lunedì 5 maggio 2008

analisi di una sconfitta

Lettera agli amici sul disastro elettorale
Cari amici e care amiche,
la convalescenza cui sono costretto mi consente tempi lunghi per la lettura e la riflessione. E’ in un
certo senso un privilegio, non fosse che questa parentesi comincia con la batosta elettorale del 13-14
aprile, cosa che spinge i pensieri sempre nella stessa direzione, procurando disorientamento e
angoscia, che per me si sommano all’isolamento dal circolo di discussione e condivisione politica
cui ero abituato fino a una dozzina di anni fa. Se quindi mi decido a proporvi qualche riflessione
sugli esiti elettorali, vi prego di non considerarlo un atto di superbia intellettuale, né la richiesta di
un impegno politico (figurarsi), quanto uno sfogo e un appello per aiutarmi nella comprensione di
fenomeni che in gran parte mi sfuggono.
La premessa, che per molti di voi sarà superflua, è che ho votato per “la sinistra l’arcobaleno” e
indipendentemente dal giudizio su di essa (su cui tornerò dopo), considero l’esito più grave di
queste elezioni la scomparsa dalle scene parlamentari di ogni riferimento (simbolico, ideale,
politico) alla sinistra “storica”, nelle sue varie componenti. Con ciò chiarisco l’angolazione del mio
ragionamento a scanso di equivoci: proprio alla luce dei risultati elettorali non posso dare per
scontato che per tutti i miei interlocutori il dato abbia lo stesso valore negativo.
Forse una sola cosa ho imparato nella trentennale frequentazione della politica (nell’autunno 1978
ho cominciato a partecipare alle riunioni di DP), costellata da innumerevoli sconfitte e disillusioni
(“Quante battaglie! Tutte perse…” ho sentito dire una volta da una mia amica vicentina:
sottoscrivo): bisogna ragionare con distacco sui fatti, non considerare ogni battuta d’arresto come la
fine di tutto, non scambiare la propria stanchezza e delusione con la morte della storia, della
sinistra, della politica, ecc. Quanto poi a praticare questa virtù, è un altro paio di maniche. Però il
nichilismo è solo una forma di assoluzione del proprio mancato impegno, uguale e contraria, però
più chiusa e inutile, della militanza “a prescindere”.
Poco utile mi sembra nella situazione attuale anche l’altro atteggiamento vagamente snob, fondato
sulla generalizzazione approssimativa dei “caratteri morali e civili degli Italiani”, che universalizza
i tratti di un paese egoista e plebeo, concludendo che non resta che l’emigrazione (in Spagna? Se è
per questo, suggerisco il Nepal: paesaggi unici, e in più il PC maoista ha appena stravinto le
elezioni). Non che io non sia un assiduo praticante di questa forma di accettazione passiva della
realtà: come potrei evitarlo, vivendo a Vicenza, una delle province più cattive, fasciste e leghiste
d’Italia? Ma è un espediente dialettico da dopocena, comodo per chi – come me – ha le spalle
economicamente coperte. Certo che l’Italia è così, berlusconismo e leghismo li conosciamo da
quindici anni, si tratta però di capire perché e come è diventata così, e anche come evolverà domani.
Insisto sul fatto del divenire perché certe affermazioni sul “destino nazionale” provengono da molti
di coloro che a lungo hanno esaltato l’anomalia italiana degli anni ’70: se l’anomalia è finita, o
piuttosto ha cambiato politicamente e socialmente di segno, dobbiamo non solo spiegarlo ma anche
ritenere che anche questa conformazione della società e della sua immagine, con la sua dura corazza
di paura e intolleranza, non è immutabile o inattaccabile. Dunque teniamo pure sullo sfondo
Leopardi, Guicciardini o Ferruccio Parri (la sua e altre interviste contenute nel recente libro di
Davide Lajolo Maestri e infedeli, risalenti a fine anni ’60, hanno già una severa e disillusa
intonazione “antitaliana”), riprendiamo in mano le profezie di Pasolini sulla “scomparsa del
popolo”, però colleghiamole ad un’osservazione dei fatti con spirito più dialettico e meno
fatalistico.
