimentica in due giorni, mentre i familiari ancora si battono per avere giustizia, o almeno la verità.A Gorizia Bostian Brecelj, di 30 anni, è ferito con un colpo di pistola alla testa sparato - «accidentalmente», secondo la ricostruzione degli stessi carabinieri - durante una colluttazione avvenuta dopo un lungo inseguimento. Sempre dopo un lungo inseguimento, questa volta a Bari, trova la morte Michele Ditrani, 47 anni. Anche qui a sparare la pistola di un carabiniere. A Padova (2002) Nunzio Albanese, sospettato di far parte di una banda che ruba camion, viene ucciso in un'area di servizio, da una sventagliata di una mitraglietta il cui portatore, un carabiniere, scivola accidentalmente. Infine, ecco l'unico caso che ha avuto una certa attenzione dei media, prima di cadere nel dimenticatoio. Siamo a Napoli. È il 21 settembre 2000. Mario Castellano ha solo 17 anni e come tanti gira in motorino senza casco. Non si ferma all'alt dell'agente di polizia Tommaso Leone. Il poliziotto si volta e spara o, se preferite, inciampa e accidentalmente parte un colpo. Mario Castellano muore con un polmone bucato. Tommaso Leone viene condannato definitivamente (dopo che la Cassazione annulla il processo di secondo grado in cui era stato assolto), nel 2005, a dieci anni con l'accusa di omicidio volontario.
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on line
giovedì 15 novembre 2007
contro il risorgente nazismo antirom
Rom, no al triangolo illegale: appello di 300 intellettuali
Valeria Trigo
«Il triangolo nero. Violenza, propaganda e deportazione. Un manifesto di scrittori, artisti e intellettuali contro la violenza su rom, rumeni e donne»: oltre trecento tra scrittori, artisti e intellettuali italiani hanno deciso di far sentire la loro voce, stanchi di assistere alla deriva razzista che attraversa il nostro paese, purtroppo aggravata dalla morte violenta di Giovanna Reggiani. Non potendo rimanere indifferenti alla guerra contro i poveri che si sta combattendo in Italia e rivendicando il diritto di critica di fronte alla dismissione dell'intelligenza e della ragione. Una specie di comunità, non solo virtuale, che smentisce le accuse ripetute dai cosiddetti opiniosti nei confronti della non partecipazione degli scrittori italiani alle questioni sociali.Da giorni la rete era in fibrillazione, grazie alla mobilitazione di Alessandro Bertante, Gianni Biondillo, Girolamo De Michele, Valerio Evangelisti, Giuseppe Genna, Helena Janeczek, Loredana Lipperini, Monica Mazzitelli, Marco Philopat, Marco Rovelli, Stefania Scateni, Antonio Scurati, Beppe Sebaste, Lello Voce e il collettivo Wu Ming. Nasce così - da una partecipazione sempre più crescente, da arricchimenti reciproci e da un principio di base sacrosanto e imprenscindibile, riassumibile nella frase «Nessun popolo è illegale» - l'appello-manifesto al quale hanno aderito finora in più di trecento e che da oggi sarà in rete, su Carmillaonline, Wumingfoundation, Lipperatura, Nazione Indiana, beppesebaste.blogspot.com, Articolo 21 e francarame.it. Tra i nomi, quelli di Roberto Saviano, Sandro Veronesi, Franca Rame, Bernardo Bertolucci, Moni Ovadia, Simona Vinci, Botto&Bruno, Massimo Carlotto, Carlo Lucarelli, Nanni Balestrini, Mauro Covacich, Erri De Luca, Giuseppe Montesano, Valeria Parrella, Enrico Palandri e Ugo Riccarelli (del quale in questa pagina pubblichiamo un testo che lo scrittore romano ha affidato a un quotidiano svizzero).«Odio e sospetto alimentano generalizzazioni - si legge nel manifesto -: tutti i rumeni sono rom, tutti i rom sono ladri e assassini, tutti i ladri e gli assassini devono essere espulsi dall'Italia. Politici vecchi e nuovi, di destra e di sinistra, gareggiano a chi urla più forte, denunciando l'emergenza. Emergenza che, scorrendo i dati contenuti nel Rapporto sulla Criminalità (1993-2006), non esiste: omicidi e reati sono, oggi, ai livelli più bassi dell'ultimo ventennio, mentre sono in forte crescita i reati commessi tra le pareti domestiche o per ragioni passionali. Il rapporto Eures-Ansa 2005, L'omicidio volontario in Italia e l'indagine Istat 2007 dicono che un omicidio su quattro avviene in casa; sette volte su dieci la vittima è una donna; più di un terzo delle donne fra i 16 e i 70 anni ha subito violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita, e il responsabile di aggressione fisica o stupro è sette volte su dieci il marito o il compagno: la famiglia uccide più della mafia, le strade sono spesso molto meno a rischio-stupro delle camere da letto». Ma, nonostante i fatti, nel nostro paese rimane il vizio dell'«emergenza continua». Dopo la morte di Gabriele Sandri, il ragazzo laziale ucciso da un poliziotto, tutti i quotidiani esteri hanno commentato: «l'Italia è il paese dei problemi che non si risolvono mai». Più «facile» agitare uno spauracchio collettivo piuttosto che affrontare seriamente e risolvere le vere cause dell'insicurezza sociale. O continuare a sfruttare le ragazze immigrate e la manodopera piuttosto che attuare le direttive europee (come la 43/2000) sul diritto all'assistenza sanitaria, al lavoro e all'alloggio dei migranti: nei cantieri ogni giorno un operaio rumeno è vittima di un omicidio bianco.Il rischio è enorme: «Si sta sperimentando la costruzione del nemico assoluto, come con ebrei e rom sotto il nazi-fascismo, in nome di una politica che promette sicurezza in cambio della rinuncia ai principi di libertà, dignità e civiltà; che rende indistinguibili responsabilità individuali e collettive, effetti e cause, mali e rimedi. Manca solo che qualcuno rispolveri dalle soffitte dell'intolleranza il triangolo nero degli asociali, il marchio d'infamia che i nazisti applicavano agli abiti dei rom».
