lunedì 25 luglio 2011

L'ambiguo compromesso del 28 giugno di Umberto Romagnoli

DALLA RIVISTA "EGUAGLIANZA E LIBERTA'

Sindacato


L'ambiguo compromesso del 28 giugno
Per valutare l’intesa sindacati-Confindustria la cautela è d’obbligo, sia
per i suoi aspetti contraddittori (come ad esempio il principio della
preminenza del contratto collettivo nazionale che coesiste con quello della
sua derogabilità), sia perché non scioglie il nodo della rappresentatività.
Ma quest’ultimo punto, in questa fase politica, forse non è un male
Umberto Romagnoli
Ormai, il codice comunicativo di cui si servono gli attori collettivi è
decifrabile con crescente difficoltà dagli esperti di diritto sindacale;
figurarsi l’effetto che fa sui comuni mortali. Anche per questo i mass media
si sono limitati ad informare che, sottoscrivendo l’intesa del 28 giugno, le
parti sociali hanno compiuto un gesto di responsabilità. Ma hanno fornito
notizie superficiali e incomplete sui contenuti effettivamente negoziati.
Per esempio, ai più è sfuggito che un conto è leggere in un saggio di
dottrina che la clausola di tregua non ha effetto vincolante per i singoli
lavoratori, perché la titolarità individuale del diritto di sciopero
(secondo l’opinione prevalente) non si tocca; cosa diversa è vedere
riportata la medesima opinione nel testo di un accordo sindacale. Infatti,
il punto 6 dell’intesa, riconoscendo la liceità sia della conflittualità
sociale spontanea (una volta la definivano selvaggia) che dell’azione di
prevenzione e contrasto alla medesima che il sindacato s’impegna con la
controparte a sviluppare, dà per scontato che lo scollamento tra la logica
del comportamento dell’organizzazione e la dinamica degli interessi reali
rientri nella normalità: come dire che il sindacato sa di avere piazzato nel
suo sottoscala una carica di tritolo che potrebbe scoppiare là per là, senza
preoccuparsi che in questo modo finisca per deteriorarsi il tessuto
democratico.
Analogamente, si evita di precisare che la RSU è di natura ibrida, perché
non tutti i componenti hanno legittimazione elettorale, e che quelli
designati dal sindacato (nella misura di un terzo della totalità) possono
essere di fatto e de iure determinanti per la formazione della maggioranza
(semplice) che chiude la trattativa aziendale. Non saprei dire se e quanto
calcolata, ma la reticenza rende meno impressionante la circostanza che i
destinatari degli effetti del contratto non hanno diritto a manifestare l’eventuale
dissenso (punto 4). Insomma, la valorizzazione della RSU come agente
contrattuale è accompagnata da una presunzione assoluta di consenso dei
diretti interessati che le permette di operare in un clima di accentuato
decisionismo.
Come si vede, la povertà dell’informazione data in pasto al grande pubblico
contribuisce a rendere insuperabile la sfida dell’ermetismo del documento.
Vero è che ogni mestiere è contraddistinto da un linguaggio gergale. Ma ciò
che imbarazza è lo sfuggente quadro d’insieme, la contraddittorietà degli
orientamenti che vi affiorano, la mancanza di condivisione progettuale.
Infatti,
- il principio della preminenza del contratto collettivo nazionale (punti 2
e 3) coesiste con quello della sua derogabilità, la cui latitudine potrà
variare da un minimo ad un massimo inimmaginabili a priori (punto 3), ma che
(come dispone il punto 7 che ha l’aria di equivalere ad una disposizione di
diritto tra il transitorio e il suppletivo) è ammessa anche “ove non
prevista” e comunque “in attesa” dei prossimi rinnovi contrattuali.
- L’assunto che tutti i lavoratori devono poter contare sugli standard
protettivi fissati dal contratto collettivo nazionale è ribadito e condiviso
(punto 2), ma questo contratto è orfano dell’erga omnes; cui oltretutto gli
stessi sindacati sono da sempre avversi, perché temono i Danai anche se
portano doni, e difatti non li sollecitano: come invece succede per la
contrattazione aziendale a favore della quale il punto 8 auspica, con le
movenze di un avviso comune, interventi del potere pubblico sub specie di
facilitazioni fiscali (punto 8).