Sto divagando, vengo al tema e a considerazioni più ravvicinate e analitiche, che cerco di
organizzare per punti.
1. La destra. Peggio del 1994, peggio del 2001: è finita la transizione?
Della vittoria della destra colpiscono le dimensioni addirittura superiori a quelle del 1994 e del
2001, tanto da assorbire agevolmente la diaspora dell’UDC, nonostante l’appoggio abbastanza
esplicito che Casini ha ricevuto dal partito dei vescovi. Passato l’effetto novità (e tangentopoli) del
1994, passato lo spirito di rivalsa maturato in cinque anni di opposizione del 2001, la destra
conferma (come del resto nel 2006) di essere stabilmente e diffusamente radicata. La fulminea e
apparentemente abborracciata operazione PDL ha permesso a Berlusconi di inglobare AN –
pagando nulla a destra, poco verso l’UDC – e rafforzare l’asse privilegiato con la Lega nord –
guadagnando al Sud i voti spostati verso la Lega al nord. L’exploit della Lega ha reso travolgente e
particolarmente inquietante la vittoria: occorre del resto ricordare che l’unica sconfitta netta della
destra, nel 1996, fu causata da un’analoga performance leghista (addirittura superiore di un paio di
punti), la cui corsa solitaria determinò la maggioranza di seggi per Ulivo e compagnia desistente. Il
bacino elettorale della destra, in termini assoluti, è pressoché costante, semmai in crescita.
Insomma, nonostante alcuni segnali negativi, trascurabili sul breve periodo (ad esempio il travaso di
voti dal PDL alla Lega con conseguente esclusione di alcun big locali anche molto vicini a B, come
il sindaco uscente di Vicenza Hullweck) il cerchio delle due destre – il populismo tele-finanziario di
Berlusconi e quello manifatturiero-razzista di Bossi – sembra trovare la definitiva quadratura.
Parlare ancora – come ho sentito - di voto di protesta nel caso della Lega significa non capire nulla:
il territorio per la Lega non è tanto un concreto spazio da salvaguardare e valorizzare
(l’inquinamento e le basi americane non sono oggetto di particolari mobilitazioni, anzi), ma un vero
e proprio soggetto politico e un simbolo di appartenenza, che dà luogo a un modo di essere, un
corredo ideologico sempre più completo e coerente che sembra capace di mettere insieme la
riedizione di interclassismo cattolico (specialmente veneto) e le nuove forme di “sovversivismo
delle classi dirigenti”, come la rivolta antifiscale guidata dagli evasori. L’aspetto “difensivo” di
questa cultura diffusa offre una protezione dagli aspetti meno controllabili del mercato globale
anche a settori delle classi lavoratrici, per i quali l’identificazione col parón contro Stato, Europa e
Cina è un’alternativa al deserto di altre strutture, non solo politico-sindacali ma anche relazionali, in
territori il cui tessuto sociale è tanto cangiante da risultare inafferrabile. Ma la “società
mucillaggine” non è inafferrabile da parte della politica, anzi: nell’indebolimento (o scomparsa) di
strutture di relazione “tradizionali”, come la militanza politico-sindacale, certi messaggi forti fanno
breccia e compattano in maniera meno episodica e superficiale di quanto pensassimo. In
conclusione la destra ha saputo interpretare e rappresentare quasi tutte le insofferenze, le paure, le
solitudini sociali, anche molte di quelle che di solito sfociavano a sinistra: berlusconismo e
territorialismo dominano quasi incontrastate, dettano la logica del ragionamento, la formazione e
l’espressione del “senso comune”. Dico cose più volte ripetute, eppure mi sembra che tutti noi ci
fossimo illusi che quella forza di attrazione fosse in declino. Chi non ha pensato, ad esempio, che il
dominio mediatico del Cav fosse un po’ meno determinante di un tempo? O che il radicamento
della Lega sul territorio si fosse un po’ appannato per l’abitudine alle cariche istituzionali e il
declino fisico del suo principale leader? Evidentemente non è così, e a questo punto, visti i numeri e
la situazione, non si può escludere nemmeno la realizzazione anche istituzionale (ovvero con
adeguamento della costituzione formale alla già mutata costituzione materiale del paese) di un
regime con qualche tratto di stabilità: lasciando da parte per ora gli ostacoli interni, l’argine
“europeo” alla realizzazione di un populismo moderno non sembra insormontabile come nel 1994:
la stessa UE è un’altra cosa, più vasta e composita, e la prospettiva di recessione economica
spingerà a risposte divaricate da più punti di vista. In altri termini si può ipotizzare che la “lunga
transizione” italiana (o la ancor più lunga “crisi di regime”, ricorrendo all’antica tesi di Mario
Mineo) può aver trovato uno sbocco stabile e organico a destra.