Pubblicato il: 15.11.07Modificato il: 15.11.07 alle ore 9.24
© l'Unità. Per la pubblicità su www.unita.it: System Comunicazione
Valeria Trigo
«Il triangolo nero. Violenza, propaganda e deportazione. Un manifesto di scrittori, artisti e intellettuali contro la violenza su rom, rumeni e donne»: oltre trecento tra scrittori, artisti e intellettuali italiani hanno deciso di far sentire la loro voce, stanchi di assistere alla deriva razzista che attraversa il nostro paese, purtroppo aggravata dalla morte violenta di Giovanna Reggiani. Non potendo rimanere indifferenti alla guerra contro i poveri che si sta combattendo in Italia e rivendicando il diritto di critica di fronte alla dismissione dell'intelligenza e della ragione. Una specie di comunità, non solo virtuale, che smentisce le accuse ripetute dai cosiddetti opiniosti nei confronti della non partecipazione degli scrittori italiani alle questioni sociali.Da giorni la rete era in fibrillazione, grazie alla mobilitazione di Alessandro Bertante, Gianni Biondillo, Girolamo De Michele, Valerio Evangelisti, Giuseppe Genna, Helena Janeczek, Loredana Lipperini, Monica Mazzitelli, Marco Philopat, Marco Rovelli, Stefania Scateni, Antonio Scurati, Beppe Sebaste, Lello Voce e il collettivo Wu Ming. Nasce così - da una partecipazione sempre più crescente, da arricchimenti reciproci e da un principio di base sacrosanto e imprenscindibile, riassumibile nella frase «Nessun popolo è illegale» - l'appello-manifesto al quale hanno aderito finora in più di trecento e che da oggi sarà in rete, su Carmillaonline, Wumingfoundation, Lipperatura, Nazione Indiana, beppesebaste.blogspot.com, Articolo 21 e francarame.it. Tra i nomi, quelli di Roberto Saviano, Sandro Veronesi, Franca Rame, Bernardo Bertolucci, Moni Ovadia, Simona Vinci, Botto&Bruno, Massimo Carlotto, Carlo Lucarelli, Nanni Balestrini, Mauro Covacich, Erri De Luca, Giuseppe Montesano, Valeria Parrella, Enrico Palandri e Ugo Riccarelli (del quale in questa pagina pubblichiamo un testo che lo scrittore romano ha affidato a un quotidiano svizzero).«Odio e sospetto alimentano generalizzazioni - si legge nel manifesto -: tutti i rumeni sono rom, tutti i rom sono ladri e assassini, tutti i ladri e gli assassini devono essere espulsi dall'Italia. Politici vecchi e nuovi, di destra e di sinistra, gareggiano a chi urla più forte, denunciando l'emergenza. Emergenza che, scorrendo i dati contenuti nel Rapporto sulla Criminalità (1993-2006), non esiste: omicidi e reati sono, oggi, ai livelli più bassi dell'ultimo ventennio, mentre sono in forte crescita i reati commessi tra le pareti domestiche o per ragioni passionali. Il rapporto Eures-Ansa 2005, L'omicidio volontario in Italia e l'indagine Istat 2007 dicono che un omicidio su quattro avviene in casa; sette volte su dieci la vittima è una donna; più di un terzo delle donne fra i 16 e i 70 anni ha subito violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita, e il responsabile di aggressione fisica o stupro è sette volte su dieci il marito o il compagno: la famiglia uccide più della mafia, le strade sono spesso molto meno a rischio-stupro delle camere da letto». Ma, nonostante i fatti, nel nostro paese rimane il vizio dell'«emergenza continua». Dopo la morte di Gabriele Sandri, il ragazzo laziale ucciso da un poliziotto, tutti i quotidiani esteri hanno commentato: «l'Italia è il paese dei problemi che non si risolvono mai». Più «facile» agitare uno spauracchio collettivo piuttosto che affrontare seriamente e risolvere le vere cause dell'insicurezza sociale. O continuare a sfruttare le ragazze immigrate e la manodopera piuttosto che attuare le direttive europee (come la 43/2000) sul diritto all'assistenza sanitaria, al lavoro e all'alloggio dei migranti: nei cantieri ogni giorno un operaio rumeno è vittima di un omicidio bianco.Il rischio è enorme: «Si sta sperimentando la costruzione del nemico assoluto, come con ebrei e rom sotto il nazi-fascismo, in nome di una politica che promette sicurezza in cambio della rinuncia ai principi di libertà, dignità e civiltà; che rende indistinguibili responsabilità individuali e collettive, effetti e cause, mali e rimedi. Manca solo che qualcuno rispolveri dalle soffitte dell'intolleranza il triangolo nero degli asociali, il marchio d'infamia che i nazisti applicavano agli abiti dei rom».
Pubblicato il: 15.11.07Modificato il: 15.11.07 alle ore 9.24
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torture
giovedì 15 novembre 2007
dal Corriere della Sera
Presenti anche Indicazioni su come manipolare psicologicamente i detenuti
Divieti, premi e tecniche di intimidazione:finiscono online i segreti di Guantanamo
Su WikiLeaks il manuale di comportamento per il personale addetto al campo di prigionia Usa a Cuba
Il frontespizio del documento, pubblicato su WikiLeaks
MILANO - Si intitola «Camp Delta Standard Operating Procedures» ed è il manuale in cui le forze militari statunitensi hanno appuntato e descritto in modo dettagliato tutte le procedure relative alle attività svolte all'interno del campo di detenzione di Guantanamo Bay.
WIKILEAKS – Incredibilmente, tale documento è visibile in rete, ma non certo grazie a un visto di pubblicazione accordato dalle autorità Usa, bensì per merito di un internauta che mercoledì scorso lo ha postato su WikiLeaks, il sito collaborativo (in stile wiki, appunto) sulle cui pagine gli utenti del web raccolgono (in modo anonimo) le informazioni e i documenti che in qualche modo sono trapelati dagli archivi più o meno segreti di tutto il mondo.
SGUARDO PROIBITO – Nella prima pagina del manuale (datato 27 marzo 2003) compare infatti la dicitura «Unclassified//For Official Use Only», intesa a vietarne la lettura da parte di persone non autorizzate, pur riconoscendo che non si tratta di informazioni segrete. Ma di certo non destinate a essere pubblicate online. Tramite WikiLeaks, però, le 238 pagine di cui si compone l'incartamento – lo stesso che nel 2003 l'American Civil Liberties Union (Aclu) aveva chiesto in visione, peraltro senza successo – possono essere sfogliate da chiunque lo desideri. Il Camp Delta Standard Operating Procedures permette quindi di dare uno sguardo all'interno della contestata istituzione in cui a partire dal 2002 gli Stati Uniti hanno imprigionato centinaia di sospetti terroristi, e farsi finalmente un'idea più precisa di quanto accadeva quotidianamente in quelle stanze.
I CONTENUTI – E così ecco che è possibile visionare le piante in scala delle prigioni, o l'elenco dettagliato dei generi di conforto straordinari (come la carta igienica, per esempio) che possono essere dati «in premio» ai detenuti, o – ancora – le istruzioni su come manipolare psicologicamente i prigionieri e su come gestire uno sciopero della fame. Un'apposita sezione spiega alle guardie come intimidire i detenuti utilizzando i cani, esattamente come avveniva ad Abu Ghraib. Come riferisce la webzine Wired, il direttore del programma Aclu per i Diritti Umani, Jamil Dakwar, dopo aver preso visione del manuale ha dichiarato di essere rimasto colpito dal modo dettagliato con cui è stato regolamentato ogni più piccolo aspetto della vita in condizioni di restrizione: dalle procedure di accoglienza dei prigionieri, a quelle per la rasatura, fino a quelle di sepoltura dei deceduti.
I PRIGIONIERI - Tuttavia, ciò che più ha inquietato Dawkar, sono le pagine in cui vengono fornite istruzioni circa le procedure di classificazione dei prigionieri ai fini delle ispezioni della Croce Rossa Internazionale. Il manuale prevede quattro livelli di «visibilità» del detenuto di cui la Croce Rossa chiede notizie: «Unrestricted Access» significa che le informazioni sul prigioniero non sono soggette a limitazioni, «Restricted Access» prevede esclusivamente la possibilità di richiedere brevi informazioni sul suo stato di salute, «Visual Access» consente solo l'osservazione delle condizioni fisiche del soggeto. Infine, l'ultimo livello, «No Access», non ammette alcun contatto tra il detenuto e i rappresentanti della Croce Rossa. Il Pentagono non ha commentato.
14 novembre 2007(ultima modifica: 15 novembre 2007)
dal Corriere della Sera
Presenti anche Indicazioni su come manipolare psicologicamente i detenuti
Divieti, premi e tecniche di intimidazione:finiscono online i segreti di Guantanamo
Su WikiLeaks il manuale di comportamento per il personale addetto al campo di prigionia Usa a Cuba
Il frontespizio del documento, pubblicato su WikiLeaks
MILANO - Si intitola «Camp Delta Standard Operating Procedures» ed è il manuale in cui le forze militari statunitensi hanno appuntato e descritto in modo dettagliato tutte le procedure relative alle attività svolte all'interno del campo di detenzione di Guantanamo Bay.
WIKILEAKS – Incredibilmente, tale documento è visibile in rete, ma non certo grazie a un visto di pubblicazione accordato dalle autorità Usa, bensì per merito di un internauta che mercoledì scorso lo ha postato su WikiLeaks, il sito collaborativo (in stile wiki, appunto) sulle cui pagine gli utenti del web raccolgono (in modo anonimo) le informazioni e i documenti che in qualche modo sono trapelati dagli archivi più o meno segreti di tutto il mondo.