- La legittimazione della RSA come agente contrattuale, sia pure sulla base
di una presunzione di consenso soltanto relativa (punto 5), potrebbe
emarginare dallo scenario delle relazioni sindacali a livello aziendale un
istituto di natura (ancora soltanto) convenzionale come la RSU: tutto
dipende dall’andamento del processo di riconciliazione appena riaperto tra
le confederazioni e dunque dalla volontà di istituire RSU anziché RSA. Alla
fin dei conti, la sopravvivenza della RSU dipende fondamentalmente dalla
necessità di azionare il meccanismo di calcolo adottato per misurare la
rappresentatività sindacale a livello nazionale (punto 1); ragion per cui la
diffusione della RSU diventa una variabile dipendente dalla tenuta dell’opzione
favorevole alla centralità del contratto nazionale: cosa cui le parti
sociali non sembrano particolarmente interessate, visto che il contratto
aziendale può definire “specifiche intese modificative anche in via
sperimentale e temporanea” (punto 7). “Anche”, sta scritto proprio così; e
la congiunzione, se non è il frutto di un involontario e innocente lapsus
calami, sottintende che la figura del contratto aziendale derogatorio “in
via sperimentale e temporanea” si aggiunge alla figura principale: quella
del contratto aziendale definitivamente sostitutivo.
In conclusione, gli attori collettivi esibiscono una concezione proprietaria
della rappresentanza e della contrattazione collettiva che non si sa se
definire proterva o ingenua. Di sicuro, risale all’epoca precostituzionale
delle sue origini. Il che significa che hanno interiorizzato il privilegio
di far da sé in un contesto che ne esalta l’autonomia negoziale a tal segno
da ritenere di poterla esercitare non solo al di fuori, ma anche al di sopra
delle leggi dello Stato.
Per quanto sia meritoriamente percorsa da ritrovate pulsioni unitarie, l’intesa
del 28 giugno è tardiva ed insieme prematura. E’ tardiva perché è arrivata
solamente in seguito alla, e in conseguenza della, crisi di sistema che ha
invelenito le relazioni sindacali, traumatizzato il mondo del lavoro e
umiliato il suo settore più direttamente coinvolto. Al tempo stesso, l’intesa
è prematura perché brucia i tempi di una storia giuridica del diritto
sindacale avvitata nella monocultura del cosiddetto diritto comune.
Infatti, ha del paradossale che il tentativo (riconoscibile nella
formulazione del punto 1) di dare al contratto nazionale di lavoro un
assetto più adeguato al ruolo che dovrebbe svolgere secondo le previsioni
costituzionali sia stata inserito nell’agenda delle priorità solamente per
liberalizzare gli sviluppi della contrattazione aziendale in deroga. Come
dire che il processo di rimozione delle incertezze regolative che
indeboliscono la contrattazione nazionale nel dopo-costituzione ha ricevuto
un’improvvisa accelerazione proprio perché, e quando, molti vorrebbero che
la contrattazione aziendale facesse fare al livello negoziale superiore la
fine del maschio dell’ape regina: avvenuta la fecondazione, muore. Mai,
infatti, nemmeno quando il contratto nazionale di categoria era l’unica e
più attiva fonte di produzione di regole del lavoro dipendente, gli
interrogativi suscitati dal suo precario e rabberciato impianto normativo
sono stati oggetto dell’ossessiva attenzione che le parti sociali dedicano
al contratto aziendale d’inizio millennio. Sgradevole quanto fondato,
pertanto, è il sospetto che, se la Confindustria (come, peraltro, la coppia
Cisl-Uil) non fosse stata pressata dall’esigenza di attribuire ai contratti
aziendali conclusi dalle RSA un’efficacia ultra partes, non sarebbe stato
sancito l’obbligo degli agenti contrattuali a livello nazionale di rifarsi
il maquillage in senso virtuosamente democraticistico. Anzi, unitamente alla
previsione del test della validazione consensuale dei contrati aziendali
stipulati dalle RSA, la verificabilità preventiva della rappresentatività è
la misura compensativa di maggior spessore ottenuta dalla Cgil in cambio del
suo avallo alla svolta della contrattazione collettiva in chiave
aziendalistica.