2. La strategia del PD: ancora una volta in mezzo al guado?
La prova elettorale del PD è in qualche modo a sua volta la prima verifica di un percorso lungo e
tormentato, di cui il partito è l’esito, anche se, a differenza della destra, è presto per parlare di
stabilizzazione. L’ultimo tratto del percorso parallelo dei pezzi maggiori o comunque consistenti dei
due principali partiti del periodo 1943-1989 è nato con una dichiarazione di intenti netta:
impostazione maggioritaria da estendere a tutte le istituzioni, rottura e distacco a sinistra,
interlocuzione privilegiata con “il principale leader dello schieramento a noi avverso”: l’aspetto
congiunturale era importante (la crisi latente del governo Prodi), più importante il balzo strategico:
infatti la dichiarazione di autosufficienza elettorale ha innescato ipso facto la crisi di governo e le
elezioni, scenario che indubbiamente era stato messo in conto. Al di là delle ovvie dichiarazioni
propagandistiche degli ultimi giorni (“siamo a un’incollatura” … no comment) è ragionevole
pensare che sul breve lo schema ipotizzato fosse: vittoria non nettissima della destra,
ridimensionamento secco della sinistra, affermazione del PD come centro dello schieramento
politico, disponibile e indispensabile per le riforme. La prima ipotesi è saltata, la seconda ha
ottenuto troppo successo, la terza si è materializzata in una forma molto diversa dal previsto: il PD è
in campo (al limite del 35%, considerata la soglia minima) ma è poco centrale, resta disponibile ma
forse non è indispensabile per “le riforme”. La coperta resta corta: il massacro della sinistra – voluto
o meno – costringe a cercare di coprire una parte almeno delle sue istanze, ma in questo modo la
rincorsa al centro (verso l’UDC il PD perde voti piuttosto che guadagnarne) subirà battute d’arresto.
Restano indeterminati anche alcuni dei caratteri distintivi della nuova formazione politica, che non
può limitarsi al “si può fare” per affermare una identità. Questa dovrà crescere all’opposizione
piuttosto che nella “naturale” collocazione di governo, scontando una presenza ridotta sia in larga
parte del nord che in regioni fondamentali del sud. Oltre all’arroccamento nelle vecchie regioni
rosse, come dice Diamanti, il PD sembra non rappresentare né i ceti imprenditoriali dinamici né il
disagio del lavoro, né i ricchi né i poveri. In queste condizioni è prevedibile una rapida ripresa delle
contrapposizioni interne ed una lunga fase di assestamento: mi sembra di poter dire che se il PCI
negli anni ’70 era finito in mezzo al guado, il PD in mezzo al guado ci nasce, mentre la corrente è
piuttosto impetuosa. Staremo a vedere, per ora il completamento della lunga marcia di
avvicinamento tra post-PCI e cattolicesimo democratico è solo nelle strategie comunicative e nei
“non più essere” (ovviamente non più comunisti, non più socialisti, forse non più sinistra), mentre
l’idea di una riedizione aggiornata della DC manca dell’elemento chiave: il governo nazionale e
buona parte delle reti locali. Ritenuto modesto (o non più attuabile) il progetto prodiano di un
“liberismo temperato” gestito da un’ampia coalizione, il PD ha rilanciato, proponendosi come guida
della rielaborazione della struttura politica italiana, da adeguare ad un modello economico-sociale
ritenuto (forse anche più che a destra) intoccabile. Su questo ha, per ora, fallito.
