QUANDO gli operai muoiono in troppi alla volta come ieri a Mineo, fulminati o asfissiati letteralmente nella melma, resi massa irriconoscibile dal colore del fango, allora l'Italia è costretta a ricordare. Benvenuto il clima nuovo che si respira nel Palazzo. Ma fuori, intorno? La società sregolata vede precipitare, insieme ai redditi da lavoro, anche le normative più elementari di una dignitosa convivenza. Si crepa di nuovo nelle stive, nelle autocisterne, nei depuratori, sulle impalcature, sulle linee di lavorazione a caldo, come un tempo si crepava nelle miniere.
Subiamo il contrasto scandaloso fra la retorica di una sicurezza ideologica, con cui viene drogata la politica, e poi la sicurezza effettiva sacrificata magari con la scusa che la produttività si migliori facendo senza gli scafandri, gli estintori, i respiratori, i caschi. L'umiliazione del lavoro manuale, la retrocessione della vita operaia a destino sfortunato, spesso vengono giustificate in nome di una virtuosa concordia interclassista, perché il conflitto fra legittimi interessi altro non sarebbe che "invidia sociale".
Venerdì scorso, nello stesso convegno dei giovani di Confindustria che suggeriva per la prima volta nel dopoguerra l'idea dei contratti di lavoro individuali, la relazione introduttiva lamentava "la fretta con cui il precedente governo ha licenziato il Testo Unico sulla sicurezza dei luoghi di lavoro".
In effetti, il 5 marzo scorso, all'indomani della morte di cinque operai alla Truckcenter di Molfetta, benché dimissionario il governo Prodi varò fra i suoi ultimi atti il decreto attuativo della legge 123 sull'antinfortunistica, a ciò sollecitato dallo stesso presidente Napolitano.
Lungi da me voler attribuire alla Confindustria una responsabilità morale nelle stragi che si susseguono, tanto più che a Mineo quattro delle sei vittime erano dipendenti pubblici. Ma come potremmo accettare l'obiezione avanzata a Santa Margherita? "Rendere ancora più complesse e difficili le norme che presidiano la sicurezza sul lavoro impone costi crescenti agli imprenditori che già seguono il dettato della legge mentre non sfiora neppure chi dell'illegalità fa una prassi".
Costi crescenti? Metteteli a bilancio per tempo, invece di stanziare oltre dieci milioni di euro per l'indennizzo delle vittime della ThissenKrupp, oltretutto ponendo la condizione vessatoria che rinuncino a costituirsi parte civile nel processo.
Chiediamoci perché la stessa Confindustria, che giustamente approva l'espulsione degli associati che pagano il pizzo, non disponga la medesima linea di severità nei confronti delle aziende inadempienti violano le normative sulla sicurezza. Riconoscerebbe così il principio etico secondo cui la salvaguardia dell'incolumità dei dipendenti - il primato della vita umana - va inderogabilmente considerato un bene superiore rispetto al profitto.
Le parti sociali si sono date un orizzonte di tre mesi per modernizzare le regole della contrattazione e affrontare una "questione salariale" riconosciuta come non più rinviabile, dopo dodici anni di costante diminuzione dei redditi da lavoro. Il pericolo che l'ideologia della deregulation, simboleggiata dalla provocazione dei "contratti individuali", apra nuove voragini di incuria nella tutela dei lavoratori, non può essere ignorato.
Perché l'Italia delle morti bianche sta ritornando all'antico. In troppe aziende i sindacati hanno già sopportato deroghe mortificanti, magari in nome della salvaguardia dell'occupazione. E un mondo del lavoro in cui divenga norma non scritta la rinuncia alla sicurezza, lungi dal rendere più competitiva la nostra economia, la condanna all'arretratezza strutturale che già in altre epoche storiche abbiamo sofferto.