Al di là di questo aspetto, il dubbio più inquietante è che con l’intesa sia
stato siglato l’ennesimo armistizio di una guerra cominciata per inutile
necessità tanto tempo fa. L’ossimoro – che piacerebbe all’inventore del
teatro dell’assurdo – rimanda alla stagione in cui lo stesso sindacato si
batteva per de-costituzionalizzare l’intero diritto sindacale ed esprime l’idea
che, adesso, anche lui dovrebbe rendersi conto di avere partecipato ad una
guerra destinata a chiudersi senza vinti né vincitori. Il fatto è che,
sbagliando nel momento giusto, aveva ragione ad avere torto ed erano gli
altri ad avere torto, perché avevano ragione nel momento sbagliato.
A lasciarli fare, i nostalgici dello Stato che ci aveva preso gusto a
comportarsi da padre-padrone del sindacato avrebbero cercato in tutti i modi
di riprodurre l’eguale nel diseguale; mentre proprio un movimento
sindacale – che aveva ritardi storici da colmare quanto ad esperienza di
libertà – aveva uno straordinario bisogno della chance di costruirsi la sua,
imparando la grammatica e la sintassi del diritto generato dai gruppi in un
regime di autoregolazione sociale il più lontano possibile dal diritto
pubblico: gli schemi regolativi prefabbricati glielo avrebbero impedito e lo
avrebbero soffocato in fretta.
In un soprassalto di autocritica, però, il sindacato e noi con lui dovremmo
riconoscere che l’errore del passato – ma, ripeto, fu una culpa felix – è
stato quello di avere alimentato la vulgata immunitaria che nasconde, anche
se solamente a se stessa, che il sindacato è un’associazione privata
originata da un contratto liberamente stipulato e, ciononostante, incline ad
omologarsi alle istituzioni in bilico tra pubblico e privato, ma più
sbilanciate verso il pubblico che verso il privato.
Infatti, la sindrome universalista che ne fa un soggetto proclive a
contrattare con efficacia generale e a sollecitare la partecipazione agli
scioperi anche dei non-iscritti ha resistito. Ma la cosa non stupisce. “La
bipolarità del sindacato come libero soggetto di autotutela in una sfera di
diritto privato e, al tempo stesso, come soggetto di una funzione pubblica è
presente nella stessa Costituzione”. Parola di padre costituente: si
chiamava Vittorio Foa.
Quindi, se l’Assemblea deliberò che il potere contrattuale collettivo è
proporzionato alla consistenza associativa del sindacato che lo esercita
(art. 39) è solo perché sapeva che bisognava marcare una netta cesura con l’esperienza
corporativa ove il sindacato era un terminale della burocrazia statale. Per
questo, giudicò opportuno enfatizzare quella che Max Weber definirebbe l’etica
del consenso. Senza però l’intenzione di sacralizzarne l’esclusività. Anzi,
un indicatore di natura elettiva capace di misurare l’ampiezza del consenso
sociale oltre la sfera della rappresentanza associativa è il più aderente
alla valenza istituzionale di un sindacato inclusivo come il nostro ed il
più compatibile con i fondamenti di una democrazia. Come testimonia l’esperienza
di diritto comparato, è un’ulteriore verifica che, sommandosi alla prima,
irrobustisce la legittimazione del potere collettivo nella misura in cui
permette di coniugare l’etica del consenso con l’etica (direbbe ancora Max
Weber) della responsabilità politica.