3. Il funerale di terza classe della sinistra
Alzi la mano chi aveva previsto un’affermazione consistente per la lista della sinistra arcobaleno;
alzi la mano chi ne prevedeva la disfatta: l’ipotesi peggiore su cui si ragionava (qualche mio
corrispondente può essermi testimone a riguardo) era la vittoria di B accompagnata da una
rappresentanza parlamentare della sinistra scarsa, forse nulla al Senato; i miei cattivi pensieri si
spingevano a ritenere che questo scenario fosse quello auspicato e per cui lavorava il PD:
l’insistenza sul voto utile non mirava certo verso l’elettorato centrista. Ma che in due anni si
perdessero 2,6 milioni di voti era francamente imprevedibile.
Certo ci sono gli errori macroscopici della affrettata costruzione della lista, compiuta obtorto collo
(sto portando il collare rigido, vi garantisco che non è agevole) e con molti retropensieri. Né ci si
può consolare (almeno io non mi consolo) con la resa dei conti per leader (e gruppi dirigenti)
palesemente inadeguati, stancamente attaccati ai loro micropoteri, tossicodipendenti da salotto
televisivo. Meglio: da questo punto di vista qualcuno (per esempio i giornalisti di Repubblica che
irridono a Diliberto e Berti-nights) dovrebbe spiegare dove sta la maggiore dignità (per non parlare
della lunghezza della carriera politica) di personaggi come Fassino e D’Alema, sempre con l’aria di
aver capito tutto, pieni di trovate e scoperte straordinarie, e sempre anche loro sconfitti. Comunque
i conti non tornano: se tutto dipende dalla scarsa statura politica dei dirigenti, come mai quel
patrimonio di voti ed esperienze e militanze non ha trovato, in tanti anni (non solo negli ultimi due
mesi) altri dirigenti e forme di espressione? La rivolta contro la casta sembra una spiegazione
insufficiente, non si capisce come mai funzioni solo contro la sua parte sinistra, certamente
marginale. Bisogna cercare di capire più a fondo.
Intanto quei due milioni e mezzo di voti prendono varie direzioni: circa una metà cede alle sirene
del voto utile (favorendo più Di Pietro che il PD, a occhio), l’altra si divide tra l’astensione e il suo
equivalente “combattivo” (Sinistra critica, PCL, Lista per il bene comune), e la destra (con evidenza
la Lega in certe aree operaie). E’ evidente che un crollo di quelle dimensioni va al di là delle ragioni
contingenti: anche per la sinistra in qualche modo queste elezioni sono il segnale della fine di un
percorso iniziato con lo scioglimento del PCI e costellato dai diversi tentativi di raccoglierne
l’eredità. Tutte le varianti e le sfumature possibili tra gli estremi del calco del vecchio partito e lo
“scioglimento nei movimenti” (rispettivamente PDCI e la Rifondazione del 2001) sono state in
qualche modo tentate, con scarso o effimero successo, limitate da un’analisi teorica approssimativa
e strette dalla rincorsa ad una contingenza incalzante. Non che fosse facile fare chissà che cosa,
dopo una sconfitta epocale che ha azzerato molte delle bussole interpretative e allo stesso tempo
essendo attraversati da processi che azzerano, frammentano, riducono al silenzio i bacini sociali di
riferimento.
Infatti questa condizione di spaesamento strutturale non riguarda solo le forze politiche organizzate,
ma anche la sinistra diffusa dei giornali, delle riviste, dei circoli culturali, delle strutture sindacali
centrali e territoriali, nonché le ricorrenti emersioni dei movimenti, impetuose all’apparire quanto
effimere e incapaci di “fare sistema”. La crisi di identità è così ampia da travolgere la stessa
strutturazione dell’opinione pubblica di sinistra, sempre più difficile da individuare nei suoi tratti
distintivi (al di là delle raffinate ironie alla Giorgio Gaber) e soprattutto sempre più restia a farsi
coinvolgere in qualsivoglia progetto “politico”. Se è così (e per me è così, ovvio che sto parlando
prima di tutto di me), non mi sembra né utile né giusto attardarci sulle cravatte di Bertinotti o sui
festini di Pecoraro Scanio, e la categoria del tradimento è meglio seppellirla per sempre.