Il lutto degli operai siciliani, piemontesi, veneti, liguri, pugliesi - il susseguirsi delle stragi al ritmo insopportabile di dieci morti in un solo giorno - rivela il tragitto di un paese nel quale i lavoratori tornano a essere plebe. Come tale indotta magari a ricercare protezioni clientelari, occasionali padrini politici, ma inadeguata a proporsi motore di uno sviluppo fondato sulla professionalità e sull'innovazione.
Il nostro rimpianto boom economico, al tempo della ricostruzione, scaturì dal concorso fra talento imprenditoriale e ritrovata dignità del lavoro, dall'orgoglio di una comunità nazionale capace di valorizzare anche la fatica fisica che oggi invece viene rimossa, imposta per bisogno, sopportata come vessazione.
Quei lavoratori di Mineo andati cinque metri sotto terra senza attrezzature e prevenzioni adeguate, rappresentano una quotidianità italiana vergognosa, l'abitudine dilagante al pressappochismo. Feriscono la coscienza di chi ce l'ha ancora. Promettono rabbia e violenza, altro che "clima nuovo".
(12 giugno 2008)
Manifesto – 12.6.08
Omicidio europeo - Loris Campetti
C'è un nesso terribile tra la decisione dell'Unione europea di liberalizzare l'orario di lavoro e l'ennesima strage di ieri nella quotidiana guerra italiana sul lavoro, che ha lasciato sul campo almeno nove operai, nove persone. Il nesso si chiama liberismo. Nella seconda metà dell'Ottocento, lotta dopo lotta, strage dopo strage, prese corpo la Festa dei lavoratori, il 1° Maggio. Il movimento partì negli Stati uniti e in Canada, sbarcò in Europa nel 1889, quando la festa venne ufficializzata dai delegati socialisti della Seconda internazionale. Il 1° Maggio aveva al centro un grande obiettivo strategico: la conquista delle otto ore. Nella primavera del 1906, novemila mondine sfilarono nelle strade di Vercelli insieme ai metallurgici cantando «Se otto ore/ vi sembran poche...». Il XX secolo è segnato dalla lotta per le 40 ore settimanali. Una battaglia di civiltà che segnò un salto epocale. Chissà se i 27 ministri del lavoro dell'Ue hanno studiato la storia del Novecento, e se l'hanno capita? Due giorni fa, 22 di loro hanno votato una normativa che sentenzia la fine non delle 40 ma delle 48 ore, conquistate dall'Ilo nel lontano 1917. Del «secolo breve», della sua ferocia e delle sue conquiste, sappiamo ormai tutto. Cosa dobbiamo aspettarci da questo secolo, se ai suoi albori ci ributta indietro di 120 anni? Se Strasburgo voterà il testo licenziato dall'Unione europea, la deregulation del lavoro andrà oltre le speranze dei peggiori governi liberisti. Tra i più entusiasti quelli italiano e francese, che hanno suggellato la loro vittoria schierandosi con il fronte della «modernità», cioè del mercato e del profitto come unici regolatori delle relazioni sociali, della vita delle persone. Si potrà lavorare anche 60, 65 ore a settimana, se solo il padrone lo vorrà. Sarà ancora più facile morire in fabbrica, nei cantieri, nei campi, o dentro le cisterne avvelenati come topi. Liberalizzare l'orario di lavoro è un crimine, un'istigazione a delinquere. Almeno ci risparmino, signori ministri e portaborse, le lacrime per gli ultimi omicidi di ieri, a partire dai sei operai siciliani uccisi dentro una vasca di depurazione dalle esalazioni tossiche. Così si moriva nell'Ottocento, così si muore nel Duemila. E le sopravvissute conquiste del Novecento? Bruciate sui banchi di Strasburgo, se non verrà fermata la marcia liberista. Grazie alla nuova normativa si potrà persino cancellare ogni forma di contrattazione collettiva, sostituita dai rapporti di lavoro individuali, «fatti dal sarto su misura» come sogna la Confindustria che interpreta la vittoria della destra, l'evaporazione della sinistra e la «modernizzazione» del Pd, come un viatico per piegare ogni diritto alla logica d'impresa. Costi quel costi, fossero anche vite umane. Del resto, non hanno già detto padroni e ministri che le nuove leggi sulla sicurezza sono troppo onerose e vanno ammorbidite? È vero, in Italia comunisti e socialisti non hanno più rappresentanza politica. Ma non c'è solo il Parlamento, non è scritto che le forze democratiche siano morte. La domanda è se esistano forze sociali, sindacali, civili e culturali, qui e in Europa, in grado di battere un colpo, di difendere una conquista di civiltà. Se non altro, in nome del diritto alla vita di chi lavora. Se la risposta fosse negativa, avrebbe vinto chi accusa di ideologismo ogni critica allo stato di cose presenti. Non sarebbe la fine della Storia, ma dovremmo prendere atto che bisognerà ripartire da molto lontano. Dalla fine dell'Ottocento.