SGUARDO PROIBITO – Nella prima pagina del manuale (datato 27 marzo 2003) compare infatti la dicitura «Unclassified//For Official Use Only», intesa a vietarne la lettura da parte di persone non autorizzate, pur riconoscendo che non si tratta di informazioni segrete. Ma di certo non destinate a essere pubblicate online. Tramite WikiLeaks, però, le 238 pagine di cui si compone l'incartamento – lo stesso che nel 2003 l'American Civil Liberties Union (Aclu) aveva chiesto in visione, peraltro senza successo – possono essere sfogliate da chiunque lo desideri. Il Camp Delta Standard Operating Procedures permette quindi di dare uno sguardo all'interno della contestata istituzione in cui a partire dal 2002 gli Stati Uniti hanno imprigionato centinaia di sospetti terroristi, e farsi finalmente un'idea più precisa di quanto accadeva quotidianamente in quelle stanze.
I CONTENUTI – E così ecco che è possibile visionare le piante in scala delle prigioni, o l'elenco dettagliato dei generi di conforto straordinari (come la carta igienica, per esempio) che possono essere dati «in premio» ai detenuti, o – ancora – le istruzioni su come manipolare psicologicamente i prigionieri e su come gestire uno sciopero della fame. Un'apposita sezione spiega alle guardie come intimidire i detenuti utilizzando i cani, esattamente come avveniva ad Abu Ghraib. Come riferisce la webzine Wired, il direttore del programma Aclu per i Diritti Umani, Jamil Dakwar, dopo aver preso visione del manuale ha dichiarato di essere rimasto colpito dal modo dettagliato con cui è stato regolamentato ogni più piccolo aspetto della vita in condizioni di restrizione: dalle procedure di accoglienza dei prigionieri, a quelle per la rasatura, fino a quelle di sepoltura dei deceduti.
I PRIGIONIERI - Tuttavia, ciò che più ha inquietato Dawkar, sono le pagine in cui vengono fornite istruzioni circa le procedure di classificazione dei prigionieri ai fini delle ispezioni della Croce Rossa Internazionale. Il manuale prevede quattro livelli di «visibilità» del detenuto di cui la Croce Rossa chiede notizie: «Unrestricted Access» significa che le informazioni sul prigioniero non sono soggette a limitazioni, «Restricted Access» prevede esclusivamente la possibilità di richiedere brevi informazioni sul suo stato di salute, «Visual Access» consente solo l'osservazione delle condizioni fisiche del soggeto. Infine, l'ultimo livello, «No Access», non ammette alcun contatto tra il detenuto e i rappresentanti della Croce Rossa. Il Pentagono non ha commentato.
14 novembre 2007(ultima modifica: 15 novembre 2007)
domenica 11 novembre 2007
al tempo del Papa Re di Furio Colombo
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Editoriale
Ai tempi del Papa Re
Furio ColomboQualcuno ricorda lo scorso 20 settembre? Quel giorno - anniversario della conquista di Roma, che ha cessato di essere capitale dello Stato Pontificio per diventare capitale d´Italia - i Radicali di Marco Pannella hanno invitato i cittadini a incontrarsi a Porta Pia, il luogo in cui le truppe italiane sono entrate nella "Città Santa" nel 1860. A molti sarà sembrata una inutile e dispettosa celebrazione di un passato morto e sepolto, una manifestazione simile e opposta a quella di anziani nobili che quello stesso giorno assistono ogni anno a una messa di cordoglio. Personalmente rimpiango di non essere andato a Porta Pia la mattina del 20 settembre. Ho saputo in questi giorni, nell´Aula del Senato, iniziando a votare la Legge finanziaria 2007-2008 della Repubblica italiana, che quell´evento non riguardava un´eco retorica del passato, non era una trovata retro. Riguardava i cittadini italiani di oggi, vicende politiche di cui siamo testimoni e che stiamo vivendo.Infatti, la mattina del giorno 7 novembre, quando è circolato fra i banchi di destra e sinistra l´emendamento 2/800 a firma dei senatori Angius, Montalbano, Barbieri che cancellava la esenzione degli immobili della Chiesa cattolica dal pagamento della tassa Ici se quegli edifici sono usati non per fini religiosi o di carità ma per scopi commerciali (nel lucroso parco turistico di Roma e intorno a Roma) subito si è levato da ogni parte dell´aula un forte vento di irritazione, di ostilità e anche di sdegno.Inutile ricordare che la fine di un simile privilegio (aprire un confortevole albergo a tariffe correnti e con una rete internazionale di contatti che assicura il flusso continuo di presenze) viene chiesto all´Italia dalla Commissione Europea per ragioni di violazione grave delle regole di concorrenza. Inutile ricordare che negli Stati Uniti provvede non il Parlamento, ma la denuncia del fisco all´autorità giudiziaria, a perseguire chi usa la religione (che è esente da tasse) a scopi commerciali (che non lo sono mai), ed è noto che seguono conseguenze gravi e condanne pesanti e tutt´altro che infrequenti, a chi ha usato la religione per coprire il commercio.Sono cose che accadono in tutto il mondo civile, democratico, rispettoso, in ambiti diversi, della religione e della legge. Persino in Messico e nelle Filippine. Ma non in Italia. E infatti nel Senato italiano è scattata una reazione ferma e istantanea, come se fosse in gioco un grave e vistoso problema morale con cui le persone perbene non vogliono avere niente a che fare. Il problema grave c´era, ma rovesciato. Si voleva stabilire che, di fronte alla legge, e dunque alle tasse, tutti i cittadini sono uguali, con gli stessi doveri. Invece è stato deciso, bocciando subito e in modo quasi unanime l´emendamento del diavolo (far pagare le tasse all´albergatore ecclesiastico) oppure astenendosi, che è bene, se non altro per prudenza, stare alla larga dalla tentazione blasfema.Conta, per capire e valutare l´evento, il contesto storico e politico di questi giorni.Sono giorni difficili, una società frantumata che stenta a trovare riferimenti unificanti e comuni. Un´Italia dove ogni gruppo o corporazione di interessi si scontra con un altro o contro i cittadini (negando di volta in volta assistenza, servizi, persino risposte che orientino). E in questo momento, in questa Italia, il Papa decide di incitare i farmacisti (notare: solo i farmacisti italiani) alla obiezione di coscienza, ovvero all´obbligo religioso di rifiutare ai pazienti "le medicine immorali", benché regolarmente prescritte dai medici. Un´altissima autorità introduce un criterio estraneo a un Paese moderno, alla democrazia e contro la scienza. Il Papa comanda, dal suo altissimo pulpito, la disubbidienza civile ai responsabili di quel punto di raccordo e fiducia comune che sono le farmacie, ancora più rilevanti e delicate dei doveri d´ufficio di un pubblico ufficiale. È in queste condizioni che si è tuonato nel Senato italiano in difesa devota e assoluta della Chiesa cattolica italiana come se la Chiesa fosse minacciata da un Emiliano Zapata in agguato sulle colline di Roma, invece di essere implacabile e infaticabile parte che attacca, conquista e impone.Alla fine solo undici senatori, e chi scrive, hanno votato l´obbligo di far pagare le tasse alla Chiesa quando la Chiesa si occupa non di Religione ma di commercio. Dunque hanno votato come avrebbero votato deputati e senatori inglesi, francesi, tedeschi, spagnoli, americani.Ha ragione il Cardinale Ruini: «la Chiesa vince». Per questo rimpiango di non avere almeno partecipato a quel simbolo mite di dignità italiana che è stato il ricordo radicale di Porta Pia.