venerdì 21 maggio 2010

Un interessante articolo apparso su "Rassegna Sindacale"

di renato
pubblicato il 04/05/2010

Marco Biagi e il Libro bianco
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Secondo alcuni osservatori, le norme in materia di lavoro varate dal centrodestra rappresenterebbero uno stravolgimento del pensiero "riformista" di Marco Biagi

di Renato Fioretti

Come già verificatosi nel gennaio 2009, all’atto della firma dell’Accordo quadro “separato” sulla contrattazione decentrata, anche in occasione dell’approvazione del Ddl 1167 si è riproposta una (ormai) stucchevole querelle. Infatti, all’indomani del 3 marzo, è tornato in discussione il rapporto tra i provvedimenti in materia di lavoro adottati dai governi Berlusconi e le linee teoriche espresse attraverso il Libro bianco.

Da un lato si schierano coloro che ritengono non esserci alcuna relazione diretta tra le posizioni sostenute da Marco Biagi e la produzione legislativa successiva al 2001. Per alcuni, tra i sostenitori di questa tesi, le norme varate dal centrodestra rappresenterebbero, addirittura, uno stravolgimento del pensiero “riformista” dello studioso ucciso dalle Br.

Personalmente, sono sempre stato convinto del contrario.

Già in altra occasione ho rilevato che soltanto gli ottimisti “a contratto” e i distratti “per vocazione” avrebbero potuto sostenere che il decreto legislativo 276/03 rappresentasse l’atto finale del percorso avviato attraverso la legge-delega 30/03, piuttosto che il primo (fondamentale) tassello di un puzzle già ampiamente delineato. Quindi, a mio parere, le misure adottate dall’Esecutivo in carica dimostrano che siamo di fronte ad un percorso “a tappe”, teso a realizzare tutto quanto previsto dal “Libro”: vero e proprio “Manifesto per la controriforma del diritto del lavoro”!

In questo senso, anche le più recenti disposizioni, piuttosto che un’alterazione delle teorie di Biagi, rappresentano, invece, la sostanziale trasposizione in norme di legge di programmi e progetti già esplicitamente espressi nell’ottobre 2001. Ad inequivocabile conferma, è sufficiente riportare (solo) alcuni dei passaggi di quella vasta elaborazione teorica.

Il primo aspetto è rappresentato dall’insistenza con la quale nel Libro bianco veniva richiamata l’esigenza di non “comprimere” l’autonomia delle parti: laddove per “parti” si intendevano i datori di lavoro ed il singolo lavoratore, piuttosto che quelle sindacali.

Un altro indizio, che avrebbe (già) dovuto preoccupare tutti - non solo la Cgil - era contenuto nel passaggio relativo alla valutazione delle c.d. “clausole di non regressione” previste dalle Direttive comunitarie. In quel caso, attraverso un acrobatico esercizio lessicale, teso a stravolgere una consolidata prassi interpretativa, si sosteneva, in definitiva, la possibilità di modificare in peius la normativa nazionale, fermo restando il rispetto dei requisiti minimi previsti dal Legislatore comunitario.

Un’ulteriore anticipazione era rappresentata dall’inequivocabile affermazione secondo la quale, al fine di adeguare i differenziali di produttività - tra aziende e tra le diverse realtà territoriali - e, contemporaneamente, ridurre il divario occupazionale tra Nord e Sud, si rendeva necessario “aumentare la flessibilità salariale e stimolare una più accentuata differenziazione dei salari reali”.

D’altra parte, anche rispetto all’attualissimo tema della giustizia, il Libro non lasciava alcuno spazio all’immaginazione! A parte un lapidario giudizio, estremamente negativo, circa le (scadenti) qualità professionali dei giudici del lavoro, il testo redatto dall’attuale ministro del welfare e dal prof. Biagi già indicava nei collegi arbitrali le sedi più idonee a dirimere le controversie di lavoro, secondo criteri di equità ed efficienza.

E’ quindi evidente che le disposizioni previste dal Ddl 1167 non rappresentano un’improvvisa ed estemporanea iniziativa del ministro Sacconi. Esse si inseriscono, piuttosto, in un disegno organico già tracciato ed ignorato solo da coloro i quali fingevano - ed ancora fingono - di non rilevarlo tra le righe del suddetto “Manifesto”.

Tra l’altro, questi sono solo alcuni dei temi già annunciati. Sono certo che presto ne saranno posti altri all’ordine del giorno.

Penso, in particolare, al ruolo che dovrebbe assumere il contratto collettivo di lavoro - destinato a svolgere la funzione di “accordo quadro” per salvaguardare (solo) le retribuzioni minime - al ripristino delle c. d. “gabbie salariali” e all’istituzione di un salario minimo legale che, a mio avviso, piuttosto che garantire coloro i quali oggi non sono tutelati da un contratto collettivo, produrrebbe un’inevitabile “corsa al ribasso” - rispetto agli attuali minimi contrattuali - dei salari.