A conti fatti, la debacle del 13 aprile è il funerale ritardato e un po’ sciatto di un decesso per
consunzione, la scena finale di una vicenda in parte già chiusa. Posso ricordare l’ultimo scritto di
Luigi Pintor? La sinistra italiana che conosciamo è morta. Non lo ammettiamo perché si apre un
vuoto che la vita politica quotidiana non ammette. Possiamo sempre consolarci con elezioni
parziali o con una manifestazione rumorosa. Ma la sinistra rappresentativa (…) è fuori scena (“il
manifesto”, 24 aprile 2003).
Così, io credo, stanno le cose. Si tratta di vedere se vale la pena scommettere qualche lira sulla
resurrezione. Se ne vale la pena, non se ne abbiamo voglia: di quella, ce n’è poca o punto.
4. La posta in gioco. Il Che fare di Lenin e quello di Černyševskij.
Non nascondendo la propria intima soddisfazione, Galli della Loggia (“Corriere della sera”
17.04.08) collega la fine parlamentare della sinistra comunista e socialista all’estinzione vera della
prima repubblica, ovvero della forma democratica modellata dalla costituzione del 1948. Sullo
stesso giornale, il giorno prima, l’ineffabile senatore Cossiga denuncia il pericolo terrorismo in
assenza di una sinistra parlamentare (e non trascura di ricordare che la sua brillante gestione del
ministero degli interni all’epoca di Moro fu voluta e sostenuta dal PCI).
Forse non è un caso che i due illustri personaggi facciano riferimento ai due (unici) momenti in cui
la sinistra italiana novecentesca (ahimé, la moda definitoria è questa) ebbe qualche chance di
conquistare il governo del paese (né è un caso che dimentichino di dire quale furono i metodi per
impedire quella ascesa, e l’alternativa che ci toccò) sulle ali di una spinta popolare impetuosa e
speranzosa. Significa: toglietevi dalla testa anche il ricordo che il mondo possa cambiare. Prelude
anche a quello che ci aspetta: una cornice istituzionale e politica definitivamente
“postresistenziale”, in cui il conflitto sociale, e anche la sua teorizzazione, è una minaccia
dell’ordine costituito. Del resto nel 2001 il governo B esordì a Genova, e ho detto tutto. La posta in
gioco è questa (ripeto: non il posto o la pensione di Bertinotti), è su questo che occorre ragionare se
vale la pena o no.
Siamo dunque ancora al Che fare? Scartata – se non perché sarei arrivato fin qui? - la risposta
immediata, ovvia e legittima (cioè: stai a casa e pensa alla salute), credo che il riferimento al celebre
opuscolo di Lenin, tutto calibrato sulla relazione ottimale tra organizzazione politica e movimento
di classe, possa essere utile solo “in negativo”: un legame organico è impossibile, perché la classe
“in sé” è tutta da ricercare, la classe “per sé” è dissolta nel nulla. Semmai un titolo leninista più
adatto sarebbe La catastrofe imminente e come lottare contro di essa (non tanto di malaugurio,
visto che risale all’ottobre del 1917), ma noi la catastrofe ce l’abbiamo già alle spalle (e sulle
spalle). A parte gli scherzi e i giochi di parole, le formule organizzative utili al momento sono tutte
valide se nessuna prevale. Partiti, movimenti, comitati locali, giornali, reti associative vanno bene.
Purché siano tutte sullo stesso piano, senza gruppi dirigenti, grandi vecchi, giovani demiurghi
precostituiti. Purché consentano a tutti di portare il contributo che vogliono. Purché lascino spazio e
tempo per una riflessione vera, aperta, impegnata. Purché si mettano a studiare il mondo e la società
italiana, pezzo per pezzo, territorio per territorio. Un aspetto fondamentale perché questi fili
possano diventare una rete e una forza è la capacità di fare e comunicare informazioni: l’assenza di
una riflessione minimamente aggiornata sui media non mi sembra l’ultima (tra le tante) delle
carenze della sinistra.
