lunedì 2 giugno 2008

giuliano Amato

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Amato dice addio alla politica
«Craxi e il ’92? Feci scelte giuste»
«Sul finanziamento illecito da depenalizzare veto riprovevole del pool milanese»


Giuliano Amato (Inside)
ROMA — Presidente Amato, lei ha compiuto settant’anni e si è ritirato dalla vita politica, rinunciando a ricandidarsi. Perché?
«Sono in politica da cinquant’anni; non ricordo se mi iscrissi al Psi nel ’57 o nel ’58. In tutti questi anni non ho mai avuto divisioni al mio seguito. Non sono mai esistiti gli amatiani. Ho acquisito posizioni di preminenza offrendo idee ed esperienze. Posso continuare a farlo, finché il cervello funziona, senza bisogno di un posto al governo o in Parlamento. In Italia abbiamo leader cinquantenni che sono considerati giovani ed è quindi utile che quelli come me facciano spazio a chi è nato non dirò ieri, ma almeno l’altro ieri».

Chi sono gli uomini nuovi su cui puntare? Enrico Letta?
«Enrico ha l’età in cui negli altri Paesi si diventa primi ministri. Nomi non ne faccio, ma dobbiamo puntare anche sui trentenni. Nunzia Penelope ha scritto che "i giovani non esistono". C’è del vero. È giusto dare ai giovani la possibilità di dimostrare che, avendo scelta, la loro vita può essere altro da una sequenza infinita di notti in Campo de’ Fiori, con una bottiglia di birra in mano».

Qualche giorno fa, lei ha detto in un convegno di aver maturato un giudizio severo sulla classe dirigente italiana. Cosa intendeva?
«L’autarchia italiana non è mai finita. È un male antico, come antico è il provincialismo della classe dirigente. E non mi riferisco solo alla politica; penso al ceto industriale, ai giornalisti, all’università, dove l’italianità dei professori è difesa come quella della mozzarella sulle nostre tavole. Ognuno rilancia all’altro la propensione al provincialismo: il risultato è che del grande mondo che diciamo essere entrato nel nostro senza più confini, non siamo in realtà partecipi e ce ne occupiamo molto meno che del più minuscolo fatto di cronaca di casa nostra. Difetto tipico da provinciali, inoltre, è la nostra autoflagellazione eccessiva, il complesso di eterno Calimero, come lo chiama nel suo libro recente sull’Europa Riccardo Perissich. Come in un gioco di specchi, gli altri riflettono i nostri lamenti e li fanno propri».

Siamo troppo sensibili ai giudizi altrui, magari dei giornali stranieri?
«L’inviato dell’Economist viene a Roma per qualche giorno, ascolta quel che gli dicono i giornalisti italiani, lo riprende pari pari perché dell’Italia non sa altro, gli stessi giornalisti informano che "l’autorevole Economist ha scritto...". Seguono interrogazioni in Parlamento e dibattiti nazionali. Segno dell’eccesso di introspezione di un Paese che finisce per perdere il senso del confronto con gli altri. Quando parliamo con loro ci sentiamo troppo spesso comprimari. Il nostro atteggiamento è ancora quello della guerra di Crimea: dobbiamo esserci, non per affermare una nostra posizione sul mondo, ma perché altrimenti non si accorgono neanche che ci siamo. Il risultato è la marginalità».

