La logica dell' irresponsabilità
Repubblica — 29 luglio 2009 LUCIO CARACCIOLO
CHE ci stiamo a fare in Afghanistan? Visto che quasi tremila soldati italiani vi rischiano ogni minuto la vita, questa domanda meriterebbe una risposta dal governo. Possibilmente chiara e univoca. Invece no. Come d' abitudine, quella missione è pretesto per schermaglie domestiche in politichese stretto. Con un occhio ai sondaggi e l' altro alla postura del vicino di maggioranza. Purtroppo era così anche con i precedenti governi. Evale - in modo meno scomposto - per molti alleati coinvolti sul terreno afghano, alcuni con le valigie in mano. Ma non è una buona ragione per evadere la questione. C' è una versione ufficiale, cui speriamo non credano nemmeno coloro che per presunto dovere d' ufficio continuano a martellarla. Siamo lì per una missione di pace, per stabilizzare l' Afghanistan e avviarlo sulla strada della democrazia e della libertà. Un ritornello nel quale è arduo stabilire se prevalga l' ignoranza o il cinismo. In ogni caso, nulla a che vedere con la storia e con i fatti attuali. Dai quali si ricava che noi e un' altra quarantina di paesi siamo lì per sostenere gli Stati Uniti nella guerra al terrorismo. «Correttezza politica» e discutibile lettura della nostra costituzione impediscono al governo di chiamare guerra la guerra che stiamo combattendo. Una scorsa alla qualità dei mezzi e degli uomini impiegati in teatro - quanto di meglio fra le nostre Forze Armate - oltre al crescente impiego in battaglia delle nostre truppe di élite e alle relative perdite, dovrebbero togliere ogni dubbio sul carattere della missione. Un' interpretazione più sottile del refrain ufficiale ci avverte che la volontà di compiacere l' amico americano non è fine a se stessa, ma mira a salvare la Nato. Perché se perdiamo la guerra in Afghanistan perdiamo la nostra alleanza. Tesi azzardata. Sulla carta e come organizzazione, la Nato potrà comunque avere lunga vita, a prescindere dalla campagna afghana. Anche se ogni tanto qualche decisore americano si lascia tentare dall' idea di disfarsene. Come alleanza geopolitica, è da quando ha vinto la guerra fredda che cerca uno scopo altro dal fornire supporto alle campagne decise da Washington, che spesso non sa che farsene. Sotto il profilo strategico, la Nato è morta da un pezzo. Difficile possa rimorire a Kabul. Un recente episodio valga da epitaffio. Quando Obama ha deciso di cambiare approccio nella guerra afghana, ha per conseguenza sostituito il comandante delle truppe alleate sul terreno. Ma sul fatto che a guidare le forze Nato fosse Stanley McChrystal e non più David McKiernan - scelta in teoria spettante all' insieme della galassia atlantica - il Pentagono ha deciso da solo. Sovrano. Agli altri bastasse un comunicato. Peggio. La nostra vulgata governativa è rimasta indietro rispetto all' evoluzione della strategia americana. Persino rispetto alla sua retorica. Dal centro alla periferia, si sa, le notizie arrivano distorte. Tanto più in una periferia estrema, considerata non troppo affidabile dai dirigenti della potenza numero uno. E guidata da un leader - il nostro Berlusconi - non proprio affine a Obama per biografia e profilo culturalpolitico. Sicché a Roma si stenta a percepire che questa America dall' Afghanistan se ne vuole andare appena possibile. Perché Obama sa e fa sapere che la guerra non si può vincere. A nessuno piace combattere senza coltivare alcuna speranza di successo. Inoltre, scorrendo i discorsi del presidente americano si noterà che la dizione «guerra al terrorismo» è stata messa in naftalina. Quella era la guerra di Bush. Non di Obama. E non è solo retorica. La vittoriosa campagna dell' autunno-inverno 2001, quella sì era guerra al terrorismo. A 24 carati. Si andava a stanare un nemico che aveva osato colpirti a freddo sul tuo proprio territorio, e ad abbattere il regime che lo proteggeva (o ne era protetto). Obiettivi solo parzialmente e provvisoriamente raggiunti: sulla sorte di Osama bin Laden mancano notizie certe e quanto ai talibani, se erano stati eradicati, come giuravano Bush e Blair, evidentemente sono ripiovuti dal cielo. Tanto che con l' arcinemico di ieri - o almeno con i talibani «redimibili» - trattiamo tutti, americani e «governo» di Kabul in testa. Dopo una breve parentesi, negli ultimi cinque anni la guerra ha perso il suo senso originario. Si è incrudelita. Miete vittime fra soldati e insorti (non solo talibani), ma soprattutto fra gli innocenti. Anche per il ricorso all' arma aerea, in carenza di truppe. Le nuove direttive di Obama vertono su tre priorità: afghanizzazione della guerra, irrobustendo e mandando al fronte l' «esercito di Kabul» (si fa per dire); controguerriglia seria, «stivali sul terreno»; riassorbimento di parte degli insorti nelle strutture di potere locali. Il tutto onde riportare al più presto i ragazzi a casa, salvandone la pelle - e possibilmente la faccia dell' America. Il limite di questa come di qualsiasi altra strategia americana è che i tagliagole afghani, compresi quelli «al governo» - e soprattutto le potenze regionali che tentano di manovrarli - sanno che gli occidentali non vedono l' ora di andarsene. Si preparano dunque alla contesa decisiva. Fra loro. Il punto è allora se vogliamo prendervi parte, magari per essere utilizzati dalle parti in conflitto, o meno. E' in ogni caso buona norma non restare prigionieri della propria propaganda. Contrariamente alla versione autorizzata, oggi non c' è nesso fra guerra in Afghanistan e sicurezza d' Europa o d' America. Se non forse in senso negativo. Lì si combattono infatti diverse guerre calde e fredde - fra alleati e insorti, India e Pakistan, Pakistan e Iran, signori della droga e altri banditi - nessuna delle quali deciderà del fatto che un giorno una bomba, magari non convenzionale, possa esplodere nelle nostre piazze. Come ci insegnano gli attentati di New York, Londra o Madrid, è qui da noi che bisogna anzitutto guardare. Fra cellule jihadiste e terroristifai-da-te che prescindono dalla presunta centrale qaidista incistata nell' Hindu Kush (possibile che in quasi otto anni non l' abbiamo scovata e annientata? Possibile, soprattutto se non esiste). Semmai, sono le guerre non finite e non vincibili, che per di più fingiamo di non combattere, ad eccitare e addestrare i fanatici sanguinari che un giorno vorranno emulare le gesta di Osama. Ora, è perfettamente legittimo sostenere il contrario, condannare la prospettiva del ritiro come disfattismo, vestire Obama da novello Chamberlain e ammonire che a Kabul si gioca il destino d' Italia e d' Occidente. Magari dimostrandolo. Nel qual caso la nostra missione andrebbe rafforzata: più uomini, più truppe, meno caveat. E la nostra diplomazia dovrebbe dedicarsi a riconvertire quei rammolliti degli americani. Non serve, invece, restare nevroticamente confitti nella logica dell' irresponsabilità: non dire ciò che facciamo, fare ciò che non diciamo. - LUCIO CARACCIOLO
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