Ma c’è un altro Che fare? (che del resto suggerì il titolo a Vladimir I’lič), il romanzo di
Černyševskij in cui un gruppo di giovani cerca di dare un senso “rivoluzionario” alla propria vita
quotidiana. Non sto proponendo “comuni” o sedute di autocoscienza, per carità. Dico che c’è un
aspetto “esistenziale”, quotidiano, molecolare, in cui una cultura di sinistra può continuare o
riprendere a manifestarsi: quand’è che abbiamo cominciato nei ritrovi tra amici, nei bar, al lavoro,
davanti a scuola dei nostri figli, fuori dal cinema, alla fermata dell’autobus, a ritrarci spaventati o
disillusi dalla marea del senso comune reazionario, rifiutando di proporre un frammento di punto di
vista alternativo, un dubbio, un’altra immagine della memoria? Sono solo io che mi comporto così?
Quand’è che siamo diventati afoni? Forse sentiamo di aver torto proprio su tutto? Eppure, per dirne
una, il bollettino quotidiano dei morti sul lavoro e la reazione infastidita degli industriali, non è di
per sé una conferma di tante nostre idee, priorità, battaglie? Non ci dice che la dignità umana –
separata dalla materialità delle condizioni di vita e dei rapporti sociali – è un “valore”, ovvero una
schifosa ipocrisia? E allora ritroviamo la voce, riprendiamo la parola. Sono ridicolo? Dal
comunismo al passaparola? Sarà l’influenza di Černyševskij, rispolvero “l’andata al popolo” degli
studenti narodniki. Ridicolo e populista (in senso russo-ottocentesco), sì, ma io dico che vivendo in
un paese che manda al governo Berlusconi tre volte in 14 anni, non si è mai abbastanza minimalisti.
E resto minimalista anche sui temi di questa opera di “mutua rialfabetizzazione molecolare” (sfido
chiunque a trovare una definizione più astrusa): pace, lavoro, diritti civili. Mi appello al vecchio
Brecht: “Proteggete le nostre verità”, a costo di essere irritante.
Del resto chi è riuscito a leggere fin qui, è davvero un amico, da cui accetto volentieri un bel “vai a
quel paese”. Magari accompagnato da qualche riflessione. Saluti a tutti, grazie per l’attenzione.
Vicenza, 18 aprile 2008 (daje! Vai con l’anniversario di un’altra disfatta)
Roberto Monicchia (roberto.monicchia@fastwebnet.it


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considerazioni aggiuntive di Pietro Ancona



Caro Monicchia,

ho letto la sua intensa e profonda riflessione della sconfitta della sinistra italiana.
Condivido tutto, proprio tutto quanto ha scritto e vorrei aggiungere alcuni elementi di
giudizio derivanti dalla mia militanza politica e sindacale.

Sono stato socialista e sindacalista. Il mio capo era Fernando Santi e non mi sono mai discostato dal suo riformismo che è quanto di meglio (per me) abbia espresso il movimento operaio italiano.

La sinistra è fallita in Italia per tutte le ragioni che hai elencato ma sopratutto per i cattivi rapporti che intercorserono tra socialisti e comunisti durante tutto il primo centro.sinistra, quello di Riccardo Lombardi della nazionalizzazione dell'industria elettrica, della riforma "socialista" della scuola, fino allo Statuto dei Diritti dei Lavoratori.
Questa positiva esperienza del PSI è stata costantemente minacciata non solo dalle destre ma dal PCI che auspicava che Nenni "si rompesse anche lui l'osso del collo"
E' stato uno sfibrante logoramento da sinistra che fini con l'incattivire i socialisti e fare prevalere al loro interno i "governisti" alla Mancini, fece fallire il PSI di De Martino e
portò alla terribile metastatica mutazione craxiana frutto dell'odio accumulato dai socialisti verso i comunisti in trenta anni di collaborazione a sinistra nella CGIL, nella Cooperazione, negli Enti Locali.