A quali esempi si riferisce?
«Non voglio fare il populista, ma davvero il paese cresce più in fretta della sua classe dirigente. Abbiamo più campioni mondiali dei britannici o, amo dirlo, dei francesi; ma dell’establishment europeo nella migliore delle ipotesi facciamo parte a singhiozzo. Siamo i più europeisti, eppure a lungo abbiamo mandato in Europa figure di secondo piano. Alle cariche internazionali arrivano a volte degli eccellenti italiani, ma noi non formiamo i funzionari da far crescere, non sappiamo prenotare i posti per tempo; arriviamo sempre per ultimi, in cerca dell’ultimo strapuntino. Quante volte me lo sono sentito dire: voi italiani vi svegliate tardi. Capita così che quelli che ci sono sempre si mettano d’accordo fra di loro, senza quelli come noi, che ci sono solo ogni tanto. Nell’accordo di Schengen noi non c’eravamo, ci siamo entrati dopo. E la stessa cosa è successa con l’accordo di Prum, che consente alle polizie di inseguire un fuggiasco anche oltre i confini e scambiarsi i dati sul Dna. L’ho firmato io per l’Italia e spero che il centrodestra me lo faccia passare, visto che il centrosinistra non ce l’ha fatta».

Come valuta le nuove norme sulla sicurezza del governo Berlusconi?
«Recepiscono per larghissima parte le mie misure. La grande preoccupazione di oggi è che l’azione repressiva, che va fatta, sia accompagnata dal lavoro—altrettanto indispensabile — per la solidarietà e l’integrazione ».

La preoccupa il clima che si è creato?
«È anche qui il rischio di regressione civile di cui ha parlato il capo dello Stato. Non puoi dire a un immigrato: "Tu devi lavorare per otto ore, e poi sparire". Quanto ai 18 mesi nel Cpt, o sono un’eccezione dovuta a particolari difficoltà di identificazione dello straniero, o diventano una detenzione priva di base costituzionale e comunitaria. È importante poi che prosegua il lavoro con il Comitato promotore del riconoscimento giuridico dell’Islam italiano, che assicura lealtà ai principi della Costituzione».

Qual è il suo giudizio su Berlusconi? Il fatto che il proprietario delle tv sia il capo del governo resta un’anomalia, o no?
«L’anomalia c’è. Che un uomo così sia destinato ad essere ricordato nei libri dopo Mussolini e prima di Giolitti è una cosa che colpisce. Però Berlusconi ha saputo incarnare un sentimento collettivo. Se fosse stato soltanto un tycoon sarebbe stato un’efemeride, come è accaduto all’ex premier thailandese. Ricordo il ’94 e l’atteggiamento dei politici più tradizionali: guardavano a Berlusconi come a uno entrato in un mondo non suo; "che ci fa qui, non è roba per lui". Ora, dopo quattordici anni, anche lui ormai fa parte di quel mondo; ma la sua forza è continuare a essere percepito come estraneo. Certo, si è preso cura anche dei suoi interessi privati; ma ha rappresentato molto di più. All’inizio si è offerto come un Prometeo, un liberatore per sé e per gli altri. Oggi, pur senza rinunciare alla retorica dei lacci e lacciuoli da sciogliere, ha offerto soprattutto protezione. È risultato più convincente di noi, quando dicevamo che l’Italia era in piedi e la politica doveva alzarsi. C’era un’Italia che non si sentiva in piedi, e lui l’ha interpretata meglio».

Rispetto agli altri leader più longevi, Berlusconi assomiglia di più agli italiani, aderisce a loro più che volerli cambiare, non crede?
«È così. Mussolini rispose all’insicurezza della piccola borghesia di allora con l’ambizione di riportare l’Impero sui colli fatali di Roma. Propose agli italiani di trasformarsi in un popolo guerriero e ne portò qualcuno a zappare un po’ di Etiopia e di Somalia. Già allora, il Calimero che arriva per ultimo e fa l’impero dei poveri... Berlusconi ha dato all’insicurezza degli italiani di oggi risposte diverse, più simmetriche. Ha mostrato adesione al loro familismo, alla loro voglia di meno tasse ma anche di più aiuto, compreso l’aiuto di Stato alla compagnia di bandiera, che soddisfa anche un certo loro nazionalismo. Pronto, con molta spregiudicatezza intellettuale, a predicare il mercato e a proteggere l’economia nazionale».

Quando vi siete conosciuti?
«Non me lo ricordo più. Comunque, quando ero sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Berlusconi e Craxi andavano di conserva».