La sindrome universalista del sindacato non appartiene soltanto all’ideologia
o alla retorica. Se lo statuto dei lavoratori la sponsorizzò con l’art. 19
che voltava le spalle al sindacato “degli iscritti”, la legislazione della
seconda metà degli anni ’90 – rimasta immodificata sul punto e anzi
riciclata proprio dall’intesa che sto commentando – se ne è servita per
disegnare l’identikit del sindacato “dei lavoratori”.
In proposito, è d’obbligo sottolineare che Massimo D’Antona considerava la
legge che ha contrattualizzato in chiave privatistica la disciplina del
pubblico impiego a stregua di un test aperto ad esiti atti a promuovere un
generale effetto-imitazione: un laboratorio ove si sarebbe sperimentata la
fattibilità di un più vasto programma di politica del diritto tendente a
favorire la guarigione della democrazia sindacale dal male oscuro taciuto
dal non-detto dello Statuto dei lavoratori che aveva dato scacco matto a
generazioni di operatori giuridici e sindacali, perché nessuno poteva
rispondere alle più elementari domande: del tipo “chi rappresenta chi”,
come si ottiene la legittimazione a firmare contratti collettivi e quale
efficacia giuridica essi abbiano realmente. La prospettiva dell’interazione
possibile tra pubblico e privato – dove il pubblico fa da apri-pista e il
privato segue – è delineata nelle parole conclusive del saggio di Massimo
che era ancora in bozze quando l’autore fu ucciso dalle Br: “Il nocciolo
duro dell’art. 39 trova nella riforma della contrattazione collettiva nelle
pubbliche amministrazioni il passaggio verso una nuova stagione della
legislazione sindacale post-Costituzionale”.
Orbene, se quella è stata la manifestazione più significativa della
persistente attualità della sindrome universalista del sindacato, a distanza
di alcuni lustri l’incipit dell’intesa del 28 giugno ne costituisce una
ulteriore e non secondaria riprova. Riconfermare che “il contratto
collettivo nazionale ha la funzione di garantire la certezza dei trattamenti
economici e normativi per tutti i lavoratori del settore ovunque impiegati
nel territorio nazionale” (punto 2) ha un significato forte. In una
situazione caratterizzata da opzioni largamente favorevoli alla
contrattazione aziendale, vuol dire riaffermare l’esistenza di una gerarchia
dei livelli negoziali, per cui “la contrattazione collettiva aziendale si
esercita per le materie delegate, in tutto o in parte, dal contratto
collettivo di categoria” (punto 3). Sicuramente, è proprio per rafforzare l’autorevolezza
del livello superiore nella sua pretesa di governare l’insieme delle
politiche contrattuali che il punto 1 obbliga i relativi agenti contrattuali
a certificare la propria rappresentatività in base a regole mutuate dalla
legislazione vigente da alcuni lustri nell’area del pubblico impiego e
predetermina la soglia al di sotto della quale non si acquista la
legittimazione a negoziare.
Però, la trasposizione in sede pattizia del modello legislativo di
riferimento è parziale. Non si dice come il contratto potrà essere
stipulato. Non viene presa in considerazione nemmeno l’eventualità che possa
ripetersi l’esperienza della contrattazione separata a livello nazionale che
aveva affaticato la fase più recente dei rapporti sindacali; e l’omissione
equivale alla scelta di non escluderla. In sostanza, tutto resta come prima.
Dunque, il discorso sulla contrattazione nazionale si spezza bruscamente,
come un coitus interruptus sul più bello, e si passa ad altro. Il cuore dell’intesa,
infatti, è la soluzione del problema dell’efficacia vincolante del contratto
aziendale nei confronti di coloro che non sono sindacalmente organizzati o
appartengono a sindacati non-firmatari. E’ il ritorno del tormentone
esorcizzato, ma non rimosso, dell’estensione dell’efficacia oltre il
perimetro tracciato dal diritto comune dei contratti tra privati, per il
quale il contratto ha forza di legge solamente tra le parti.