L'odio socialista verso i comunisti ha alimentato tutta l'epoca craxiana fino al berlusconismo il cui nucleo originario culturale è costituito da intellettuali socialisti diventati feroci anticomunisti come Cazzola ed altri oggi collaboratori della Confindustria.
Il ruolo della CGIL è determinante nella crisi attuale della sinistra. Dal 1993, dai famigerati accordi di concertazione, le piattaforme rivendicative per il rinnovo dei contratti hanno avuto come limite invalicabile il tasso di inflazione "programmato"
Rinnovi faticosi per poche manciate di spiccioli hanno impoverito tutte le classi lavoratrici italiane portandole in coda ai lavoratori europei. In atto, nonostanza la apparente diffusa coscienza a sinistra dell'insufficienza dei salari, per il contratto degli edili, si chiedono qualcosa come circa cento euro mensili che naturalmente (se verranno accordati) saranno rinviati nel tempo e dati in piccolissime ed insignificanti frazioni. Venti milioni di lavoratori sono quasi alla fame e nessuno dico NESSUNO alza un dito a loro difesa reale.
La CISL ha conquistato la leaderchip della allenza tra i sindacati confederali ed il tronfio e volgarissimo Bonanni ha annunziato la fine del ccnl e la trasformazione del sindacato in una sorta di strumento parastatale e paraconfindustriale che gestisce un potere non dei lavoratori ma sui lavoratori (cassa edile, società confindustria-sindacati etc...etccc..La CGIL è irriconoscibile e vive dell'immenso prestigio accumulato in anni oramai lontani.,
I lavoratori italiani sono desolatamente soli. I Cobas, unica espressione di autonomia operaia, sono discriminati ed i dirigenti spesso licenziati o processati. Tuttavia anche gli stessi Cobas stanno diventando una "maniera" come Rifondazione Comunista era diventata "una maniera"di stare nel conflitto politico e sociale.
In due anni di governo, la sinistra radicale ha inghiottito quasi senza aprire bocca quanto di peggio e di indigesto ci fosse dagli stanziamenti militari alle basi al welfare alle leggi razziali etc,... Una cosa incredibile.
Ma il cuore della crisi viene dal PCI. Dopo la Bolognina, per ridurre tutto quanto in due parole, il problema di Raicklin di D'Alema di Fassino e di Veltroni era quello di traghettare l'oligarchia del Partito oltre la sconfitta del comunismo. Di traghettare l'elettorato comunista se ne sono fottuti. Hanno accettato il liberismo nelle sue forme più selvagge ed antioperaie. Hanno lavorato intensamente a cancellare le tracce di tutti i valori di sinistra. E' stata una terribile corsa tra Prodi e Veltroni a chi si collocava più a destra dei due.
Come giustamente scrivi non prevedevano l'ampiezza della sconfitta e la scomparsa della sinistra li inquieta profondamente. Non sono nè carne nè pesce e l'esperienza del Partito Democratico americano non si può copiare senza stravolgere nel profondo tutto per non ottenere che scarsi e deludenti risultati.
Infine non hanno lottato l'oligarchismo. Fassino ha ricandidato per sesta volta la moglie. Hanno fatto i loro cavalli deputati e senatori come Caligola. Bertinotti è arrivato a giustificare Mastella per l'uso privato dell'aereo ed accettato che l'emolumento suo arrivasse a 250 mila euro l'anno. A chi gli rimproverava l'alto valore degli emolumenti dei parlamentari rispondeva
confrontando gli stipendi dei deputati a quelli dei managers privati.
Lo stipendio di Luciano Lama e dei dirigenti della CGIL era rapportato a quello del terzo livello dei metalmeccanici., Tra i due referenti c'è l'abisso e la pardita di identità che ha distrutto la sinistra italiana,
Non è moralismo. Ma la sinistra ha una sua etica perduta la quale non è più niente. Che cosa è se non etica la natura profonda del socialismo?

Pietro Ancona
www.spazioamico.it
http://pietro-ancona.blogspot.com/
http://medioevosociale-pietro.blogspot.com/

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