* * * Perché rivangare oggi queste storie "anticlericali"?Una ragione è certo la svolta della Santa Sede che, per quel che riguarda l´Italia, ha deciso di scendere direttamente in politica. S´intende che il fenomeno della cosiddetta "ingerenza" vaticana nella vita politica italiana non dipende solo dall´irruenza vaticana (qualunque predicatore ha diritto di essere irruente) ma piuttosto dalla spontanea e volenterosa sottomissione italiana, una vera e propria corsa, dalle alte autorità ai cittadini prudenti, ad accettare tutto. Proprio per questo ricordare simbolicamente la data del 20 settembre per celebrare uno sdoppiamento dei poteri (potere temporale finalmente diviso dal potere spirituale) non è fuori posto e non è contro la Chiesa. Al contrario, tende a restituire alla Chiesa tutta la sua diversa autorità, presenza, competenza, fuori e lontano dal cortile della politica. Una riflessione sul 20 settembre, se fatta con un po´ di serenità ma anche con un po´ di coraggio (si rischia facilmente la stizzosa aggressività dei finti credenti) ci porta forse a dire che il 20 settembre ha liberato non solo Roma ma anche la Chiesa dal regno e dal governo pontificio, che era una maschera di ferro saldata sulla religiosità dei credenti e persino sulla cultura religiosa di coloro che, per tante ragioni, hanno interesse vero e profondo a inoltrarsi nel misterioso territorio della fede. Purtroppo un mare di finti credenti prendono continuamente la zelante iniziativa di portare il Papa in processione, una processione senza pace e senza sosta, dentro la politica, dentro le leggi, dentro la scienza, persino dentro le intricate e sgradevoli proteste fiscali. E ci sono anche pattuglie di veri credenti che pensano davvero, non saprei dire perché, che la processione anche un po´ fanatica dei finti credenti che spingono il Papa in ogni vicolo della vita pubblica e anche del comportamento personale e privato dei cittadini, giovi davvero alla fede. Giova, certo, alle conversioni di convenienza, molto frequenti nella vita politica italiana, dove essere visti vicino al Papa (qualunque sia la vita realmente vissuta) viene considerata una eccellente raccomandazione. Avete notato quante persone in vista, nell´Italia di questi giorni, confidano improvvisamente ai giornali conversioni e vampate di fede come se fossero materia di pubblico interesse? In tal modo la doppia scorta di finti credenti e di alcuni veri credenti priva il Papa e le sue parole e la sua predicazione, di vera attenzione, vero rispetto e vera discussione.La cultura cattolica, già così viva in un Paese che va da Don Milani a Padre Turoldo, da Pasolini al Cardinale Martini, da Giorgio la Pira a Don Ciotti, da Padre Balducci a don Puglisi, da Giovanni XXIII a Giovanni Paolo II, da Dossetti ad Alex Zanotelli (e stiamo parlando solo dell´Italia contemporanea, solo di pochi esempi) diventa una cultura del monologo senza risposte, di un Papa solitario, issato dai media sui cittadini muti tramutati in folla. E il monologo continua attraverso tutti i telegiornali, ora dopo ora, rete dopo rete, fino al punto assolutamente strano e bizzarro, di aprire con il Papa telegiornali nazionali in ore di massimo ascolto, in giorni e occasioni in cui non vi è alcun annuncio o notizia o evento che giustifichi tale "apertura", dando così un colpo mortale a tutte le possibili gerarchie di valori della comunicazione, provocando una omologazione triste fra Tg che aprono con il Papa e chiudono con Valentino Rossi. * * *Tutto ciò avviene - sia concesso di dirlo anche a chi non è parte in causa - con un prezzo molto pesante per Chiesa e dottrina intesi in senso religioso, o anche solo culturale e non politico.Il Papa, infatti, diventa omologo non solo di Bush e Blair e Putin, come mai era avvenuto ai tempi di un uso più parsimonioso della sua immagine e della sua parola. Il Papa sta diventando, omologo dei leader politici nazionali. Gli viene attribuita dunque forzosamente una statura alquanto modesta. Come fanno i veri credenti, pur fra la concitazione entusiasta dei finti credenti, a vedere senza allarme il costante abbassamento di livello, di tono, di rilevanza, lo spreco quotidiano che induce a includere immagine e frammento di parole del Papa - ormai rese uguali a quelle di ogni altra "personalità televisiva" - in tutti (tutti) i telegiornali?Non solo si disperde la sacralità. Si disperde l´interesse, il senso, perché il messaggio, qualunque cosa valga, evapora fra le mille finestre aperte di una comunicazione ovviamente priva di rispetto, priva di senso del più alto e del più basso, del triviale e del sacro, di ciò che importa e di ciò che è irrilevante, della salvezza e del lancio dell´ultimo film.Possibile che sia accettabile e anzi desiderata l´immagine del Papa come "personalità televisiva" che, fatalmente, prende posto nel gruppo di tutte le altre personalità televisive? * * *Altro grave problema - ed è strano che tocchi ai non credenti parlarne - è che non esiste alcuna legittima e autorevole sede per considerare e discutere le parole, i concetti, gli insegnamenti, le raccomandazioni, le prescrizioni del Papa. Infatti poiché il capo della Chiesa sceglie di parlare non alla Chiesa ma a tutti, attraverso tutti i mezzi di comunicazione di massa, è naturale immaginare (sarebbe meglio dire: sapere) che vi saranno voci, posizioni, pensieri, decisioni diverse, anche profondamente diverse. Ma prima ancora che io faccia in tempo ad aggiungere che sono e saranno opinioni "rispettosamente diverse", viene la bordata violenta dei difensori del Papa. Ci dicono che la sua parola deve restare indiscutibile sempre anche per i non credenti, persino se parla di sport. Cattivi difensori. Perché bloccano il capo della Chiesa cattolica in un omaggio forzato e obbligatorio che allarga l´area dei finti credenti (che si sentono incoraggiati a rinnovare i loro teatrali slanci di adesione pubblica), aumentando sorprendentemente il numero di persone (specialmente se note) che si accostano ai sacramenti (si dice così?) in caso di presenza di telecamere o di «Dagospia».E privano la parte intelligente e pensosa del Paese Italia, e dell´ex regno del Papa Re, di riflessione, scambio di idee, confronto intelligente e civile su temi che, oltre che di fede, sono anche di vita e di morte quotidiana nei suoi aspetti più difficili e drammatici.Proprio per questo il ricordo, senza provocazione e senza alcuna intenzione polemica, del passaggio di Roma da territorio del Papa a città italiana e capitale del nuovo Paese, è utile oggi più che mai, per evocare la diversità fra Chiesa spirituale e Chiesa-regno, fra il Papa teologo e il Papa regnante, fra la predicazione ai credenti e l´emanazione di una legge erga omnes. È un atto di vero composto rispetto verso la Chiesa, come votare no al commercio travestito da religione.A chi scrive sembra evidente che, fuori dalla irrefrenabile euforia dei finti credenti, il rispetto più profondo della Chiesa è tra coloro che non credono che sia bene trattare il Papa come "personalità televisiva", la predicazione come legge, la divisione tra Stato e Chiesa come mai avvenuta.Ci sarà un teologo non euforico, non impegnato a far contenti i finti credenti, per dare un tono rispettoso alla discussione (discussione, non concitata, preventiva condanna) che non c´è mai, o meglio che non c´è più? O avremo di nuovo, ma in tutto il Paese, il tempo fermo e chiuso della messa all´indice, della condanna preventiva, del pensiero laico giudicato "immorale", del governo del Papa Re?