Povera, impaurita Italia patria dei diritti rovesciati
Il Rapporto 2008 per i diritti globali Alessia Grossi L'Unità 09.06.08
«Un vero e proprio libro nero, nero come il lutto delle morti sul lavoro, la guerra a bassa intensità che solo nel 2007 ha fatto più di mille morti contro i 3mila e cinquecento della guerra in Iraq». Sergio Segio, curatore del Rapporto per i diritti globali e direttore dell'Associazione SocietàINformazione, illustra con questa immagine forte un pezzo del rapporto 2008. Uno studio dal quale esce un'Italia quasi al collasso per la mancata redistribuzione del reddito, per i salari sempre più bassi, un caro vita ai massimi storici, morti sul lavoro ai limiti di una vera e propria guerra, indebitamento in crescita e aumento incontrollato degli stipendi dei top manager.
Presentato lunedì a Roma, il rapporto è pubblicato da Ediesse e redatto da una galassia di organizzazioni, da Arci a Cgil, Antigone, ActionAid, Cnca, Forum Ambientalista, Gruppo Abele e Legambiente.
La copertina nera del volume sembra anche indicare il colore della maglia che l'Italia si aggiudica con il 22esimo posto per l'Ocse con i salari più bassi tra i paesi europei. «Un paese in cui il caro vita al contrario cresce a grande velocità. Nera come la povertà che si estende, secondo il Rapporto sempre di più ai lavoratori dipendenti, tra cui spuntano un 4,6 per cento di poveri in più rispetto allo scorso anno. Una famiglia su cinque, quindi, è povera secondo i dati Istat» conclude Segio.
Dato allarmante è la povertà cosiddetta "differita" e non ancora percepita, cioé i debiti contratti non per spese straordinarie ma per arrivare alla fine del mese e che un giorno dovranno essere rimborsati. Un italiano su quattro si indebita per vivere e il credito al consumo è cresciuto dell'86 per cento negli ultimi quattro anni. Insomma gli italiani sono sempre più poveri e non sembra abbiano molte speranze di miglioramento.
Capitolo inedito e analizzato per la prima volta in sei anni dal Rapporto è quello della sicurezza. «Paura e insicurezza sono in forte crescita- dichiara Segio - se si pensa che in Italia per dati del Ministero dell'Interno sono in diminuzione i reati e il nostro è il paese più sicuro- non si capisce come mai ci 9 italiani su 10 credono siano in aumento i crimini e 6 su 10 sono d'accordo con le ronde». Dunque il rapporto fotografa una insicurezza percepita e «enfantizzata per nascondere le vere emergenze come la violenza sulle donne» conclude Segio.
«È emergenza politica - spiega invece Paolo Beni, presidente dell'Arci alla presentazione del Rapporto- perché c'è un'assenza completa di politiche redistributive, una politica che si piega sempre di più alla ricerca del consenso e che non lavora ad un nuovo modello di sviluppo. Serve il coraggio di provare a cambiare il senso comune» conclude Beni
Ma nel resto del mondo la globalizzazione non ha prodotto meno danni. «Pensare che a cambiare le cose basterebbero le centinaia di miliardi di dollari che gli Usa spendono in spese militari» conclude Segio.
L'Unità 09.06.08
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