Chi era il dominus tra i due?
«Entrambi si sentivano investiti di un destino comune. Rompere i monopoli preesistenti, nei rispettivi campi: Dc e Pci in politica; la Rai nel sistema televisivo. Le due cose sono andate di pari passo. Craxi ha sostenuto le tv commerciali e il loro radicamento; e credo, pur non avendole mai guardate molto, che le tv commerciali abbiano sostenuto il progetto politico di Craxi. Non che Berlusconi lo accontentasse sempre. Craxi si attendeva che lui chiamasse Montanelli un giorno sì e uno no, e Berlusconi mi diceva che si guardava bene dal farlo».

La vulgata vuole che con il Cavaliere abbiate sempre avuto un buon rapporto.
«Sì è vero, il rapporto con Berlusconi è sempre stato buono. Lui sa rendersi simpatico. E io sono sempre impressionato dalla sua vitalità. Per questo mi sono molto amareggiato quando ha creduto, o ha finto di credere, che avessi fatto le schede elettorali apposta per danneggiare lui e, oltretutto, pure il Pd. Come sempre, quando il capo identifica un bersaglio i sottopancia eccedono in zelo: di me hanno detto che andavo cacciato subito dal Viminale perché preparavo i brogli. Il giorno dopo le elezioni chiamai Gianni Letta. E gli feci osservare che la scheda era stata giudicata dagli elettori come la più chiara da molto tempo».

Di Craxi cosa scriveranno i libri di storia? E cosa pensa lei?
«Craxi sarà ricordato come un grande statista e un grande politico, che a causa delle gestione finanziaria del partito finì per rovinarsi e pagare anche per altri. In calce alle innovazioni degli Anni ’80 il suo nome c’è sempre. Mi piace ricordarne in particolare una: Milano, 1985, il Craxi dell’atto unico, che mette in minoranza la Thatcher».

E il ‘92? Craxi, e non solo, le hanno rimproverato di non aver difeso il Psi e il sistema politico dalla procura di Milano.
«Io ho fatto quello che era giusto fare. Davanti all’inasprirsi dell’azione giudiziaria penale, contro persone arrestate magari per un semplice contributo elettorale, ritenni giusto depenalizzare il finanziamento illecito, come accade in altri Paesi. Ma non potevo cancellare dal codice penale la concussione o la corruzione ».

Era il decreto Conso, che Scalfaro non firmò.
«Non lo firmò dopo il pronunciamento della procura di Milano. Fu un episodio riprovevole il veto di un gruppo di magistrati a una disposizione legislativa. Pochi giorni dopo vidi Borrelli alla Bocconi. Gli chiesi perché. Mi rispose che le loro indagini spesso partivano dal finanziamento illecito per arrivare alla concussione o alla corruzione. Replicai che quell’argomento provava troppo; se dal finanziamento si passava a concussione e corruzione il nostro decreto lasciava tutto al giudice penale. Fu inutile».

Che effetto le fa vedere oggi Di Pietro in Parlamento?
«L’ho avuto come collega nel Consiglio dei ministri. Un personaggio estroverso, che si impunta. Ha qualità politiche».

E Prodi?
«Prodi ha più ragioni per restare nei libri. È il presidente italiano che ha portato l’Italia nell’euro e il presidente europeo che ha allargato l’Europa ai paesi dell’Est. Ma io vedo soprattutto la creazione del Pd, che ha posto fine alla secolare e distruttiva divisione dei riformisti. C’è voluta la sua testardaggine di ciclista, ma con questo ha davvero cambiato la storia. E la storia, come spesso accade, appena nato il bambino l’ha affidato ad altri. Questi comunque restano i suoi achievements, le sue realizzazioni».

E quelli di Berlusconi?
«Finora sono stati più promessi che realizzati. Ora ha davanti cinque anni e il clima più favorevole per realizzarli davvero».

Aldo Cazzullo
02 giugno 2008

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