Pubblicato il 11.11.07
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una giornata memorabile a Palermo
L'ANALISI. Sedici anni dopo l'omicidio di Libero Grassia Palermo adesso davvero si respira "un'aria diversa"
Così la città muta e compliceha deciso di rialzare la testa
Se non c'è più estorsione non c'è controllo del territorio, non c'è più la mafiadi ATTILIO BOLZONI
Così la città muta e compliceha deciso di rialzare la testa" src="http://www.repubblica.it/2007/10/sezioni/cronaca/mafia/citta-rialza-testa/lann_11601988_30460.jpg" width=280>
Un momento della convention al Teatro BiondoSONO passati tre anni ma è come se ne fossero passati trenta o trecento. È stata la prima volta di Palermo. È vero che "sta cambiando solo l'aria". E' vero che in questi giorni hanno trovato altri cinquecento nomi di commercianti nel libro mastro del boss Salvatore Lo Piccolo e neanche uno di loro ha ancora confessato in questura o in procura che era costretto a pagare. Ma a Palermo "l'aria" conta più che in ogni altro luogo d'Italia. Prima, i signori del pizzo controllavano anche quella. Solo un palermitano - un palermitano e non un siciliano qualunque - può capire fino in fondo cosa è accaduto ieri, sabato 10 novembre 2007, in quel bellissimo teatro davanti al mercato della Vucciria. È stato l'inizio di una rivolta. È Palermo che sta provando a non morire soffocata dalla sua mafia. Una mafia che si sta velocemente trasformando, che è padrona quando può essere padrona ma non è più padrona sempre e ovunque. È soltanto il principio di una guerra che si combatterà non solo a colpi di indagini e denunce, di blitz polizieschi, di microspie e di telecamere che filmano in diretta gli esattori del racket. Un principio che sembrava sempre lontano in quella città che era muta o complice, serva o piegata dalla paura. Palermo lentamente, faticosamente sta rialzando la testa. Quasi tre anni fa avevano disertato tutti al teatro Biondo. Non si era presentato il presidente della Confcommercio Roberto Helg (che in verità non è stato visto neppure ieri), non c'erano gli uomini politici più rappresentativi della Regione, in prima fila era vuota la poltrona del governatore Totò Cuffaro che pure qualche settimana prima aveva difeso l'"onore" dell'isola contro "lo sciacallaggio mediatico ai danni dell'intero sistema produttivo siciliano". Un reportage di RaiTre sul crimine. Proprio sul racket delle estorsioni.
È stata probabilmente l'ultima volta che Palermo si è voltata dall'altra parte. Qualche mese dopo la città si è risvegliata con i muri coperti da manifesti, da lenzuola che pendevano dai cavalcavia. Tutti con la stessa scritta: "Un popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità". Erano stati alcuni ragazzi di "Addiopizzo", un'associazione allora sconosciuta. Sembrava solo una provocazione. Oggi "Addiopizzo" ha raccolto intorno a sé 209 imprenditori e commercianti che non pagano. Ci sono 9.105 palermitani che li sostengono. E che non fanno la spesa in tutte quelle botteghe dove si vendono prodotti made in mafia. Non comprano il caffè nelle torrefazioni dei boss, non comprano i loro cannoli di ricotta, la loro frutta e la loro carne. La grande partita di Palermo si giocherà nei prossimi mesi sul "pizzo". È quella "messa a posto" di qualche centinaio o di qualche migliaio di euro al mese che segna il confine fra libertà e schiavitù. È sulla mesata che il capo di una "famiglia" o di un "mandamento" può perdere per sempre la faccia e il potere. L'estorsione è la prima attività mafiosa, quella essenziale per la sopravvivenza dell'organizzazione criminale. Se non c'è più estorsione non c'è più controllo del territorio, se salta quel sistema non c'è più mafia. È il momento giusto. L'ha compreso anche Tano Grasso, l'ex commerciante di scarpe di Capo d'Orlando che è diventato bandiera per le sue battaglie contro il racket. Ha aspettato sedici lunghi anni per far nascere anche a Palermo un'associazione contro i boss del pizzo. Era commosso, ieri, in quel teatro palermitano dei primi del Novecento. Come era commosso l'altro Grasso, Pietro, il procuratore nazionale antimafia che per primo ha voluto conoscere nel 2005 i ragazzi di Addiopizzo. L'hanno compreso gli imprenditori siciliani, in tanti. Quelli di Catania come Andrea Vecchio, che in quattro giorni d'estate ha sentito le bombe devastare per quattro volte i suoi cantieri. E quelli di Caltanissetta, di Agrigento, di Siracusa. Nuove generazioni di imprenditori che non sono più disposti a "calare le corna", che probabilmente non ce la fanno nemmeno più a sostenere le richieste di una nuova mafia sempre più aggressiva. Hanno deciso di non sopportare più. Senza sfida. Ma anche senza paura. È però a Palermo, più che altrove in Sicilia, che si vince o si perde tutto. Nella Palermo dove 16 anni fa uccisero Libero Grassi, l'industriale tessile che si scagliò contro i Madonia della Piana dei Colli e i Galatolo dell'Acquasanta mentre il presidente degli industriali di allora raccomandava i colleghi "di pagare tutti per pagare meno". E dileggiò Libero pubblicamente. Gli disse: "Le buone famiglie tendono a tacere". Libero Grassi era diventato un obiettivo "politico" dei boss. E poi militare. Era solo. E uno da solo non può ribellarsi a Cosa Nostra. Sarà l'inizio della fine di un'epoca il grande raduno al teatro Biondo? Quella dei libri mastri, dei contabili dei mafiosi che con maniacale precisione custodiscono il registro delle entrate e delle uscite, che concedono pagamenti a rate ai commercianti in difficoltà, che fanno sconti in caso di lutto in famiglia? Sarà l'inizio della fine per le sanguisughe di Palermo? (11 novembre 2007)
Così la città muta e compliceha deciso di rialzare la testa
Se non c'è più estorsione non c'è controllo del territorio, non c'è più la mafiadi ATTILIO BOLZONI
Così la città muta e compliceha deciso di rialzare la testa" src="http://www.repubblica.it/2007/10/sezioni/cronaca/mafia/citta-rialza-testa/lann_11601988_30460.jpg" width=280>
Un momento della convention al Teatro BiondoSONO passati tre anni ma è come se ne fossero passati trenta o trecento. È stata la prima volta di Palermo. È vero che "sta cambiando solo l'aria". E' vero che in questi giorni hanno trovato altri cinquecento nomi di commercianti nel libro mastro del boss Salvatore Lo Piccolo e neanche uno di loro ha ancora confessato in questura o in procura che era costretto a pagare. Ma a Palermo "l'aria" conta più che in ogni altro luogo d'Italia. Prima, i signori del pizzo controllavano anche quella. Solo un palermitano - un palermitano e non un siciliano qualunque - può capire fino in fondo cosa è accaduto ieri, sabato 10 novembre 2007, in quel bellissimo teatro davanti al mercato della Vucciria. È stato l'inizio di una rivolta. È Palermo che sta provando a non morire soffocata dalla sua mafia. Una mafia che si sta velocemente trasformando, che è padrona quando può essere padrona ma non è più padrona sempre e ovunque. È soltanto il principio di una guerra che si combatterà non solo a colpi di indagini e denunce, di blitz polizieschi, di microspie e di telecamere che filmano in diretta gli esattori del racket. Un principio che sembrava sempre lontano in quella città che era muta o complice, serva o piegata dalla paura. Palermo lentamente, faticosamente sta rialzando la testa. Quasi tre anni fa avevano disertato tutti al teatro Biondo. Non si era presentato il presidente della Confcommercio Roberto Helg (che in verità non è stato visto neppure ieri), non c'erano gli uomini politici più rappresentativi della Regione, in prima fila era vuota la poltrona del governatore Totò Cuffaro che pure qualche settimana prima aveva difeso l'"onore" dell'isola contro "lo sciacallaggio mediatico ai danni dell'intero sistema produttivo siciliano". Un reportage di RaiTre sul crimine. Proprio sul racket delle estorsioni.