Termino questa prima parte tornando brevemente al Ddl 1167. Lo faccio riportando le (preoccupate) considerazioni di Vitantonio Lippolis - responsabile UO Vigilanza 2 presso la DPL di Modena - che non può certo essere annoverato tra gli oppositori “a prescindere”. Egli, concludendo un approfondito esame delle sostanziali modifiche apportate all’istituto della certificazione dei contratti di lavoro, afferma: “Un sensato giudizio al riguardo non potrà, tuttavia, essere disgiunto dall’effettivo utilizzo che si farà in futuro dello stesso istituto, auspicando che non venga impiegato con finalità potenzialmente aberranti che potrebbero comportare conseguenze anche estremamente sfavorevoli a carico dei prestatori di lavoro che, notoriamente, restano la parte più debole del rapporto”. Lascio al lettore valutare lo stridente contrasto tra quanto paventato e le dichiarazioni rilasciate dai massimi esponenti di Cisl e Uil che, del Ddl in esame, si limitano a rilevare la presenza di: ” luci ed ombre”!

In questo quadro, se, in materia di lavoro, la posizione del maggior partito di opposizione si limita alla proposta del c.d. “Contratto unico di ingresso” (CUI) - ultima versione tra il Contratto unico di Boeri ed il Contratto di transizione di Ichino - siamo davvero in una condizione di oggettiva gravità per le sorti dei lavoratori italiani!
Risale, infatti, al 5 febbraio scorso il Ddl 2000, d’iniziativa di alcuni senatori del Pd - primo firmatario Nerozzi (ex Cgil!) - per l’istituzione di un nuovo strumento contrattuale destinato a diventare “la forma tipica di prima assunzione alle dipendenze del medesimo datore o committente”.

Lo schema ricalca, sostanzialmente, la ben nota proposta elaborata da Boeri alcuni anni or sono.
In questa sede, eviterò di riproporre i motivi che mi inducono a ritenere il contratto unico - in tutte le sue versioni - un ulteriore (raffinato e subdolo) tentativo di aggiramento dell’art. 18 dello Statuto.

Mi preme evidenziare, piuttosto, la mancanza di coerenza da parte di coloro che - dal versante dell’opposizione - nel denunciare la frammentazione e le iniquità presenti nell’attuale mercato del lavoro, quali “conseguenze della proliferazione delle fattispecie legali di prestazione lavorativa”, ritengono (poi) di risolvere la condizione di apartheid, nella quale versano soprattutto le giovani generazioni, attraverso la riduzione generalizzata dei diritti e delle tutele.

Personalmente, considero prioritario ricondurre a norma di civiltà l’insopportabile incipit dell’art. 1 del decreto legislativo 276/03, laddove prevede che le norme in esso contenute sono intese a rendere compatibili le esigenze delle aziende alle aspirazioni dei lavoratori. E’ necessario, in questo senso, ripristinare il riequilibrio dei poteri tra le parti.

Per cercare di fare questo, è opportuno, a mio parere, agire con coerenza e battersi, da sinistra, per conquistare misure tese a:
- ridefinizione della “centralità” del rapporto di lavoro a tempo indeterminato tra le possibili tipologie contrattuali stipulabili tra le parti;
- ripristino di causali “oggettive”, previste dalla legge e dalla contrattazione collettiva di settore e territoriale, per la stipula di rapporti di lavoro a termine;
- esclusione della possibilità del ricorso a forme di lavoro parasubordinato in tutti i casi in cui esse coincidano con l’oggetto sociale delle imprese;
- riferimento ai parametri contrattuali del corrispondente settore produttivo per la determinazione dei compensi spettanti ai lavoratori a progetto;
- rivisitazione di alcune norme del contratto di lavoro a tempo parziale, in particolare di quelle relative al lavoro supplementare ed alle clausole elastiche e flessibili;
- adeguamento a quelli del lavoro subordinato di tutti i costi fiscali e contributivi a carico delle aziende, a prescindere dalla tipologia contrattuale sottoscritta;
- ripristino della clausola relativa allo stato di “attività preesistente”, nei casi di cessione di ramo d’azienda.

Resto convinto che solo così, rifuggendo da una condizione di oggettiva subalternità - che induce l’opposizione a proporre “riforme” che nulla hanno a che vedere con qualsiasi programma politico alternativo realisticamente riformatore - sarà possibile tentare di evitare che si realizzi compiutamente un progetto che si prospetta drammatico per le sorti dei lavoratori.

Renato Fioretti
04/05/2010 15:28



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E' verissimo. E' una menata quanto si favoleggia sul libro Bianco. La dottrina di spezzare le reni alle generazioni di lavoratori rendendoli giuridicamente ricattabili, precari, mal pagati è contenuta tutta nella elaborazione Biagi e nel vasto supermercato di strumenti di tortura inventati o copiati dal peggio della subcultura liberista anglosassone. La legge trenta è espressione del libro bianco.
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