Il problema, come ho già detto, è risolto prevedendo due forme di contratti
aziendali: distinte per soggetti ed effetti prodotti. Per soggetti, perché
agenti contrattuali possono essere tanto le RSU quanto le RSA. Per effetti,
perché l’efficacia vincolante per tutto il personale del contratto firmato
dalla RSU si produce col funzionamento di un semplice automatismo, mentre il
contratto firmato dalla RSA è esposto al rischio della destabilizzazione in
seguito ad un vaglio referendario a richiesta dei dissenzienti.
Vista la percezione negativa che si è guadagnata negli ambienti sindacali la
prassi della validazione per via referendaria dei contratti collettivi, si
potrebbe congetturare che il contratto firmato dalla RSU sia il più
desiderabile. Tuttavia, l’intero castello non può reggere per deficit di
base legale, perché condivide l’insostenibile leggerezza dell’autoreferenzialità
di soggetti che si ritengono blindati dentro un ordinamento domestico sulla
soglia del quale anche lo Stato deve arrestarsi, con le sue leggi e i suoi
giudici, attribuendo una portata paralegislativa al loro bricolage
negoziale.
Il passaggio dalla RSA statutarie alle RSU non è stato legificato e le RSU
sono tuttora ciò che sono sempre state: figli sbandati di genitori sbadati,
nati da accordi che hanno un’efficacia limitata a quanti volontariamente vi
aderiscono. Ancora una volta, insomma, gli attori del sistema
giuridico-sindacale si sono esercitati – e stavolta con più arditezza del
solito – nel gioco del labirinto noto alla tradizione dell’enigmistica. Esso
consiste nell’indovinare un percorso la cui meta è la scoperta d’una entità
contraddittoria, come può esserlo un’organizzazione della società civile
che, senza rinunciare alle sue radici extra-legali, aspira ad impadronirsi
dell’autorità che è propria delle istituzioni riconducibili ai paradigmi
categorizzati dal diritto dello Stato. Il labirinto, come si sa, ha molti
falsi ingressi. Se ne sceglie uno a piacere, si fa un giretto e ci si
ritrova subito fuori. E’ successo anche il 28 giugno. E non poteva non
succedere perché l’efficacia estesa ai terzi è un predicato sconosciuto al
diritto dei contratti. Per questo, malgrado l’impressionante numero di
chiodi che sigillano la bara in cui è stato deposto e giace, l’art. 39
somiglia ad una stella morta da cui continua ad arrivare la luce,
testimoniando con ciò che la sua inattuazione non gli impedisce di
conservare attualità.
Poiché questo è il nodo irrisolto del diritto sindacale nel
dopo-Costituzione, è presumibile che gli attori collettivi continueranno ad
aggirarsi nel loro labirinto. E lo faranno non solo perché amano galleggiare
nel limbo strategico che riescono a mascherare solamente coi cerotti dell’unità
d’azione tra sindacati disposti a sottoporsi ad una cura omeopatica che li
fa apparire omogenei e quasi eguali, ma anche perché – in presenza di una
maggioranza parlamentare che ha certificato all’unanimità che Ruby è nipote
di Mubarak – è opportuno che l’art. 39 resti dove la storia lo ha finora
condannato a stare. Come dire che la sua persistente attualità non equivale
(ancora) alla sua attuabilità.
Ad ogni modo, l’intesa del 28 giugno non è soltanto quel che a prima vista
sembrerebbe: il remake di un film proiettato in più occasioni sullo schermo
delle relazioni sindacali in Italia. La dinamica del negoziato è stata
pesantemente influenzata da due illustri convitati di pietra: la Fiom e la
Fiat. La loro presenza ha disseppellito e reso visibile un elemento
costitutivo della contrattazione collettiva. Non c’è infatti contratto
collettivo che non sia espressione della logica autodifensiva dei contraenti
che ragionano da soggetti organizzati che vogliono durare e rafforzarsi
proprio tramite l’azione contrattuale. Come il padrone non si siede al
tavolo contrattuale coi sindacati per trattare la propria estinzione, così i
sindacati partecipano alle trattative per riceverne la linfa necessaria per
mettersi in sicurezza come organizzazioni.