È stata probabilmente l'ultima volta che Palermo si è voltata dall'altra parte. Qualche mese dopo la città si è risvegliata con i muri coperti da manifesti, da lenzuola che pendevano dai cavalcavia. Tutti con la stessa scritta: "Un popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità". Erano stati alcuni ragazzi di "Addiopizzo", un'associazione allora sconosciuta. Sembrava solo una provocazione. Oggi "Addiopizzo" ha raccolto intorno a sé 209 imprenditori e commercianti che non pagano. Ci sono 9.105 palermitani che li sostengono. E che non fanno la spesa in tutte quelle botteghe dove si vendono prodotti made in mafia. Non comprano il caffè nelle torrefazioni dei boss, non comprano i loro cannoli di ricotta, la loro frutta e la loro carne. La grande partita di Palermo si giocherà nei prossimi mesi sul "pizzo". È quella "messa a posto" di qualche centinaio o di qualche migliaio di euro al mese che segna il confine fra libertà e schiavitù. È sulla mesata che il capo di una "famiglia" o di un "mandamento" può perdere per sempre la faccia e il potere. L'estorsione è la prima attività mafiosa, quella essenziale per la sopravvivenza dell'organizzazione criminale. Se non c'è più estorsione non c'è più controllo del territorio, se salta quel sistema non c'è più mafia. È il momento giusto. L'ha compreso anche Tano Grasso, l'ex commerciante di scarpe di Capo d'Orlando che è diventato bandiera per le sue battaglie contro il racket. Ha aspettato sedici lunghi anni per far nascere anche a Palermo un'associazione contro i boss del pizzo. Era commosso, ieri, in quel teatro palermitano dei primi del Novecento. Come era commosso l'altro Grasso, Pietro, il procuratore nazionale antimafia che per primo ha voluto conoscere nel 2005 i ragazzi di Addiopizzo. L'hanno compreso gli imprenditori siciliani, in tanti. Quelli di Catania come Andrea Vecchio, che in quattro giorni d'estate ha sentito le bombe devastare per quattro volte i suoi cantieri. E quelli di Caltanissetta, di Agrigento, di Siracusa. Nuove generazioni di imprenditori che non sono più disposti a "calare le corna", che probabilmente non ce la fanno nemmeno più a sostenere le richieste di una nuova mafia sempre più aggressiva. Hanno deciso di non sopportare più. Senza sfida. Ma anche senza paura. È però a Palermo, più che altrove in Sicilia, che si vince o si perde tutto. Nella Palermo dove 16 anni fa uccisero Libero Grassi, l'industriale tessile che si scagliò contro i Madonia della Piana dei Colli e i Galatolo dell'Acquasanta mentre il presidente degli industriali di allora raccomandava i colleghi "di pagare tutti per pagare meno". E dileggiò Libero pubblicamente. Gli disse: "Le buone famiglie tendono a tacere". Libero Grassi era diventato un obiettivo "politico" dei boss. E poi militare. Era solo. E uno da solo non può ribellarsi a Cosa Nostra. Sarà l'inizio della fine di un'epoca il grande raduno al teatro Biondo? Quella dei libri mastri, dei contabili dei mafiosi che con maniacale precisione custodiscono il registro delle entrate e delle uscite, che concedono pagamenti a rate ai commercianti in difficoltà, che fanno sconti in caso di lutto in famiglia? Sarà l'inizio della fine per le sanguisughe di Palermo? (11 novembre 2007)
sabato 10 novembre 2007
francesco merlo: il birazzismo del panzino
Il birazzismo del Panzino
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Senza alcuna intenzione offensiva debbo dire che la prosa ricca di aggettivi a volte estremi di Francesco Merlo (*) mi ricorda quella di GianPaolo Panza famoso per invenzioni linguistiche fascinose come "la balena bianca" per indicare la DC o "baffino di ferro" per indicare D'Alema. Francesco Merlo si sforza di imitare il Panza ma i risultati non sono sempre incoraggianti.
Ieri si è lasciato andare ad una lunga acrimoniosa ed a volte velenosetta scorribanda nei quartieri meridionali ed in particolare in quelli siciliani. Un lungo pezzo dove ho contato un numero di aggettivi ragguardevole che in sostanza è l'estrinsecazione di un proverbio siciliano "niuru cu niuru non tingi!" in sostanza per dire che criminali noi siciliani (tutti? Si tutti se non criminali, "marinati" nella cultura del crimine), criminali i rumeni abbiamo gli anticorpi e la conoscenza necessari per non subirne le violenze.
Sono stupito! Manco se il nostro Merlo fosse nato in Sicilia e subisse quella sindrome meravigliosamente descritta da Nino Martoglio ne "l'aria del continente", la sindrome di chi, trapiantato in Italia (continente), nei suoi rientri nell'Isola ostenta il "tischi toschi", modi ed abitudini contratti al nord esibiti goffamente ma con molta sicumera. Ma penso che il nostro Merlo sia nato a Torino e quindi, al massimo, avrà la mentalità dei pedemontani fruitori dell'impresa dei Mille!.
Ad un certo punto del suo componimento parla dei pellegrinaggi degli srilankesi al santuario di Santa Rosalia, un lunga arrampicata in processione sul bellissimo monte che sovrasta il porto di Palermo per recare ceri o altri doni alla Santuzza. Se il Merlo si fosse preso la briga di approfondire il problema saprebbe che, da sempre, nei ristoranti cingalesi di Palermo sono esposti quadri delle divinità indiane accanto a quelle di Cristo, la Madonna con il naso di elefante accanto alla nostra Madonna! La cultura religiosa di questi civilissimi indiani è sincretistica, rispetta come manifestazioni della divinità tutte le divinità esistenti al mondo come del resto facevano gli antichi romani che vennero alle mani con i cristiani perchè questi volevano che soltanto il loro Dio fosse considerato tale e si rifutavano di adorare la figura dell'imperatore, cioè di sottomettersi al potere civile. Mi viene da pensare come sarebbe stato migliore il mondo senza i monoteismi. Ieri sera, sfogliando un vecchio libro di storia, ho avuto modo di guardare con rinnovato orrore una stampa che illustra la decapitazione dei musulmani ad opera dei Templari!
Mi viene ancora da pensare al coraggioso e cristianissimo parroco di Treviso (l'antro del lupo razzista) che apre la porta della sua Chiesa ai musulmani riconoscendosi con ciò nella verità più profonda del cristianesimo. "Ama il prossimo tuo come te stesso".
Ieri è stata una giornata durissima per i pennivendoli razzisti: le dichiarazioni di Barroso contro i nazionalismi, l'intervista del Prefetto di Roma che è una lezione di etica civile da trasmettere a tutte le scuole italiane, il gesto del parroco trevisano. Il Paese, avvelenato da mesi e mesi di martellamento massmediatico xenofobo ha respirato tre piccole boccate di ossigeno!
Per quanto scrive Merlo non vale la pena neppure di smentirlo riga per riga. La generalizzazione xenofoba che fa dei siciliani o dei calabresi (come se i ragazzi di Locri fossero identici ai mafiosi) è frutto di pregiudizi nutriti da ignoranza. La Sicilia è popolata da persone civili ed anche da persone meno civili. E' raro trovarvi il razzismo nel senso che abbiamo ancora nelle orecchie il "forza etna" dei razzisti veneti e nel senso che il popolo siciliano vivente nel mondo se sommato è più di venti milioni di persone. Niuru cu niuri non tingi perchè tra discriminati scatta il meccanismo della solidarietà. Se i rumeni fossero stati ricchi non avrebbero subito la discriminazione degli avidi e feroci sfruttatori italiani che impiantando le industrie in Romania hanno fatto opera di rapina e di sevizie sociali pagando dieci ore di lavoro per pochi spiccioli al mese! I russi ricchissimi del post muro di Berlino vengono accolti con ruffianierie a non finire appunto perchè hanno gli "sghei" che è l'unica cosa che certa subcultura di destra riesce a rispettare.
Da noi la comunità dello Sri Lanka vive da oltre venti anni e conta diecimila persone. Palermo accoglie nella sua povertà meridionale oltre centomila stranieri. A casa mia viene con la madre una volta la settimana una bellissima ed intelligentissima bambina nata a Palermo con genitori delle Isole mauritiane. Spero di vivere abbastanza per aiutarla a laurearsi (la madre non ha potuto per quattro materie bloccata dal bisogno di lavorare). Il palazzo dove abito e dove siamo ormai quasi tutti anziani, essendo stato costruito nel millenovecento sessanta, è popolato da silenziose e sorridenti rumene a volte anche con due lauree, che con grande dignità curano nostri vecchi e li accompagnano a passeggio o a fare l'elettrocardiogramma. Ebbene io vedo in loro esseri umani. Io mi sento un essere umano quando penso a loro come esseri umani dentro i quali ci può anche essere l'assassino di Giovanna come dentro di noi ci può essere l'assassino della ragazza di Perugia. Ma io voglio sperare in un futuro in cui i valori della civiltà siano talmente forti ed incombenti da rendere impossibile la soppressione di una sola vita umana!
Pietro Ancona
(*)
http://www.decidiamoinsieme.it/su-vari-temi/21_romeni-rom-e-altri/
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Senza alcuna intenzione offensiva debbo dire che la prosa ricca di aggettivi a volte estremi di Francesco Merlo (*) mi ricorda quella di GianPaolo Panza famoso per invenzioni linguistiche fascinose come "la balena bianca" per indicare la DC o "baffino di ferro" per indicare D'Alema. Francesco Merlo si sforza di imitare il Panza ma i risultati non sono sempre incoraggianti.
Ieri si è lasciato andare ad una lunga acrimoniosa ed a volte velenosetta scorribanda nei quartieri meridionali ed in particolare in quelli siciliani. Un lungo pezzo dove ho contato un numero di aggettivi ragguardevole che in sostanza è l'estrinsecazione di un proverbio siciliano "niuru cu niuru non tingi!" in sostanza per dire che criminali noi siciliani (tutti? Si tutti se non criminali, "marinati" nella cultura del crimine), criminali i rumeni abbiamo gli anticorpi e la conoscenza necessari per non subirne le violenze.
Sono stupito! Manco se il nostro Merlo fosse nato in Sicilia e subisse quella sindrome meravigliosamente descritta da Nino Martoglio ne "l'aria del continente", la sindrome di chi, trapiantato in Italia (continente), nei suoi rientri nell'Isola ostenta il "tischi toschi", modi ed abitudini contratti al nord esibiti goffamente ma con molta sicumera. Ma penso che il nostro Merlo sia nato a Torino e quindi, al massimo, avrà la mentalità dei pedemontani fruitori dell'impresa dei Mille!.
Ad un certo punto del suo componimento parla dei pellegrinaggi degli srilankesi al santuario di Santa Rosalia, un lunga arrampicata in processione sul bellissimo monte che sovrasta il porto di Palermo per recare ceri o altri doni alla Santuzza. Se il Merlo si fosse preso la briga di approfondire il problema saprebbe che, da sempre, nei ristoranti cingalesi di Palermo sono esposti quadri delle divinità indiane accanto a quelle di Cristo, la Madonna con il naso di elefante accanto alla nostra Madonna! La cultura religiosa di questi civilissimi indiani è sincretistica, rispetta come manifestazioni della divinità tutte le divinità esistenti al mondo come del resto facevano gli antichi romani che vennero alle mani con i cristiani perchè questi volevano che soltanto il loro Dio fosse considerato tale e si rifutavano di adorare la figura dell'imperatore, cioè di sottomettersi al potere civile. Mi viene da pensare come sarebbe stato migliore il mondo senza i monoteismi. Ieri sera, sfogliando un vecchio libro di storia, ho avuto modo di guardare con rinnovato orrore una stampa che illustra la decapitazione dei musulmani ad opera dei Templari!
Mi viene ancora da pensare al coraggioso e cristianissimo parroco di Treviso (l'antro del lupo razzista) che apre la porta della sua Chiesa ai musulmani riconoscendosi con ciò nella verità più profonda del cristianesimo. "Ama il prossimo tuo come te stesso".
Ieri è stata una giornata durissima per i pennivendoli razzisti: le dichiarazioni di Barroso contro i nazionalismi, l'intervista del Prefetto di Roma che è una lezione di etica civile da trasmettere a tutte le scuole italiane, il gesto del parroco trevisano. Il Paese, avvelenato da mesi e mesi di martellamento massmediatico xenofobo ha respirato tre piccole boccate di ossigeno!
Per quanto scrive Merlo non vale la pena neppure di smentirlo riga per riga. La generalizzazione xenofoba che fa dei siciliani o dei calabresi (come se i ragazzi di Locri fossero identici ai mafiosi) è frutto di pregiudizi nutriti da ignoranza. La Sicilia è popolata da persone civili ed anche da persone meno civili. E' raro trovarvi il razzismo nel senso che abbiamo ancora nelle orecchie il "forza etna" dei razzisti veneti e nel senso che il popolo siciliano vivente nel mondo se sommato è più di venti milioni di persone. Niuru cu niuri non tingi perchè tra discriminati scatta il meccanismo della solidarietà. Se i rumeni fossero stati ricchi non avrebbero subito la discriminazione degli avidi e feroci sfruttatori italiani che impiantando le industrie in Romania hanno fatto opera di rapina e di sevizie sociali pagando dieci ore di lavoro per pochi spiccioli al mese! I russi ricchissimi del post muro di Berlino vengono accolti con ruffianierie a non finire appunto perchè hanno gli "sghei" che è l'unica cosa che certa subcultura di destra riesce a rispettare.
Da noi la comunità dello Sri Lanka vive da oltre venti anni e conta diecimila persone. Palermo accoglie nella sua povertà meridionale oltre centomila stranieri. A casa mia viene con la madre una volta la settimana una bellissima ed intelligentissima bambina nata a Palermo con genitori delle Isole mauritiane. Spero di vivere abbastanza per aiutarla a laurearsi (la madre non ha potuto per quattro materie bloccata dal bisogno di lavorare). Il palazzo dove abito e dove siamo ormai quasi tutti anziani, essendo stato costruito nel millenovecento sessanta, è popolato da silenziose e sorridenti rumene a volte anche con due lauree, che con grande dignità curano nostri vecchi e li accompagnano a passeggio o a fare l'elettrocardiogramma. Ebbene io vedo in loro esseri umani. Io mi sento un essere umano quando penso a loro come esseri umani dentro i quali ci può anche essere l'assassino di Giovanna come dentro di noi ci può essere l'assassino della ragazza di Perugia. Ma io voglio sperare in un futuro in cui i valori della civiltà siano talmente forti ed incombenti da rendere impossibile la soppressione di una sola vita umana!
Pietro Ancona
(*)
http://www.decidiamoinsieme.it/su-vari-temi/21_romeni-rom-e-altri/
venerdì 9 novembre 2007
Corriere della Sera > Cronache > Una chiesa al venerdì diventa moschea Cronache LA DECISIONE DEL PARROCO DI Paderno Veneto. zAIA (LEGA): IL VESCOVO CHIARISCA
Una chiesa al venerdì diventa moschea
«Non c'è dialogo se si chiudono le porte. Preferisco i musulmani che pregano ai cristiani che bestemmiano»
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SONDAGGIO
In Veneto, il parroco di Paderno di Ponzano Veneto apre ogni venedì le porte della parrocchia per far pregare i musulmani. Siete d'accordo?
VOTARISULTATI 53% Si 47 no
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Musulmani in preghiera (Ansa)
PONZANO VENETO (Treviso) - C'è una chiesa, a Paderno di Ponzano Veneto, che di venerdì diventa moschea, per favorire l'integrazione religiosa. Il parroco di Santa Maria Assunta, don Aldo Danieli, ha deciso di riservare alcuni locali della parrocchia alla preghiera e all'incontro degli immigrati musulmani. A Ponzano, che si trova in provincia di Treviso, risiedono 11.400 abitanti mentre i nuclei familiari di immigrati stranieri sono 232, circa 650 persone, provenienti soprattutto dal Nord Africa e dall'Est Europa.
IL DIALOGO AVVIENE SE NON SI CHIUDONO LE PORTE - «È inutile parlare tanto di dialogo se poi gli sbattiamo la porta in faccia. Papa Wojtyla li ha chiamati cari fratelli musulmani, come si fa allora a chiudergli la porta? Per me sono tutti figli di Dio». Agli immigrati di fede musulmana che vivono a Paderno di Ponzano Veneto e dintorni Don Aldo, 69 anni, le porte le ha spalancate mettendo a loro disposizione per la preghiera del venerdì l'oratorio della parrocchia, con annessa cucina e palazzetto, che ha contribuito a costruire anche con le sue mani. Il venerdì sono circa 200 i musulmani che arrivano da varie parti e si riuniscono a pregare nel locale che un giorno alla settimana diventa una moschea, ma per la fine del Ramadan e la festa del montone il numero sale a 1000-1200. «Loro me l'hanno chiesto e io ho detto di sì - spiega il parroco - Gli oratori del resto rischiano di fare le ragnatele».