Stavolta, la Confindustria era tenuta a difendere l’integrità di una
membership insidiata dalla minaccia di secessione del suo associato
simbolicamente più significativo e la Cgil doveva uscire dall’isolamento in
cui, con la complicità di Cisl e Uil, era piombata in seguito all’emarginazione
dal circuito contrattuale e che il ribellismo della Fiom aveva aggravato,
aumentandone la risonanza mediatica.
Benché fosse sovra-rappresentata nella trattativa interconfederale di
giugno, la Fiat si è dichiarata insoddisfatta. In primo luogo, le è toccato
subire una clausola di tregua sindacale che lascia l’impresa in balia di
scioperi spontanei (punto 6). In secondo luogo, si attendeva la ratifica
“senza se e senza ma” degli accordi aziendali che hanno provocato un nutrito
contenzioso giudiziario tuttora in corso ed invece ha dovuto accontentarsi
di sentirsi dire che, se fossero stipulati adesso, sarebbero validi (punto
7).
Tuttavia, l’insoddisfazione della Fiom è, se possibile, superiore. Un po’
perché il punto 7 contiene il velato (ma mica tanto) rimprovero di non avere
ascoltato il consiglio inizialmente suggerito dalla Cgil di tapparsi gli
occhi davanti ad accordi del tipo “prendere o lasciare” e, pur di restare in
gioco, apporvi una “firma tecnica”, e un po’ perché teme che la possibilità
di praticare d’ora in avanti, e fin d’ora, una contrattazione aziendale in
deroga possa orientare la magistratura verso un permissivismo lontano
anni-luce dal clima di scontro che le vicende di Pomigliano e Mirafiori
avevano creato nel paese. Per giunta, il diritto a coinvolgere i diretti
interessati nei processi decisionali che preparano la sottoscrizione dei
contratti collettivi a livello nazionale non è stato sancito e chissà se lo
sarà. Vero è che l’istanza non è stata bocciata seccamente: l’intesa
Cgil-Cisl-Uil allegata all’intesa del 28 giugno ne rinvia l’esame a momenti
successivi che non promettono granché. L’istanza referendaria cui la Fiom
non può non assegnare una valenza identitaria – dal momento che è alloggiata
nel suo statuto interno – è in netta contro-tendenza. Il suo futuro è
incerto sia perché nel frattempo si è radicato l’aristocratico e
anacronistico convincimento che il sindacato sia un po’ mandatario e un po’
tutore e che il lavoratore non abbia la piena capacità d’agire, somigliando
piuttosto ad un minorenne col complesso di Peter Pan, sia perché oggi più
che mai è minoritaria l’idea che la politica non è solo comando, ma è anche
mettere la gente nelle condizioni di governarsi da sé. Senza dire poi del
timore di rovinosi impatti sulla carriera di dirigente sindacale che spiega
la riluttanza di quanti esercitano per professione il potere di decidere “in
nome e per conto” a interpellare governati arrabbiati o delusi e mettersi
così in discussione.
Nondimeno, la Fiom farebbe bene a chiedersi se non sia ragionevole dubitare
che il coinvolgimento della base abbia necessariamente una virtù salvifica.
Nei tempi bui di una crisi economica come quella che il paese sta
attraversando, la contrattazione – segnatamente a livello aziendale – è e
sarà tendenzialmente più ablativa che concessiva, generosa nel distribuire
sacrifici e avara nel procurare vantaggi. Pertanto, la verifica del consenso
ha e avrà un esito presumibilmente confermativo, nell’ampia misura in cui si
svolge nel clima ricattatorio che favorisce il reato di estorsione. Non a
caso, a Pomigliano e altrove il referendum tra i lavoratori è stato
fermamente voluto prima di tutto dalla Fiat. E questa è una testimonianza
molto persuasiva dell’esistenza di situazioni in cui, anziché espressione di
un libero confronto democratico, il referendum sui contratti collettivi si
converte nel sogno della sola democrazia possibile. Quella che ha parecchie
delle caratteristiche di una democrazia imposta con la violenza. Come in
Iraq o in Afganista
(22/07/2011)
UMBERTO ROMAGNOLI giurista
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