CRITICHE E RESISTENZE - Una decisione quella presa da don Aldo due anni fa che all'inizio ha fatto storcere il naso a più di un parrocchiano. E non solo visto che, come racconta lui stesso, anche il vescovo e la Curia hanno fatto arrivare all'orecchio di don Aldo le loro perplessità: «Io, ingenuamente, non avevo chiesto il permesso nè al vescovo, nè a nessun altro perché per me è come fare la carità - ha spiegato don Aldo -. Del resto sono più vecchio del vescovo e sono stato anche suo professore. Comunque se me lo avessero proibito non sarei stato disposto ad obbedire». Don Aldo è molto convinto della propria scelta e con i suoi parrocchiani più recalcitranti è stato chiaro fino alla provocazione: «Preferisco i musulmani che pregano ai cristiani che bestemmiano. Se pensate di farmi diventare razzista vi sbagliate». L'anno scorso a don Aldo erano arrivate alcune e-mail che lo sollecitavano a stare «con le sue pecorelle» invece di aprire le porte ai musulmani: «Qualcuno mi diceva di stare attento - racconta - perché dove vanno a pregare prima «ci sgozzano i montoni» e «poi diventano padroni loro». Insomma le contestazioni non sono mancate, ma io ho riunito il Consiglio pastorale e ho spiegato che non bisogna avere paura. Il Papa ci invita a spalancare le porte a Cristo e Cristo sono anche i musulmani. Adesso va meglio. È un processo lento e faticoso, ma sta cominciando».
IL VESCOVO INDAGHI - «Mi appello al vescovo Mazzocato perchè chiarisca la posizione di questo parroco che non sono convinto sia in linea con il comune sentire della Chiesa; non mi risulta, infatti, ci siano state in Veneto altre iniziative di questo genere». E' stato questo il commento del Vicepresidente della Giunta Regionale del Veneto, Luca Zaia, alla decisione del parroco di Ponzano Veneto. «A parte il fatto che non esiste in questo nessun principio di reciprocità - ha detto Zaia - visto che nei loro Paesi non ci prestano certo le moschee per svolgere le nostre funzioni, comunque, la mia non vuole essere una presa di posizione frutto di pregiudizi, semplicemente non mi si faccia credere che l'integrazione passa attraverso queste iniziative 'buoniste'. Io dico che integrazione significa ben altro e il processo, semmai, deve essere inverso, deve partire dagli immigrati. Sono loro a dover dimostrare che desiderano veramente integrarsi e per far ciò devono innanzitutto cominciare a rispettare le nostre leggi, i nostri usi e costumi, le nostre tradizioni, la nostra identità e la nostra cultura. Gli immigrati devono sapere che, a casa nostra, prima di rivendicare diritti bisogna aver adempiuto ai propri doveri».
09 novembre 2007
Una chiesa al venerdì diventa moschea
«Non c'è dialogo se si chiudono le porte. Preferisco i musulmani che pregano ai cristiani che bestemmiano»
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SONDAGGIO
In Veneto, il parroco di Paderno di Ponzano Veneto apre ogni venedì le porte della parrocchia per far pregare i musulmani. Siete d'accordo?
VOTARISULTATI 53% Si 47 no
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Musulmani in preghiera (Ansa)
PONZANO VENETO (Treviso) - C'è una chiesa, a Paderno di Ponzano Veneto, che di venerdì diventa moschea, per favorire l'integrazione religiosa. Il parroco di Santa Maria Assunta, don Aldo Danieli, ha deciso di riservare alcuni locali della parrocchia alla preghiera e all'incontro degli immigrati musulmani. A Ponzano, che si trova in provincia di Treviso, risiedono 11.400 abitanti mentre i nuclei familiari di immigrati stranieri sono 232, circa 650 persone, provenienti soprattutto dal Nord Africa e dall'Est Europa.
IL DIALOGO AVVIENE SE NON SI CHIUDONO LE PORTE - «È inutile parlare tanto di dialogo se poi gli sbattiamo la porta in faccia. Papa Wojtyla li ha chiamati cari fratelli musulmani, come si fa allora a chiudergli la porta? Per me sono tutti figli di Dio». Agli immigrati di fede musulmana che vivono a Paderno di Ponzano Veneto e dintorni Don Aldo, 69 anni, le porte le ha spalancate mettendo a loro disposizione per la preghiera del venerdì l'oratorio della parrocchia, con annessa cucina e palazzetto, che ha contribuito a costruire anche con le sue mani. Il venerdì sono circa 200 i musulmani che arrivano da varie parti e si riuniscono a pregare nel locale che un giorno alla settimana diventa una moschea, ma per la fine del Ramadan e la festa del montone il numero sale a 1000-1200. «Loro me l'hanno chiesto e io ho detto di sì - spiega il parroco - Gli oratori del resto rischiano di fare le ragnatele».
CRITICHE E RESISTENZE - Una decisione quella presa da don Aldo due anni fa che all'inizio ha fatto storcere il naso a più di un parrocchiano. E non solo visto che, come racconta lui stesso, anche il vescovo e la Curia hanno fatto arrivare all'orecchio di don Aldo le loro perplessità: «Io, ingenuamente, non avevo chiesto il permesso nè al vescovo, nè a nessun altro perché per me è come fare la carità - ha spiegato don Aldo -. Del resto sono più vecchio del vescovo e sono stato anche suo professore. Comunque se me lo avessero proibito non sarei stato disposto ad obbedire». Don Aldo è molto convinto della propria scelta e con i suoi parrocchiani più recalcitranti è stato chiaro fino alla provocazione: «Preferisco i musulmani che pregano ai cristiani che bestemmiano. Se pensate di farmi diventare razzista vi sbagliate». L'anno scorso a don Aldo erano arrivate alcune e-mail che lo sollecitavano a stare «con le sue pecorelle» invece di aprire le porte ai musulmani: «Qualcuno mi diceva di stare attento - racconta - perché dove vanno a pregare prima «ci sgozzano i montoni» e «poi diventano padroni loro». Insomma le contestazioni non sono mancate, ma io ho riunito il Consiglio pastorale e ho spiegato che non bisogna avere paura. Il Papa ci invita a spalancare le porte a Cristo e Cristo sono anche i musulmani. Adesso va meglio. È un processo lento e faticoso, ma sta cominciando».
IL VESCOVO INDAGHI - «Mi appello al vescovo Mazzocato perchè chiarisca la posizione di questo parroco che non sono convinto sia in linea con il comune sentire della Chiesa; non mi risulta, infatti, ci siano state in Veneto altre iniziative di questo genere». E' stato questo il commento del Vicepresidente della Giunta Regionale del Veneto, Luca Zaia, alla decisione del parroco di Ponzano Veneto. «A parte il fatto che non esiste in questo nessun principio di reciprocità - ha detto Zaia - visto che nei loro Paesi non ci prestano certo le moschee per svolgere le nostre funzioni, comunque, la mia non vuole essere una presa di posizione frutto di pregiudizi, semplicemente non mi si faccia credere che l'integrazione passa attraverso queste iniziative 'buoniste'. Io dico che integrazione significa ben altro e il processo, semmai, deve essere inverso, deve partire dagli immigrati. Sono loro a dover dimostrare che desiderano veramente integrarsi e per far ciò devono innanzitutto cominciare a rispettare le nostre leggi, i nostri usi e costumi, le nostre tradizioni, la nostra identità e la nostra cultura. Gli immigrati devono sapere che, a casa nostra, prima di rivendicare diritti bisogna aver adempiuto ai propri doveri».
09 novembre 2007
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